OMICIDIO A SCOPO DI RAPINA FATTO SINGOLARE PER LA ZONA
Il delitto accadde il 9 dicembre del 1951 tra San Cipriano e Casal di Principe
Fu assassinato un agricoltore, Luigi Schiavone per mano dei fratelli
Armando e Amedeo Galoppo. L’uomo si difese ma fu ucciso con la sua arma
dai due malviventi
Casal di
Principe
- Nel pomeriggio del 9 dicembre del 1951, Francesco
Simeone, transitando lungo la strada
provinciale che da Casal di principe mena al ponte “Annechino”, alla contrada
“Mandrini”, scorgeva sul ciglio della
provinciale, all’inizio di un vialetto, che mena alla masseria di Natale
Bernardo, bocconi per terra il contadino
Luigi Schiavone il quale perdeva
sangue da una vasta ferita alla bocca. Avvertiti dal Simeone accorrevano sul
posto il guardiacaccia Bernardo Corvino
e varie altre persone che profittando
del passaggio di un biroccio vi adagiarono sopra il ferito avviandolo in paese. Alle domande del Corvino lo Schiavone con
gesti e con qualche parola stentatamente pronunciata fece capire di essere
stato ferito da Armando Galoppo. Intanto il Corvino ed altri notarono macchie
di sangue lungo il vialetto che porta alla masseria del Bernardo Natale dove dormiva lo Schiavone
colono del fondo. Sulla soglia della porta trovarono una sedia macchiata di
sangue ed analoghe macchine per terra mentre in corrispondenza della serratura
notarono impronte di dita insanguinate.
Ne
dedussero che il povero Schiavone, dopo essere stato ferito, aveva chiuso la
porta a chiave, cercando di raggiungere la provinciale in cerca di soccorso, ma
le forze gli erano venute meno e si era accasciato al suolo all’imbocco del
dialetto. Ai carabinieri che si recarono a casa del ferito appena questi vi
giunge lo stesso fece capire di essere stato ferito a fucilate dai fratelli Armando e Amedeo Galoppo. Il sanitario chiamato di urgenza riscontrò una vasta ferita alla connessione
labiale sinistra a forma di cratere con asportazione di un grosso lembo cutaneo
sia del labbro superiore di quello inferiore e ferite analoghe inflitte alla
regione crurale sinistra. Dopo sommarie medicature lo Schiavone veniva avviato
all’ospedale di Aversa, che rilasciava analogo reperto dove però circa mezz’ora dopo decedeva. Sul posto
del delitto si revava il Pretore che
dopo aver constatato le macchie di sangue, lungo il Vialetto, sulla soglia e
sui battenti della porta d’ingresso, già rilevata dal Corvine e dagli altri,
faceva aprire la porta con la chiave che lo Schiavone ritornando in paese aveva
dato al padrone dando atto nell’apposito verbale che la masseria era composta da un vano a pianterreno e da uno superiore al quale si accede mediante
una scala dove lo schiavone dormiva.
Nell’interno del vano a pianterreno notarono varie gocce di sangue
che dall’ingresso confluirono a chiazze nei pressi di un cassone situata a
circa 2 m. dalla parete di fronte all’ingresso e sottostante alla scala che
porta al vano superiore. Sul cassone venne notato una impronta di mano
insanguinata ed Esito o tali
accertamenti si era saputo chealtre macchie di sangue esistevano fra tale punto
e l’accesso al pollaio di fronte alla porta d’ingresso. Nei pressi del pollaio
fu notata un’altra chiazza di sangue; cinque denti e cinque pezzi di altri
denti nei pressi del cassone fu inoltre
rinvenuta una sedia rovesciata,
una forca a quattro denti, sul
cui manico vi era una gocce di sangue, una testa di pipa di
terracotta rotta e, sotto al
cassone, la relativa cannuccia sporca di
sangue. Nulla di anormale al piano superiore in un cassetto del comodino furono
rinvenute alcune cartucce calibro 16 ed appesa al muro la giacca del povero Schiavone,
nella cui tasca fu trovata la somma di L. 120.000. La finestra di tale vano che
affaccia sulla parte opposta dell’ingresso fu trovata aperta, mentre Maria De Vito, moglie dell’ucciso,
assicurò che ella poco prima del delitto, nel tornare in paese, accompagnata dal
marito fino alla strada provinciale, aveva avuto cura di chiuderla. In esito a
tali primi accertamenti i carabinieri di Casal di principe verso la mezzanotte
dello stesso 9 dicembre fermarono Armando
Galoppo traducendolo in caserma, sottoposto ad interrogatorio, si protestò
innocente, dando anche un alibi che però non trovò conferma. Intanto i
carabinieri accertarono che i due fratelli Galoppo, uno dei quali armato di fucile
da caccia ad una canna, all’avancarica, erano stati visti, verso le ore 14:30
da Tommaso Zara e Luigi Schiavone (omonimo della vittima) circa
200 m. lontano dal fondo dove era stato poco prima notato dallo Zara intento a raccogliere legna secca. La mattina
del successivo 12 dicembre procedettero anche al fermo dell’altro fratello Alfredo Galoppo, il quale si dichiarò egualmente ignaro di
tutto. Senonché, l’altro fratello, venuto a conoscenza del fermo di quest’ultimo
si decise a confessare di aver effettivamente ucciso lo Schiavone assumendo
però, che dopo l’incontro con lo Zara e con lo Schiavone (omonimo dell’ucciso) avevano
proseguito il loro cammino quando improvvisamente erano stati affrontati dal
colono del Natale ( la vittima, appunto) che spianato il fucile a retrocarica
calibro 16, di cui era armato, gli aveva ingiunto di abbandonare lo schioppo e
di andare verso la masseria per un preteso furto di legno di pioppo di cui lo
sospettava. Giunti davanti alla
masseria era riuscito con mossa fulminea ad afferrare l’arma impugnata dallo Schiavone,
mentre il fratello, raccattato lo schioppo di loro proprietà, aveva fatto fuoco
colpendo lo Schiavone all’inguine. Intanto, nell’intento di disarmare quest’ultimo,
era partito un colpo che aveva raggiunto l’avversario alla bocca.
Questa la
loro versione ma secondo gli inquirenti il racconto mostrava molte falle. In
base alle indicazioni dei due indiziati i carabinieri rintracciarono il fucile tolto allo Schiavone, mancante del
copricanna che invece fu rinvenuto, con la cartuccia inesplosa, contenuta nel
fucile medesimo in casa dei due germani. In esito alle indagini esperite dai
carabinieri si convinsero che i due germani introdottisi nella casa colonica
attraverso la finestra del vano superiore allo scopo di commettere un furto
erano stati sorpresi dallo Schiavone inopinatamente rientrato in casa ed essi
lo avevano soppresso. Pertanto con il rapporto
in data 20 dicembre successivo denunciavano in stato di arresto i due germani
per omicidio a scopo di rapina nonché per porte ed omessa denuncia di arma.
Venne, nel frattempo, disposta una perizia balistica sulle armi e sulle
munizioni repertate. Il perito accertò che nella sola canna destra del fucile
di proprietà dell’ucciso calibro 16 risultava essere avvenuta una esplosione
recente. Si escluse che la canna dello schioppo potesse essere adoperata in un
tempo prossimo sia per il suo notevole deterioramento sia perché completamente
occlusa da componenti di carica. Espresse quindi l’avviso che lo Schiavone
poteva essere stato colpito dal colpo che risultava esploso dal fucile di sua
proprietà; mentre l’altro colpo doveva essere stato sparato con un fucile
diverso dai due in giudiziale sequestro. Maria
De Vita, moglie della vittima,
dichiarò che dopo di essersi recata in campagna per portare il desinare al
marito, era ripartita alla volta del paese verso le 14, accompagnato da costui,
che eseguiva lavori campestri nei pressi della masseria, fino alla strada provinciale.
Aggiunse che prima di ripartire chiuse la finestra del vano superiore e che in
tale locale il marito era solito tenere il fucile, che mai aveva sentito
parlare di furti di legna e tantomeno di pioppi che in quel fondo non
esistevano affatto. I testimoni confermarono interamente le dichiarazioni
raccolte dai verbalizzante. Compiuta la formale istituzione i due imputati
furono rinviati davanti alla corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere per
rispondere di concorso in omicidio a scopo di rapina, di rapina del fucile di
pertinenza dello Schiavone, di detenzione di arma da fuoco e di porto di essa
senza licenza, reati debitamente contestati.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
PENA ESEMPLARE PER I FRATELLI ASSASSINI
30
anni per Armando ed anni 16 per
il più giovane Amedeo.
La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, composta da Giovanni Morfino, presidente; Renato Mastrocinque, giudice a latere; Alfonso Del Mastro, Luigi Cirillo, Amedeo
Taglianetti, Pasquale Centore, Luigi Cerbo e Luigi Ghidella, giudici
popolari; pubblico ministero Nicola
Damiani; in data 18 gennaio 1955 emise la sentenza di condanna nei
confronti di Armando Galloppo, di
anni 25, da Casal di Principe e il fratello Amedeo Galloppo, di anni 19, accusati di omicidio a scopo di rapina
nei confronti di Luigi Schiavone,
delitto avvenuto il 9 dicembre del 1951, ad anni trenta per Armando ed anni 16
per il più giovane Amedeo.
In effetti la sentenza appellata dagli imputati (che
lamentavano l’eccesiva pena inflitta) e dal pubblico ministero (che lamentava
la mancanza dell’ergastolo per il primo e trenta anni per il secondo) fu
totalmente confermata dai giudici di secondo grado. “L’esame di questa Corte – rimarcarono
i giudici d’Appello - potrebbe dirsi
esaurito ma per completezza di indagini non sembra del tutto fuor di luogo
ricostruire l’episodio secondo quella che alla Corte sembra l’unica possibile
soluzione. I due imputati e specialmente il più grande adusati al furto,
pensarono di far man bassa su quanto di facilmente asportabile si trovava nella
masseria, approfittando che il colono doveva trovarsi lontano. E quindi, l’uno,
con l’aiuto dell’altro, scalò la finestra, penetrando nell’interno. Nel
frattempo però il povero colono, ignaro della triste sorte che lo attendeva,
ebbe la malinconica idea di tornare nello sua masseria, infilando la chiave
nella toppa e penetrando nell’interno mentre fumava tranquillamente la sua pipa.
Quello dei due fratelli che si trovava
dentro, non avendo altra via di scampo, sicuro ormai di essere stato scoperto,
nel sentire la chiave girare nella toppa, afferrò rapidamente il fucile dello
stesso colono e dai primi gradini, in basso della scala, fece partire un colpo
che dovette attingere lo schiavone alla bocca, schizzandone fuori alcuni denti e
facendo cadere a terra la pipa, la cui testa, staccata dalla cannuccia, fu
trovata rotta e sia essa che la cannuccia furono trovate macchiate di sangue.
Il vecchio colono, per quanto ferito, dovette a avventarsi contro
l’avversario, impegnando con lui una violenta colluttazione, in modo da
impedirgli di sparare il secondo colpo. Così si spiegano le numerose unghiate
che furono riscontrate sul viso del povero colono, e, forse, anche la ferita
d’arma da taglio che si presentava sul braccio. Così si spiegano anche le
impronte di una mano insanguinata sul cassettone della sedia rovesciata. La
lotta però fu breve di breve durata, perché l’altro fratello, rimasto fuori, il
quale doveva necessariamente tenere il fucile ad una canna, all’avancarica, di
loro proprietà, accorso, sparò il colpo della sua arma contro il vecchio
colono, attingendo alla regione femorale e facendolo molto verosimilmente
cadere a terra. Dopo i due fuggirono portando con sé l’uno il proprio fucile e l’altro quello del
vecchio colono del quale si era servito per sparare il primo colpo”. I giudici
della Corte dci Assise di Appello di Napoli nel loro verdetto confermarono in
pieno sia l’impianto accusatorio della sezione istruttoria e sia il responso
finale della Corte sammaritana. E nonostante la strenua difesa di valenti
avvocati penalisti dell’epoca le pene furono durissime. Nei
tre gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: Enrico Altavilla, Giovanni Porzio, Luciano Pesce, Generoso Iodice, Ciro Maffuccini, Alberto Martucci e Alfredo De Marsico.
Nota:
Didascalia foto: nell’ordine Sen. Avv. Giovanni Porzio , Sen. Avv. Generoso Jodice, Avv. Prof. Enrico Altavilla
Fonte: Archivio di Stato di Caserta
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