di Giuseppe Sottile
Fonte: Il Foglio, 26 febbraio 2016
Ricordate come cadevano le teste ai tempi di Tangentopoli?
Ricordate con quale ritmo e con quanta alterigia i pm ammanettavano corrotti e
corruttori, mafiosi e fiancheggiatori? Ricordate con quanto cinismo e con quale
clamore sputtanavano uomini politici e ladri di passo, traffichini e ruffiani,
colpevoli e innocenti?
Erano i giorni della rivoluzione e del furore giacobino,
delle tricoteuses in delirio e delle monetine lanciate in faccia a Bettino
Craxi. Ed erano soprattutto gli anni in cui l'immensa folla dei forcaioli non
vedeva altro dio se non la procura della Repubblica. Sì, quell'ufficio situato
al secondo piano del Palazzo di giustizia di Milano dove accanto a Saverio
Borrelli si stringevano le nuove divinità della giustizia sommaria: da Antonio
Di Pietro a Gherardo Colombo, da Gerardo D'Ambrosio a Piercamillo Davigo.
Tutti bravissimi e preparatissimi. Tutti zelanti,
onnipotenti e soprattutto intoccabili. Del resto, chi avrebbe mai potuto
toccarli? Quale giudice avrebbe mai trovato il coraggio di contestare un ordine
di cattura se, a quel tempo, bastava un avvertimento lanciato a mezzo stampa
dal potentissimo pool per mandare all'aria un decreto sulla carcerazione
preventiva appena varato dal governo? Eppure il codice Vassalli, quello entrato
in vigore nell'Ottantanove, per arginare e controbilanciare i larghi poteri
assegnati alle procure, aveva istituito in ogni tribunale l'ufficio del Giudice
per le indagini preliminari, meglio conosciuto come Gip.
Un ufficio di garanzia il cui compito principale è quello di
verificare se il magistrato inquirente svolge con equilibrio e serenità il
proprio lavoro e se nel fascicolo vengono inserite anche e soprattutto le prove
a favore dell'indagato. Una garanzia formalmente ineccepibile, tanto è vero che
il Pubblico ministero non può privare della libertà una persona: deve chiedere
l'arresto al Gip che, teoricamente, lo firma solo dopo avere valutato tutti gli
elementi messi insieme dall'accusa.
Prima domanda: quanti procuratori dei tanti che hanno
costellato con le loro iniziative quei giorni tremendi hanno avvertito il pugno
fermo del cosiddetto potere di controllo? Se qualcuno volesse scavalcare le
miserie della cronaca giudiziaria per confrontarsi con gli insegnamenti della
Grande Storia potrebbe rileggersi il "Journal d'un bourgeois de Paris sous
la Révolution", scritto a partire dal gennaio 1793, anno del Terrore, dal
cittadino Célestin Guittard, 67 anni, residente a Parigi in place
Saint-Sulpice. Il quale, da bravo possidente terriero, annota ogni giorno se
c'è un bel sole o se piove. Poi elenca gli ospiti che ha invitato a pranzo e,
nelle ultime righe, descrive anche i fatti e i fastidi della Rivoluzione: i
proclami, i processi, le rivolte, le teste tagliate.
Alle dieci e venti del 21 gennaio, quando in piazza viene
ghigliottinato il re, Guittard non batte ciglio: si limita a dire che fa freddo
e che il termometro segna tre gradi. Nel marzo del 1794 assiste all'esecuzione
di Hébert e di altri diciannove cospiratori ma non perde occasione per salutare
la nuova primavera. Da vero bourgeois vede soltanto quelli che cadono e quelli
che restano in piedi. Ma senza esaltazione e senza orrore: l'acqua lo bagna, il
vento lo asciuga. "Passerà", scrive a margine di ogni contabilità di
morte. E il giorno dopo ricomincia, magari annotando che "Mr. Genet m'a
apporté une culotte de peau noire turque".
Per carità, come si legge alla fine di un film ogni
riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente
casuale. Ma quanti Gip, durante la rivoluzione giustizialista degli anni
Novanta, se ne sono rimasti nel calduccio dei loro uffici a guardare da lontano
le teste che rotolavano nel paniere di tante inchieste nate male e cresciute
peggio, magari con l'aggiunta di una testimonianza non proprio cristallina o
con il colpo grosso di una confessione estorta a colpi di galera e altre
umiliazioni?
Acqua passata, si dirà. Ed è per questo, per non cadere cioè
nella trappola del latte versato che è forse più opportuno vedere che cosa sono
diventati i Gip ora che le procure, al pari delle quattro stagioni, non sono
più quelle di una volta e che i pubblici ministeri con tendenza alla sovra
esposizione si contano ormai sulle dita di una mano. I capi degli uffici non lo
ammetteranno mai ma, da Milano a Palermo, da Napoli a Firenze, i magistrati più
avveduti non hanno difficoltà ad ammettere che le procure, soprattutto negli
ultimi dieci anni, si sono molto indebolite. Sostanzialmente per due motivi.
Primo: perché è intervenuto un logoramento naturale: basti
pensare ad Antonio Di Pietro e alla sua parabola politica; oppure alla caduta
di Antonio Ingroia, il fantasioso procuratore aggiunto di Palermo che appena
due anni fa voleva alzare l'Italia con un dito ed è finito accucciato in un
posticino di sottogoverno messogli a disposizione dal suo fraternissimo amico
Rosario Crocetta, governatore della Sicilia. Secondo motivo: perché le procure giacobine,
durante la loro folgorante e spesso sbracata rivoluzione, ne hanno combinate di
cotte e di crude, fino a ingrottare nella mente stessa di quelli che pure
avevano agitato il cappio, il dubbio dell'abuso, delle forzature, delle regole
che si allentano e si restringono secondo l'interesse o l'opportunità del
momento. Obiettivamente, poteva scattare la controrivoluzione.
O, più semplicemente, una sana restaurazione del diritto. Ma
la debolezza delle procure non ha restituito centralità ai Gip. Anzi, in molti
casi li ha disorientati fino alle incongruenze più appariscenti, fino alle
polemiche spesso talmente ruvide da rasentare la rissa. Due esempi: uno lo
prendiamo da Palermo, l'altro da Catania. Prima di andare in Corte d'assise,
dove si trascina a fatica da quasi tre anni, il processo sulla fantomatica
Trattativa imbastito da Ingroia e poi lasciato in eredità a Nino Di Matteo, è
passato al vaglio di un Gip molto autorevole, Piergiorgio Morosini, che per
assurdo poteva rimandare tutti quei faldoni al mittente ma preferì accordare ai
baldanzosi inquirenti, così amati in quel tempo dallo star system di giornali e
televisioni, un minimo di fiducia.
E decise per il rinvio a giudizio. Tutto normale, si dirà.
Perché sullo sfondo si intravedono princìpi sacrosanti, come la dialettica tra
le parti e il libero convincimento del giudice. E invece no. Perché nella
stanza accanto a quella di Morosini, un altro Gip, Marina Petruzzella, si è
trovato dopo qualche mese a dovere giudicare la stessa Trattativa. Lo ha fatto
perché uno dei nove imputati, l'ex ministro democristiano Calogero Mannino, ha
chiesto il rito abbreviato. Ma dopo avere soppesato e valutato, per quasi due
anni, le carte che erano passate dalle mani di Morosini la dottoressa
Petruzzella è giunta alla conclusione opposta: della Trattativa c'è solo fumo e
niente arrosto.
Da qui l'assoluzione di Mannino per non avere commesso il
fatto. Più complicato e più legnoso l'esempio di Catania. Qui galleggiava da
anni un'inchiesta per concorso esterno contro Mario Ciancio, ricco editore del
quotidiano La Sicilia e bersaglio preferito di tutte le antimafie riunite. Nel
2012 la procura, stretta dai termini di legge, chiude la fase dei preliminari e
chiede l'archiviazione. Ma il Gip non ci sta e chiede un approfondimento delle
indagini. La procura acconsente e dopo due anni riporta il fascicolo nelle mani
del capo dell'ufficio, Nunzio Sarpietro che assegna la palla alla collega
Gaetana Bernabò Distefano. La quale, però, decide a sorpresa per
l'archiviazione di Ciancio e per una batosta senza precedenti al fumosissimo
reato del concorso esterno: per definirlo serve una legge che ancora non c'è,
scrive il Gip, in un sussulto di rivolta contro la banalità e il luogo comune.
Apriti cielo.
Le mura del Palazzo di giustizia cominciano a tremare e la
polemica si arroventa. Sarpietro non incassa e rilancia: "La negazione del
reato di concorso esterno", dice, "è una decisione del tutto
personale e isolata della dottoressa Bernabò Distefano, poiché tutti gli altri
giudici della sezione ritengono il suddetto reato ipotizzabile". Riapriti
cielo. Insorgono le Camere penali che invocano interventi drastici di Csm e
Associazione nazionale magistrati: dove è finita, si chiedono, l'autonomia del
giudice, chi garantirà da oggi in poi la sua libertà? Peccato.
La rivoluzione è morta e la controrivoluzione non si sente
neppure tanto bene. Il diario di Célestin Guittard - lo ricordiamo per non
perdere il filo della narrazione - si chiude nel dicembre del 1795. Il bilancio
del Terrore è disastroso, la retorica dei puri non lo incanta più. Avverte
nella testa solo un rumore, come un gran vento che soffia tra gli alberi senza
foglie. "Tous le beaux discours ne flattent plus l'oreille".
di Giuseppe Sottile- Fonte: Il Foglio, 26 febbraio 2016
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