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domenica 29 maggio 2016



 OMICIDIO A SCOPO DI RAPINA FATTO SINGOLARE PER LA ZONA


Il delitto accadde il 9 dicembre del 1951 tra San Cipriano e Casal di Principe



Fu assassinato un  agricoltore, Luigi Schiavone per mano dei fratelli Armando e Amedeo Galoppo. L’uomo si difese ma fu ucciso con la sua arma dai  due malviventi


Casal di Principe - Nel pomeriggio del 9 dicembre del 1951, Francesco Simeone,  transitando lungo la strada provinciale che da Casal di principe mena al ponte “Annechino”, alla contrada “Mandrini”,  scorgeva sul ciglio della provinciale, all’inizio di un vialetto, che mena alla masseria di Natale Bernardo, bocconi  per terra il contadino Luigi Schiavone il quale perdeva sangue da una vasta ferita alla bocca. Avvertiti dal Simeone accorrevano sul posto il guardiacaccia Bernardo Corvino  e varie altre persone che profittando del passaggio di un biroccio vi adagiarono sopra il ferito avviandolo in paese.  Alle domande del Corvino lo Schiavone con gesti e con qualche parola stentatamente pronunciata fece capire di essere stato ferito da Armando Galoppo. Intanto il Corvino ed altri notarono macchie di sangue lungo il vialetto che porta alla masseria del  Bernardo Natale dove dormiva lo Schiavone colono del fondo. Sulla soglia della porta trovarono una sedia macchiata di sangue ed analoghe macchine per terra mentre in corrispondenza della serratura notarono impronte di dita insanguinate.
Ne dedussero che il povero Schiavone, dopo essere stato ferito, aveva chiuso la porta a chiave, cercando di raggiungere la provinciale in cerca di soccorso, ma le forze gli erano venute meno e si era accasciato al suolo all’imbocco del dialetto. Ai carabinieri che si recarono a casa del ferito appena questi vi giunge lo stesso fece capire di essere stato ferito a fucilate dai fratelli Armando e Amedeo Galoppo. Il sanitario chiamato  di urgenza riscontrò una vasta ferita alla connessione labiale sinistra a forma di cratere con asportazione di un grosso lembo cutaneo sia del labbro superiore di quello inferiore e ferite analoghe inflitte alla regione crurale sinistra. Dopo sommarie medicature lo Schiavone veniva avviato all’ospedale di Aversa, che rilasciava analogo reperto dove  però circa mezz’ora dopo decedeva. Sul posto del delitto si revava  il Pretore che dopo aver constatato le macchie di sangue, lungo il Vialetto, sulla soglia e sui battenti della porta d’ingresso, già rilevata dal Corvine e dagli altri, faceva aprire la porta con la chiave che lo Schiavone ritornando in paese aveva dato al padrone dando atto nell’apposito verbale che la masseria era  composta da un vano a pianterreno  e da uno superiore al quale si accede mediante una scala dove lo schiavone dormiva.

 Nell’interno del vano a pianterreno notarono varie gocce di sangue che dall’ingresso confluirono a chiazze nei pressi di un cassone situata a circa 2 m. dalla parete di fronte all’ingresso e sottostante alla scala che porta al vano superiore. Sul cassone venne notato una impronta di mano insanguinata ed  Esito o tali accertamenti si era saputo chealtre macchie di sangue esistevano fra tale punto e l’accesso al pollaio di fronte alla porta d’ingresso. Nei pressi del pollaio fu notata un’altra chiazza di sangue; cinque denti e cinque pezzi di altri denti nei pressi del cassone fu inoltre  rinvenuta una sedia rovesciata,  una forca a quattro denti,  sul cui manico vi era una gocce di sangue,  una testa di  pipa di  terracotta rotta e,  sotto al cassone,  la relativa cannuccia sporca di sangue. Nulla di anormale al piano superiore in un cassetto del comodino furono rinvenute alcune cartucce calibro 16 ed appesa al muro la giacca del povero Schiavone, nella cui tasca fu trovata la somma di L. 120.000. La finestra di tale vano che affaccia sulla parte opposta dell’ingresso fu trovata aperta, mentre Maria De Vito, moglie dell’ucciso, assicurò che ella poco prima del delitto, nel tornare in paese, accompagnata dal marito fino alla strada provinciale, aveva avuto cura di chiuderla. In esito a tali primi accertamenti i carabinieri di Casal di principe verso la mezzanotte dello stesso 9 dicembre fermarono Armando Galoppo traducendolo in caserma, sottoposto ad interrogatorio, si protestò innocente, dando anche un alibi che però non trovò conferma. Intanto i carabinieri accertarono che i due fratelli Galoppo, uno dei quali armato di fucile da caccia ad una canna, all’avancarica, erano stati visti, verso le ore 14:30 da Tommaso Zara  e Luigi  Schiavone (omonimo della vittima) circa 200 m. lontano dal fondo dove era stato poco prima notato dallo Zara  intento a raccogliere legna secca. La mattina del successivo 12 dicembre procedettero anche al fermo dell’altro fratello Alfredo Galoppo,  il quale si dichiarò egualmente ignaro di tutto. Senonché, l’altro fratello, venuto a conoscenza del fermo di quest’ultimo si decise a confessare di aver effettivamente ucciso lo Schiavone assumendo però, che dopo l’incontro con lo Zara e con lo Schiavone (omonimo dell’ucciso) avevano proseguito il loro cammino quando improvvisamente erano stati affrontati dal colono del Natale ( la vittima, appunto) che spianato il fucile a retrocarica calibro 16, di cui era armato, gli aveva ingiunto di abbandonare lo schioppo e di andare verso la masseria per un preteso furto di legno di pioppo di cui lo sospettava.   Giunti davanti alla masseria era riuscito con mossa fulminea ad afferrare l’arma impugnata dallo Schiavone, mentre il fratello, raccattato lo schioppo di loro proprietà, aveva fatto fuoco colpendo lo Schiavone all’inguine. Intanto, nell’intento di disarmare quest’ultimo, era partito un colpo che aveva raggiunto l’avversario alla bocca. 

Questa la loro versione ma secondo gli inquirenti il racconto mostrava molte falle. In base alle indicazioni dei due indiziati i carabinieri rintracciarono  il fucile tolto allo Schiavone, mancante del copricanna che invece fu rinvenuto, con la cartuccia inesplosa, contenuta nel fucile medesimo in casa dei due germani. In esito alle indagini esperite dai carabinieri si convinsero che i due germani introdottisi nella casa colonica attraverso la finestra del vano superiore allo scopo di commettere un furto erano stati sorpresi dallo Schiavone inopinatamente rientrato in casa ed essi lo avevano soppresso.  Pertanto con il rapporto in data 20 dicembre successivo denunciavano in stato di arresto i due germani per omicidio a scopo di rapina nonché per porte ed omessa denuncia di arma. Venne, nel frattempo, disposta una perizia balistica sulle armi e sulle munizioni repertate. Il perito accertò che nella sola canna destra del fucile di proprietà dell’ucciso calibro 16 risultava essere avvenuta una esplosione recente. Si escluse che la canna dello schioppo potesse essere adoperata in un tempo prossimo sia per il suo notevole deterioramento sia perché completamente occlusa da componenti di carica. Espresse quindi l’avviso che lo Schiavone poteva essere stato colpito dal colpo che risultava esploso dal fucile di sua proprietà; mentre l’altro colpo doveva essere stato sparato con un fucile diverso dai due in giudiziale sequestro.  Maria De Vita,  moglie della vittima, dichiarò che dopo di essersi recata in campagna per portare il desinare al marito, era ripartita alla volta del paese verso le 14, accompagnato da costui, che eseguiva lavori campestri nei pressi della masseria, fino alla strada provinciale. Aggiunse che prima di ripartire chiuse la finestra del vano superiore e che in tale locale il marito era solito tenere il fucile, che mai aveva sentito parlare di furti di legna e tantomeno di pioppi che in quel fondo non esistevano affatto. I testimoni confermarono interamente le dichiarazioni raccolte dai verbalizzante. Compiuta la formale istituzione i due imputati furono rinviati davanti alla corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere per rispondere di concorso in omicidio a scopo di rapina, di rapina del fucile di pertinenza dello Schiavone, di detenzione di arma da fuoco e di porto di essa senza licenza, reati debitamente contestati.


Fonte: Archivio di Stato di Caserta



PENA ESEMPLARE PER I FRATELLI ASSASSINI
30  anni  per Armando ed anni 16 per il più giovane Amedeo.




La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, composta da Giovanni Morfino, presidente; Renato Mastrocinque, giudice a latere; Alfonso Del Mastro, Luigi Cirillo, Amedeo Taglianetti, Pasquale Centore, Luigi Cerbo e Luigi Ghidella, giudici popolari; pubblico ministero Nicola Damiani; in data 18 gennaio 1955 emise la sentenza di condanna nei confronti di Armando Galloppo, di anni 25, da Casal di Principe e il fratello Amedeo Galloppo, di anni 19, accusati di omicidio a scopo di rapina nei confronti di Luigi Schiavone, delitto avvenuto il 9 dicembre del 1951, ad anni trenta per Armando ed anni 16 per il più giovane Amedeo. 

In effetti la sentenza appellata dagli imputati (che lamentavano l’eccesiva pena inflitta) e dal pubblico ministero (che lamentava la mancanza dell’ergastolo per il primo e trenta anni per il secondo) fu totalmente confermata dai giudici di secondo grado.  “L’esame di questa Corte – rimarcarono i giudici d’Appello -  potrebbe dirsi esaurito ma per completezza di indagini non sembra del tutto fuor di luogo ricostruire l’episodio secondo quella che alla Corte sembra l’unica possibile soluzione. I due imputati e specialmente il più grande adusati al furto, pensarono di far man bassa su quanto di facilmente asportabile si trovava nella masseria, approfittando che il colono doveva trovarsi lontano. E quindi, l’uno, con l’aiuto dell’altro, scalò la finestra, penetrando nell’interno. Nel frattempo però il povero colono, ignaro della triste sorte che lo attendeva, ebbe la malinconica idea di tornare nello sua masseria, infilando la chiave nella toppa e penetrando nell’interno mentre fumava tranquillamente la sua pipa. 

 Quello dei due fratelli che si trovava dentro, non avendo altra via di scampo, sicuro ormai di essere stato scoperto, nel sentire la chiave girare nella toppa, afferrò rapidamente il fucile dello stesso colono e dai primi gradini, in basso della scala, fece partire un colpo che dovette attingere lo schiavone alla bocca, schizzandone fuori alcuni denti e facendo cadere a terra la pipa, la cui testa, staccata dalla cannuccia, fu trovata rotta e sia essa che la cannuccia furono trovate macchiate di sangue. Il vecchio colono, per quanto ferito, dovette a avventarsi contro l’avversario, impegnando con lui una violenta colluttazione, in modo da impedirgli di sparare il secondo colpo. Così si spiegano le numerose unghiate che furono riscontrate sul viso del povero colono, e, forse, anche la ferita d’arma da taglio che si presentava sul braccio. Così si spiegano anche le impronte di una mano insanguinata sul cassettone della sedia rovesciata. La lotta però fu breve di breve durata, perché l’altro fratello, rimasto fuori, il quale doveva necessariamente tenere il fucile ad una canna, all’avancarica, di loro proprietà, accorso, sparò il colpo della sua arma contro il vecchio colono, attingendo alla regione femorale e facendolo molto verosimilmente cadere a terra. Dopo i due fuggirono portando con sé l’uno  il proprio fucile e l’altro quello del vecchio colono del quale si era servito per sparare il primo colpo”. I giudici della Corte dci Assise di Appello di Napoli nel loro verdetto confermarono in pieno sia l’impianto accusatorio della sezione istruttoria e sia il responso finale della Corte sammaritana. E nonostante la strenua difesa di valenti avvocati penalisti dell’epoca le pene furono durissime.  Nei tre gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: Enrico Altavilla, Giovanni Porzio, Luciano Pesce, Generoso Iodice,  Ciro Maffuccini, Alberto Martucci e Alfredo De Marsico.

Nota: Didascalia foto: nell’ordine Sen. Avv. Giovanni Porzio, Sen. Avv. Generoso Jodice, Avv. Prof. Enrico Altavilla 


Fonte: Archivio di Stato di Caserta 


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