Il fatto accadde tra Cancello Arnone e Casal di
Principe
il 25 aprile 1952
Mario Della Corte, Luigi Della Corte e Antonio Natale, accusati in
concorso tra loro di aver ucciso, con un colpo di pistola diretto contro Antonio Bifulco ( che scappando si rifuggiò
nel palazzo della vittima) cagionato
per errore di identificazione la morte
di Gennaro Caterino.
Casal di Principe – Il mattino del 25 aprile del 1952, Guido Caterino, con i manovali Antonio
Bifulco, il fratello Angelo e Ernesto Corvino, alla guida di un
camion, di proprietà di Giovanni
Caterino, eseguì il trasporto di un carico di pozzolana ad un cantiere per
costruzioni edili della ditta Ferraiuolo, in Cancello Arnone. Il capo cantiere Luigi Della Corte, cinquantenne, rilevò
che il carico era incompleto e l’autista rispose che una ruota poco efficiente
aveva impedito di fare un carico maggiore; ad ogni modo, si sarebbe potuto
misurare il quantitativo di quella pozzolana. La discussione fu però piuttosto vivace. Poi
scaricatone parte, sorse disputa circa il luogo nel quale si sarebbe dovuto
deporre quella rimanente e in un certo momento, Angelo Bifulco, secondo il Della Corte, avrebbe emesso un fischio,
secondo gli altri, quasi un suono inarticolato, un “sei”…prolungato e seguito
da “ui…”, cioè dall’appellativo Guido, (nella forma dialettale tale, come
innanzi, era il nome del camionista) Della Corte lo ritenne un insulto e protestò vibratamente, mentre
dall’altra parte, si protestò non meno, assumendosi le erroneità, se non l’arbitrarietà
della interpretazione di quel suono, che era servito soltanto a richiamare il
Caterino, ed a fargli gli opportuni avvertimenti perché eseguisse, senza intralci, e senza determinare pericoli, la
manovra di spostamento del veicolo.
Secondo
i quattro camion, Della Corte avrebbe dato di piglio ad una pala ed avrebbe
minacciato “Ti cortelleo”, sarebbe
poi andato furiosamente nel casotto del guardiano per armarsi del suo fucile,
ma sarebbe stato tempestivamente fermato dal Caterino e da altri. Secondo
quelli che lavoravano alle dipendenze di Della Corte (erano di Cancello Arnone,
mentre gli altri erano di Casal di Principe) uno dei suindicati tre manovale e
non già Della Corte avrebbe, nonostante il richiamo del Caterino, dato di piglio
ad una pala ed avrebbe, inoltre sfidato Della Corte incitando ad uscir fuori
dal cantiere. Le due versioni sono specialmente affidate a Ernesto Corvino per i primi che, ha messo dirette ragioni di
ostilità per gli imputati e, per gli altri a Armando Martinelli, che si è dimostrato meno reticente.
Il
Corvino così si espresse: “il capo cantiere di rimarcò che il carico era
inferiore al normale e che avrebbe provveduto a pagare meno del consueto. Nel
rilevare ciò fu oltremodo violento contro di lui e accompagnò il suo dire con
una infinità di ingiurie, frammiste a bestemmie. Per intervento dell’autista,
si placò ma, poco dopo per erronea interpretazione di un suono vocale fatto da Angelo Bifulco - che erroneamente ritenne a lui diretto – andò
su tutte le furie e lo ingiuriò violentemente provocando l’intervento del fratello Antonio Bifulco, che vede anche ingiuriato e minacciato
verbalmente dal Della Corte che tentò anche di impossessarsi di un fucile da
caccia, senza riuscirci per l’intervento di
Guido Caterino. Sedato l’alterco, Della Corte chiese ad Antonio Bifulco che cosa possedeva e
questi rispose che non aveva nulla all’infuori della pelle. Al che Della Corte
rispose: “Ed io questa sera te la
leverò”. Poi si chetò e, richiesto da Guido
Caterino se si dovevano eseguire altri trasporti sommessamente e quasi
mestamente disse di sì. Eseguimmo pertanto altro carico di sabbia e durante lo
scarico Della Corte apparve calmissimo, forse ripensando che si era comportato
male verso di noi.
Il
Martinelli sentito anche dai carabinieri di Casal di Principe (ma non da quelli
di Cancello Arnone suo paese) dichiarò che il capocannoniere fece presente al
Caterino di scaricare in un altro posto…
Tra i due nacque una discussione, poi modificò dicendo che invece questa nacque precisamente con i manovali. I manovali
risposero male e davano del “tu” al capocantiere, il quale si risentì e disse:
“ Voi non parlate con vostro fratello”.
Uno dei manovali prese per il petto
Della Corte e disse: “ Come? tu sei meglio di me?” e lo
invitò ad uscire fuori della strada per chiarire l’affronto. Della Corte non
aderì, ed allora gli operai presero dei
badili per colpirlo. L’autista Caterino intervenne come paciere e fece
osservare ai manovali che dovevano
rispettare il capocantiere. Quando essi salirono sull’autocarro per andare via
uno di loro, il più anziano, Antonio Bifulco disse al Della Corte: “Quando verrai a Casale ti faremo mettere
una coscia di legname”. Il guardiano del cantiere Giovanni Cipullo nel cui casotto secondo la prima versione Della Corte
ha corso per munirsi di fucile (dichiarazione conforme a quanto dichiarato dal
Martinelli) dirà poi all’inquirente che non aveva nessun arma non avendone
denunziate e non avendo la licenza per portarne.
La sera, in Casal di Principe e propriamente nella Piazza principale,
Della Corte insieme con il figlio Mario di
anni 26 (e secondo l’accusa anche del nipote Antonio Natale figlio di una sua cognata), avvicinò minacciosamente
attori Antonio Bifulco, egli ed il figlio minacciarono spianandogli contro
delle pistole (una nera o quasi, nichelata quello del giovane) Bifulco, impaurito cercò di sottrarsi ad ogni pericolo confondendosi
tra le persone che affollavano a quell’ora la piazza e si diresse verso una
strada per fuggire da quel luogo ma ne fu impedito dal Natale; tornato sui propri passi si avviò di corsa
verso via Cadorna, pedinato dai tre si infilò in uno dei primi portoni trovato aperto, che dava ingresso ad un cortile, oltre il quale era la casa di Guido Caterino. Pregò la madre di
costui di sbarrare il portone cosa che lei fece; in un vano adibito a stanza da pranzo mangiava il
padre di Caterino nome Gennaro con
rispettivo figlio e fratello Luigi e tale Pasquale
D’Amore.
Gennaro Caterino, dopo che egli ebbe spiegato il motivo della
sua apparizione e del proprio orgasmo,
cercò di tranquillizzarlo, gli fece versare del vino. Frattanto nel fabbricato
si sparse la voce di quella novità e Gennaro
Minucci che sta a cenando, avvertito dalla moglie, che a sua volta era
stato informato da una nipote, Lidia Cirillo si alzò da tavola è
cautamente uscì sulle scale (abitava ai piani superiori) e da un finestrone,
che guarda sulla detta strada, vide, in prossimità del muro che fronteggia il
detto portone tre persone armate. Si
affacciò cautamente temendo di essere
scambiato per la persona che quelli mostravano di aspettare. Tornò nella sua
casa e dopo qualche minuto sentì di sparare. Era accaduto intanto che Gennaro Caterino, anche lui
cautamente, attraverso il cortile, largo una trentina di metri, aveva
raggiunto il portone aveva aperto la porticina, traendola si era piegato per sporgere
il capo per guardare sulla via, allorché da uno di quei tre era partito
un colpo di pistola ed egli era stato colpito alla regione sopra mammaria destra
a circa due dita dalla parasternale. Morì poco dopo.
I tre intanto si dileguarono nella direzione opposta a quella da
dove erano venuti. Antonio Bifulco, impressionato ancora maggiormente temendo
di subire offese da parte dei congiunti del Caterino per essere stato anche lui
involontariamente la causa di quella disgrazia lestamente uscì e scomparve.
Dall’autopsia operata dal perito professor Francesco
Tarsitano (coadiuvato dai dottori Giovanni
Burrelli e Mario Pugliese) risultò
che il colpo di arma da fuoco dal secondo spazio intercostale, pressando il
polmone destro, si era diretto alla regione toracica posteriore - sesta
costola - lungo la scapola destra con un
tramite quindi dall’alto in basso ed alquanto
da sinistra a destra ed era stato tirato da breve distanza ma da oltre
la zona di “bruciapelo”. Il feritore -
così giudicò il perito - si era trovato su di un piano più elevato
rispetto alla vittima oppure questa si era dovuto trovare col tronco inclinato
in avanti o seduto o in ginocchio o addirittura accovacciata a terra. Furono
rinvenuti sul posto un bossolo di una pallottola di pistola Beretta calibro nove.
Vi furono varie testimonianze. Francesco Argine dichiarò che nella piazza ad una certa distanza da lui questionava un
gruppo di persone ad un tratto Mario
Della Corte (detto il figlio del punteruolo) armato di pistola aveva
inseguito Antonio Bifulco per il
Corso Umberto. Paolina Pagano, la fruttivendola sedicenne, dichiarò che andando
per via Cadorna verso la piazza incontrò due persone non fuggivano inseguito l’una
dall’altra che impugnava una pistola. Ambrogio
Caterino, barbiere, cognato della Pagano, dal suo salone, tra Corso Umberto, e via Cadorna udì un colpo e sentì che in un crocchio di giovani si
diceva “correvano uno davanti e due indietro”. Antonio Bifulco sull’incidente del 25 mattina sul cantiere di
lavoro - aggiunse a quanto già detto – che alla cattive parole di Della Corte aveva
risposto: “ Che hai mangiato di grasso?” ed
il primo l’aveva invitato a scendere dal camion e minacciandolo di fargli una “faccia di schiaffi”, di rimando io ho detto di non poter competere
con lui che era vecchio. Risentito Della Corte era andato nel casotto per
armarsi essendo stato impedito aveva dichiarato che però la sera gli avrebbe
tirato una schioppettata. Il farlo andare con una gamba di legno per lo sparo
di qualche colpo era stato la sua risposta. Sui fatti della sera aveva
precisato che Giovanni Caterino aveva raccomandato di lasciare stare lo
“sboccacciato”.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta
La Corte condannò Mario Della Corte ad anni 17
di reclusione; ad anni 10 Luigi e anni 6
(minima partecipazione) Antonio Natale.
La Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere, composta dal presidente Giovanni Morfino, giudice a latere Victor Hugo de Donato e dai giudici popolari: Domenico
Sgambati, Francesco Cerreto, Pietro Borragine, Michele Izzo, Nicola Caiazzo e
Michelangelo Bochicchio, pronunciò
la sentenza di condanna nei confronti di Mario
Della Corte, di anni 27, contro il
padre Luigi Della Corte, di anni 50 e
di Antonio Natale, di anni
21, accusati, in concorso tra loro di
aver ucciso, con un colpo di pistola diretto contro Antonio Bifulco cagionato per
errore di identificazione la morte di Gennaro Caterino. Dopo la parte civile,(massimo della pena) la
requisitoria del pubblico ministero, ( 21 anni per Luigi, 19 anni per Mario e
11 anni per il Natale) e le arringhe, (particolare valore
sociale, attenuanti generiche, provocazione, errore di parsona) la Corte condannò Mario Della Corte ad anni
17 di reclusione; ad anni 10 per Luigi e anni 6 (minima partecipazione) per
Natale. In appello le pene furono di 14 anni per Luigi, di 12 anni per Mario e
6 per Antonio Natale. In grado di appello – quattro anni dopo il delitto – la
Corte (Presidente, Ugo Solimene;
giudice a latere, Vittorio Caggiano; procuratore generale, Roberto Angeloni) le
cose andarono diversamente.
“Nel complesso delle prove
acquisite risulta all’evidenza - così sottolineò la Corte d’appello nel suo verdetto - che tutti e tre gli imputati parteciparono
al reato e che il loro comune proposito fu quello di sopprimere Antonio Bifulco (Gennaro Caterino fu scambiato per lui) e che non vi fu alcuna
necessità di difesa vera o supposta che essi reagirono in stato d’ira determinato
in Luigi Della Corte, e quindi
diviso dagli altri due imputati; suoi congiunti, dall’ingiusto comportamento
del detto Bifulco che però non ricorse alcun motivo di particolare valore
morale o sociale. Che minima fu la partecipazione dell’imputato Natale. Che va
più congruamente valutato la parte avuta da Mario Della Corte ed operata di conseguenza una maggiore
diminuzione di pena. Subito si appalesa, anche ad una modesta attenzione la
falsa contraddittoria e quindi
inconsistente impostazione data alla
vicenda da Luigi Della Corte, in rapporto all’episodio nel mattino, più
propriamente alla sua entità ed al suo
potere causativo. Invero egli si è adoperato a) da una parte di minimizzarlo
per evitare che potesse inserire un motivo di rancore e di vendetta, tale da
ripiegare la sua voglia od il bisogno di
riferire l’accaduto ai propri congiunti, oppure un contegno atto a suscitare in costoro
la preoccupazione dell’ansia di conoscere le cause e a determinare quindi
diversità di comunicazioni e rivelazioni; e dall’altra, nel contempo di
conferirgli notevole rilevanza al fine di conseguire l’attenuante della
provocazione e, poi, di sostenerla e difenderla in caso di gravame”. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati
gli avvocati: Giovanni Porzio, Vittorio
Verzillo, Alfonso Raffone, Enrico Altavilla, Giuseppe Garofalo e Ciro
Maffuccini.
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