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giovedì 11 febbraio 2016


 



    


Libri: "Fine pena: ora", di Elvio Fassone. Un epistolario oltre le sbarre

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di Gianandrea Piccioli

Il Manifesto, 11 febbraio 2016

"Fine pena: ora" di Elvio Fassone, pubblicato da Sellerio. Uno scambio di lettere durato ventisei anni fra il mafioso Salvatore M. e il giudice che emise la sentenza di condanna all'ergastolo. Torino 1985, inizia il maxiprocesso alla mafia catanese: 242 imputati, un centinaio in stato di detenzione, gli altri a piede libero. Presidente della Corte d'Assise: Elvio Fassone. Tra gli imputati in gabbia: Salvatore M. (nome di fantasia, personaggio reale), il più antagonista, il più spavaldo e provocatore di tutti. Fassone e Salvatore, un giudice serio, garantista, colto, severo e umano e un ventisettenne ribelle e capo, nato nella parte sbagliata della società ("A noi che siamo maledetti, o la tomba o la galera.
Che vuole che ci aspetti, a chi nasce nel Bronx di Catania?"). Il confronto dura quanto il processo, circa due anni. Nel 1987 Fassone emette centotrenta condanne, di cui ventisei all'ergastolo. Tra queste ultime, quella a Salvatore M. Prima della sentenza, Salvatore dice al giudice: "Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l'avvocato, ed ero pure bravo".
Il giorno dopo la sentenza, Fassone scriverà a Salvatore e gli manderà un libro della sua biblioteca personale, Siddharta, sperando che il destinatario arrivi a leggere fino alle ultime pagine: "Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore".
Nasce così un rapporto epistolare che durerà ventisei anni e di cui ci dà conto uno straordinario libro di uno dei due protagonisti della vicenda, il giudice, pubblicato da Sellerio: Fine pena: ora (pp. 224, euro 14), che fin dal titolo si contrappone alla formula di prammatica nei certificati dei condannati all'ergastolo "Fine pena: mai". E qui c'è subito il tema che percorre in profondità, come una vena sotterranea, tutto il testo: il tempo, e il suo scorrere pieno di possibilità per chi è libero e assolutamente vuoto per chi è in carcere condannato a vita; in carcere il tempo ha la sola funzione di consumarsi, dice il giudice, ha un senso solo: quello di essere passato, non sviluppa le potenzialità, perde la sua dimensione essenziale, che è quella del futuro. È proprio su questa mancanza di futuro che Fassone, nell'appendice al racconto, basa le sue proposte di riforma del sistema, invitando a tener conto della distanza tra il momento del delitto e il momento dell'individuo, rifacendosi anche a una sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea che limita l'ergastolo a venticinque anni, previo riesame globale della personalità del condannato.
Il libro evita le facili e demagogiche secche del giustizialismo e del garantismo, parole buone solo per alimentare uno dei dibattiti politici e intellettuali più bassi e umilianti della nostra storia non solo giornalistica e televisiva. Fassone non dimentica la ferita atroce che il delitto incide nelle vittime, nei loro cari, nel corpo sociale tutto: è rigoroso come un puritano secentesco, attento alla sicurezza sociale, ma è anche investito dal senso della giustizia e pensa che la pena abbia, debba avere una valenza riabilitativa. Come è richiesto anche dalla nostra Costituzione. Non sostiene delle tesi, cerca solo di far riflettere sulle sofferenze non necessarie che il sistema carcerario, anche solo per automatismi burocratici, infligge al colpevole.
Ma tutto ciò affiora indirettamente, è un valore aggiunto del libro che avvince e commuove, invece, per l'intensità dei sentimenti che trasmette al lettore, pur nella sobrietà della scrittura o forse proprio per questa.
Senza filosofemi si sfiora il grande tema del destino, o del caso, che governa le nostre sorti: da che parte si nasce, le possibilità offerte ad alcuni e negate ad altri, l'ambiente che plasma le personalità, il tornare al punto di partenza, come in un tragico gioco dell'oca, per circostanze assolutamente indipendenti dalla nostra volontà e spesso stupide o fortuite o prodotte all'insuperabile ottusità della burocrazia o dalla pigrizia e dalla paura di chi dovrebbe invece discriminare e valutare caso per caso. E soprattutto, nelle lettere del giudice e del suo condannato, emerge, proprio dall'abisso che separa i due, il senso dell'umanità allo stato puro, libero da ogni sovrastruttura. Non hanno paura l'uno dell'altro. Salvatore si affida, il giudice si fida.
Memorabile, in proposito, la richiesta che, a processo ancora in corso, Salvatore fa di poter andare a salutare la madre morente, senza manette e con scorta in borghese, e il giudice acconsente e dà ordine alla scorta di restare sotto casa, senza entrare. E Salvatore torna, non scappa dal finestrino del bagno né si dilegua sui tetti, torna e quando il giudice passa accanto alla gabbia legge sulle sue labbra. "Sono tornato". La scommessa della fiducia è vinta da entrambi.
La voglia di riscatto di Salvatore si manifesta in tutta la sua condotta, frequenta tutti i corsi che il carcere organizza, spera di usufruire dei permessi per buona condotta, e dopo ventiquattro anni di carcere, dopo che anche la sua Rosi non ha retto agli spostamenti, alle lunghe attese con le altre donne fuori dal carcere, ai colloqui fugaci, e in un ultimo straziante colloquio gli dice che non ce la fa più ad attenderlo a oltre quarant'anni, ottiene finalmente per un breve periodo anche la semilibertà e può lavorare fuori dal carcere, presso un floricultore.
Ma il caso ancora una volta, lancia i dadi contrari. Salvatore non ha colpa, ma gli viene revocato l'art.21. Scrive Fassone: "Penso al bambino che costruisce un castello con le carte, ed è giunto al quarto piano, mai prima edificato, quand'ecco che passa un individuo e urta il tavolo per sbadataggine e tutto crolla. Il bambino piange, noi lo consoliamo, era solo un gioco, non è una tragedia, ora lo rifacciamo. È vero, ma la vita di chi è in galera da venticinque anni non è un gioco".
Salvatore tenta il suicidio, viene salvato all'ultimo momento da una guardia. Ma la sua resistenza interiore si è spezzata: non spera più e di questo si sente quasi colpevole: "L'altra settimana ne ho combinata una delle mie: mi sono impiccato. Mi scusi". Il giudice viene eletto al Csm, diventa senatore, ora è in pensione.
 



 



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