"Les
prisons des écrivains", di Claudio Besozzi. Nelle cattedrali del
male
di Chiara Pasetti
Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2016
Il ricco e affascinante saggio "Les prisons des
écrivains" di Claudio Besozzi, specialista della questione carceraria,
propone una riflessione sul tema della prigione attraverso lo sguardo di poeti
e scrittori che hanno vissuto (Jean Genet tra gli altri) o immaginato (come
Charles Dickens) le "cattedrali del male". Prendendo in esame
duecento anni di scritti letterari, in particolare di area francese, italiana,
anglosassone e russa, vuole mostrare come è mutata la percezione del carcere
dal romanticismo alla contemporaneità.
Il concetto di "reclusione" è qui analizzato in
duplice senso: dallo sguardo "del fuori verso il dentro" si passa
inevitabilmente al modo in cui coloro che sono dentro, ossia i prigionieri,
percepiscono il fuori. In entrambi i casi, la prigione resta
un'istituzione-topos che genera paura e contemporaneamente curiosità morbosa,
senso di disprezzo e al contempo di colpa. Sempre, comunque, è "un pianeta
sconosciuto", come scrive Goliarda Sapienza, un fantasma che, secondo
Victor Brombert, "perseguita la nostra civiltà".
Nel testo si rivela così che da alcuni scrittori, tra cui
Stendhal, il carcere è stato dipinto come "un paradiso", uno spazio
protetto che consente di realizzare sogni e istanze che la società mira invece
a spezzare. Ma è anche "un inferno", come si legge nell'atroce e
autobiografico Nel ventre della bestia del "criminale letterato"
Abbot. Più spesso la prigione oscilla ambiguamente tra aspetti che potrebbero
sembrare positivi, tra i quali in primo piano la possibilità di potenziare la
creatività e la conoscenza, consentendo agli artisti di raccontare (e
denunciare) il dolore e la sofferenza, e aspetti, al contrario,
inequivocabilmente negativi; tra i tanti, il fatto che, in generale, le
pratiche e le strategie penitenziarie non solo non raggiungono gli obiettivi
preposti (decantati) dai legislatori di normalizzazione e reinserimento dei
prigionieri nella società, ma più ancora e più spesso distruggono i detenuti
stessi, fisicamente (lo raccontano, tra gli altri, Soljenitsyne, Jackson e
Abbot) o spiritualmente (Wilde, Döblin, Gramsci).
I detenuti, se in alcuni casi riescono a
"rieducarsi" e a sfuggire al "paradigma della recidiva" lo
devono soltanto a se stessi e non al sistema carcerario in cui sono stati
imprigionati, in ogni senso. Il lavoro di Besozzi induce a riflettere su noi stessi,
sulla società, e sui suoi, nostri fantasmi, criminali e non. E lo fa attraverso
la letteratura, il solo mezzo capace di scendere davvero al fondo e, come
ancora Baudelaire in Spleen, di svelare che "quando la terra è trasformata
in un'umida prigione", alla "Speranza", ormai irrimediabilmente
sconfitta, non resta che piangere, mentre "l'Angoscia atroce,
dispotica", trionfa, piantando "il suo nero vessillo" sul
prigioniero, cranio-anima ormai eternamente chinato-incrinata.
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