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domenica 19 giugno 2016




“Il delitto della passatella”
Pietro De Lucia uccise con vari colpi di pistola Vincenzo Barecchia


Accadde  il 6 aprile del 1952 nei pressi dello Scalo Ferroviario di Cervino-Durazzano






  

UNO SCHIZZO DEL LUOGO DEL DELITTO 

Per una serie di errori investigativi vennero sospettati del delitto il capostazione e i suoi familiari solo perché il cadavere era stato rinvenuto nei pressi della stazione. La perizia balistica sulla pistola fu determinante  ai fini degli accertamenti sul vero autore dell’assurdo crimine.  





Cervino - Nella notte del 6 aprile del 1952, i carabinieri di Cervino venivano informati che sullo scalo ferroviario Cervino-Durazzano  giaceva il cadavere di un uomo, vittima di un’azione omicida. Sul posto i carabinieri identificavano  l’ucciso per Vincenzo Barecchia, di anni 60 domiciliato in Cervino nella frazione Forchia.  Il cadavere giaceva in prossimità dello scalo ferroviario, sul fianco destro. A circa 14 metri dal cadavere, dinanzi all’ingresso del cancello ferroviario vi era una larga macchia di sangue; altre macchie di sangue erano rispettivamente a 3 metri dal cadavere -  un punto intermedio rispetto alla prima - ed in prossimità del capo di questo. All’ispezione necroscopica eseguita con l’intervento del Pretore di Maddaloni, il dottore Augusto Di Vico riscontrava una ferita d’arma da fuoco alla ascellare posteriore destro. L’esame autoptico poneva in evidenza che il Barrecchia fu attinto da un unico colpo di pistola esploso da distanza rappresentabile - per i caratteri del tramite i tessuti - alla gittata massima dell’arma e che il proiettile penetrato alla regione ascellare posteriore suddetta aveva raggiunto con tragitto dall’alto in basso la fossa iliaca sinistra dopo aver preso di striscio la faccia posteriore del fegato e perforate lo stomaco. Sul fondamento di primi, fallaci indizi, i carabinieri attribuivano ai componenti della famiglia del locale capostazione Andrea Gentile che unitamente i figlioli Giuseppe e Salvatore deferivano al magistrato in stato di arresto. Ritennero, infatti, i verbalizzati che il ritrovamento del cadavere in quel posto,  il suo trascinamento per 14 metri - inclusi tra la prima macchia di sangue ed il punto di giacitura -  fossero elementi sufficienti ad orientare i sospetti a carico dei suddetti, in assenza d’ogni altro indizio nei confronti di  diverso soggetto ed in concorso di risultati generici (esplosione dall’alto ed a distanza). 

I Gentile proclamarono energicamente la loro innocenza e dichiararono di aver visto due uomini litigare sullo spazio antistante al casello ferroviario - e fornivano dei protagonisti dati approssimativi di identificazione e foggia dei vestiti; di essere stati svegliati dalla detonazione dei due colpi di arma da fuoco e di aver sentito una voce esclamare: ”Vedi il vino che ti fa fare”. Avevano udito poi il rumore dei passi di una persona che si allontanava rapidamente. Discesi sul piazzale rinvennero il cadavere del Barecchia. Chiamarono gente e fecero avvertire i congiunti dell’ucciso. Un figliuolo di costui giunto con gli altri avrebbe voluto portar via il cadavere astenendosi su ingiunzione del capostazione. Le indagini dirette ad acquisire ulteriori elementi di fatto accertavano che il Barecchia rientrava quella sera dalla cantina di Michele De Lucia in Santa Maria a Vico,  ove si era trattenuto a giocare a carte.


In un primo momento  - per la reticenza delle persone consultate - risultò che nessun incidente si era verificato in quel locale. Successivamente si accertò che il Barecchia aveva giocato a “padrone e sottopadrone” con il Michele De Lucia cantiniere  e con tale Pietro De Lucia, suo omonimo  di anni 40. (La passatella è un gioco da osteria che ha le sue origini nella Roma antica, e parlano Catone ed Orazio, e divenne parte della tradizione romanesca nella Roma dei Papi. Lo scopo del gioco è quello di non far bere il vino o altre bevande alcoliche ad un partecipante al fine di screditarlo od umiliarlo. N.d.R.). Tra quest’ultimo ed il Barecchia nel corso del gioco erano sorte talune divergenze circa le regole da osservare nella distribuzione del vino che figurava come posta nel gioco ed il Pietro De Lucia risentito del contegno dell’altro aveva in un certo momento profferita la frase: “Ti darei proprio una pistolettata in testa”, mimando con la mano una pistola. Aveva poco dopo contestato all’altro di non essersi servito della sua mediazione per la vendita di una partita di arance ed una di carboni. Avendo poi il Barecchia  manifestato il desiderio di andar via, Pietro De Lucia lo aveva costretto a continuare il gioco. Alla fine il Barecchia si era allontanato da solo. Il Pietro De Lucia si era trattenuto ancora una ventina di minuti; era poi andato via col figliuolo Vincenzo sopraggiunto di lì a poco. Mentre le indagini proseguirono stentatamente e nelle direzioni più varie, le testimonianze di Vincenzo De Lucia e Dionisio Nuzzo offrivano alla ricerca un sicuro e definitivo indizio.


Il Nunzio dichiarò infatti di aver notato - in ora prossima al delitto - nella strada che partendo dal fascio di binari si spinge fino all’abitato di Santa Maria a Vico,  il figliolo del De Lucia,  a nome Vincenzo,  riconoscibile dal braccio amputato in compagnia di altro uomo diretto verso Santa Maria a Vico. Vincenzo De Lucia riferì che la sera del 5 aprile Pietro De Lucia stando sul limitare della cantina del Michele De Lucia incitò ripetutamente costui ad accompagnarlo a Forchia, apparendo notevolmente irritato. Interrogato dai carabinieri Vincenzo De Lucia, figliuolo dell’indiziato Pietro De Lucia, finiva col dichiarare  - in due distinte sedute -  che la sera del 5 aprile essendosi recato nella cantina di Michele De Lucia  per prelevare il padre si diresse col medesimo verso casa. Giunti in prossimità di una rampa che dal piano stradale porta alla via ferrata il genitore gli ingiunge di ritirarsi perché egli doveva fare  delle cose. Non volle contraddirlo mentre l’altro si inerpicava su per la scarpata. Appena giunto a casa sopravvenne Michele De Lucia, il cantiniere, che chiese di suo padre mostrandosi preoccupato per le condizioni non perfettamente normale di costui. Si posero pertanto entrambi alla ricerca del Pietro, dirigendosi verso il casello ferroviario. A 200 metri circa da detto casello percepirono due colpi di arma da fuoco che egli attribuì al padre;  si nascosero allora sotto un ponticciolo sul quale corrono le rotaie temendo che il Pietro De Lucia sulla via del ritorno non riconoscendoli   avesse potuto far fuoco anche contro di loro. Sentirono i passi frettolosi di una persona su per la ghiaia del sentiero che costeggia il binario. Si diressero quindi verso Santa Maria aVico seguendo la strada sottostante lungo la quale Dionisio Nuzzo li vide. Arrivati a casa vi trovarono il Pietro De Lucia in preda a viva agitazione il quale confidò loro di aver combinato un guaio di aver sparato di non saper altro. Da quel momento i due non parlarono più dell’accaduto. Michele De Lucia interrogato a sua volta in più sedute, riferiva che effettivamente, dopo il diverbio avuto in cantina con lo Barecchia, Pietro De Lucia nell’atto di andarsene col figliolo Vincenzo insistette molto presso di lui perché egli lo seguisse a Forchia per mangiare delle salsicce in casa del Barecchia. Al suo rinnovato diniego il Pietro alla fine esclamò: “E’  arrivato  il momento che devo andarci”. Si allontanò quindi con il figlio preoccupato del contegno del  Pietro e su suggerimento della moglie egli seguì di lì a poco i due. Pietro Di Lucia non era rincasato. La moglie di costui condivise le preoccupazioni di Michele De Lucia  e lo esortò a porsi in sulle tracce del marito e di rientrare. Fu così che Vincenzo si diresse alla volta di Forchia ma a qualche centinaia di metri dal casello ferroviario udì l’esplosione di due colpi di pistola. Il suo compagno allora esclamò: “Questa è la pistola di papà”. Consigliando nell’avvertire l’avvicinarsi di una persona dal punto in cui avevano sparato di nascondersi sotto il ponticciolo esistente in quel luogo ad evitare rischi personali. Qualche tempo dopo il passaggio di costui che presumibilmente era l’omicida ripresero la via del ritorno che corre quasi parallelamente alle rotaie. Giunti a casa del De Lucia trovarono il Pietro che dirà di aver sparato contro il Barecchia, ingiungendo loro di mantenere il segreto. Qualche giorno dopo Pietro De Lucia si recò nella cantina di Michele per dirgli di non rivelare ad alcuno quanto sapeva pena la vita. Quando furono tratti in arresto gli Gentile (questo fu un grosso abbaglio dei carabinieri) Pietro De Lucia fece sapere al cantiniere che lo aveva mandato a chiamare che non si sarebbe più costituito come in un primo momento aveva deciso perché ormai i sospetti si orientavano verso altre persone. 
L'AVV. MICHELE VERZILLO 

Michele De Lucia concludeva giustificando la primitiva reticenza dettata dal timore delle promesse rappresaglie. Si instaurava così procedimento penale contro Pietro De Lucia, mentre nei confronti dei Gentile – per assoluta mancanza di indizi nei loro confronti – si disponeva la scarcerazione. Pietro De Lucia confermando le sue tesi si proclamò tuttavia ancora innocente, anche se nella loro casa era stata rinvenuta e sequestrata una pistola ”Mauser cal. 6,35, i colpi  della quale erano stati giudicati dal perito balistico identici a quello recuperato nella salma il DeLucia assumeva in proposito di aver acquistato l’arma tempo addietro di aver sparato un  solo colpo per  constatare l’efficienza della pistola.  Vicenzo De Lucia, ritrattava la prima versione dei fatti assumendo di essere stato minacciato di fargli perdere la pensione di invalido se avesse parlato del delitto.

Fonte: Archivio di Stato di Caserta

L'AVV. SEN. FRANCESCO LUGNANO 


  La condanna fu ad anni 18 di reclusione ridotti a 14 in appello
Già la sentenza istruttoria aveva reso giustizia alla famiglia Gentile i cui membri furono  ingiustamente  sospettati di essere  in concorso gli autori dell’omicidio di Vincenzo Barecchia, delitto avvenuto a Cervino il 5 aprile del 1952  ucciso a colpi di pistola. Andrea, Giuseppe e Salvatore Gentile furono completamente scagionati dal Giudice Istruttore. Quindi solo il vero autore del delitto fu rinviato al giudizio della Corte. Pietro De Lucia, da Santa Maria a Vico, arrestato il 10 aprile del 1952,  fu accusato di omicidio volontario in danno di Vincenzo Barecchia. Nel corso del dibattimento il De Lucia  si protestava innocente e pretendeva di adombrare una legittima difesa. Il pubblico ministero invece chiedeva una condanna a 30 anni di reclusione con l’affermazione della piena responsabilità. Veniva effettuato un sopralluogo sul posto per dare alla Corte una visione completa della scena del crimine.  La difesa dell’imputato chiedeva l’assoluzione quanto meno per insufficienza di prove ed in via subordinata gradatamente la responsabilità per omicidio colposo o preterintenzionale. La Corte ritenne che era “comprensibile la ritrattazione del Vincenzo De Lucia (figlio dell’imputato) in quanto è molto duro per un figlio contribuire alla condanna del genitore”. Altro elemento a carico dell’imputato fu ritenuto dalla Corte l’identità del proiettile repertato nelle viscere del cadavere con i proiettili sequestrati in casa dell’imputato. Poiché la  pistola Mauser 6,35 a giudizio del perito contiene nove colpi – otto nel caricatore ed uno in canna – e nell’arma sequestrata furono rinvenuti sette colpi che con i due esplosi formano la carica completa. Il Pietro De Lucia assume che la sua pistola in origine ne conteneva otto.  Uno lo esplose per provare l’arma, onde il bilancio a suo avviso tornerebbe.  Ma è chiaro che  trattasi di lustra difensiva.  Cioè di una tesi falsa. Quanto alla resistenza dei tessuti alla azione di penetrazione del proiettile, valutata la lunghezza del tramite (dall’ascellare alla fosse eliaca) non pare possa concludersi con i periti che il colpo fu esploso da una distanza corrispondente alla gittata massima dell’erma, perché in tali casi il  proiettile percorre nei tessuti un tragitto ben più modesto. Comunque per ammissione degli stessi periti “in balistica non vi è nella di assoluto”. Tanto  vero che esclusi i tratti balistici del  “contatto” e del “bruciapelo” tutto il resto è soltanto supposizione. Circa la causale del fatto – ribadirono ancora i giudici – la negativa dell’imputato non agevola l’indagine. L’antefatto è tuttavia sufficiente  ad identificarla. Tra i due – il Barecchia e il De Lucia – vi erano motivi di discordia- non avendo il primo utilizzato l’opera di mediatore del secondo per le arance che pel carbone. Il dissidio insorto nel corso della partita a carte – e l’innegabile azione del vino -  dovettero agire sulla psiche del De Lucia inasprendo situazioni che in condizioni normali si sarebbero svolte senza scosse. Competono, tuttavia, scrissero i giudici nel loro verdetto – le attenuanti generiche in considerazione dello stato di temporaneo squilibrio dovuto alla azione dell’alcool.  Con la concessione delle attenuanti generiche, con sentenza della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere del 22 aprile del 1954,  (Giovanni Morfino, presidente; Victor Ugo De Donato, giudice a latere; Nicola Damiani, pubblico ministero)  fu condannato ad anni 18 di reclusione. In appello la Corte, ( Presidente Giulio La Marca,  giudice a latere Antonio Grieco, procuratore generale Emanuele Montefusco),  con sentenza del 23 dicembre del 1954, in parziale riforma della sentenza dei primi giudici, la pena fu ridotta ad anni 14.  Gli avvocati impegnati furono: Giacomo Jacuzio, Vittorio e Michele Verzillo, Silvio De Lucia e  Francesco Lugnano.  
Fonte. Archivio Storico di Caserta



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