“Il delitto della passatella”
Pietro De Lucia uccise con vari colpi di pistola Vincenzo Barecchia
Accadde il 6 aprile del 1952 nei pressi dello Scalo Ferroviario di Cervino-Durazzano
UNO SCHIZZO DEL LUOGO DEL DELITTO |
Per
una serie di errori investigativi vennero sospettati del delitto il capostazione
e i suoi familiari solo perché il cadavere era stato rinvenuto nei pressi della
stazione. La perizia balistica sulla pistola fu determinante ai fini degli accertamenti sul vero autore
dell’assurdo crimine.
Cervino - Nella notte del 6 aprile del
1952, i carabinieri di Cervino venivano informati che sullo scalo ferroviario
Cervino-Durazzano giaceva il cadavere di
un uomo, vittima di un’azione omicida. Sul posto i carabinieri
identificavano l’ucciso per Vincenzo Barecchia, di anni 60
domiciliato in Cervino nella frazione Forchia.
Il cadavere giaceva in prossimità dello scalo ferroviario, sul fianco
destro. A circa 14 metri dal cadavere, dinanzi all’ingresso del cancello
ferroviario vi era una larga macchia di sangue; altre macchie di sangue erano
rispettivamente a 3 metri dal cadavere -
un punto intermedio rispetto alla prima - ed in prossimità del capo di
questo. All’ispezione necroscopica eseguita con l’intervento del Pretore di
Maddaloni, il dottore Augusto Di Vico
riscontrava una ferita d’arma da fuoco alla ascellare posteriore destro.
L’esame autoptico poneva in evidenza che il Barrecchia fu attinto da un unico
colpo di pistola esploso da distanza rappresentabile - per i caratteri del
tramite i tessuti - alla gittata massima dell’arma e che il proiettile
penetrato alla regione ascellare posteriore suddetta aveva raggiunto con
tragitto dall’alto in basso la fossa iliaca sinistra dopo aver preso di
striscio la faccia posteriore del fegato e perforate lo stomaco. Sul fondamento
di primi, fallaci indizi, i carabinieri attribuivano ai componenti della
famiglia del locale capostazione Andrea
Gentile che unitamente i figlioli Giuseppe
e Salvatore deferivano al
magistrato in stato di arresto. Ritennero, infatti, i verbalizzati che il
ritrovamento del cadavere in quel posto, il suo trascinamento per 14 metri - inclusi
tra la prima macchia di sangue ed il punto di giacitura - fossero elementi sufficienti ad orientare i
sospetti a carico dei suddetti, in assenza d’ogni altro indizio nei confronti
di diverso soggetto ed in concorso di
risultati generici (esplosione dall’alto ed a distanza).
I Gentile proclamarono
energicamente la loro innocenza e dichiararono di aver visto due uomini litigare
sullo spazio antistante al casello ferroviario - e fornivano dei protagonisti
dati approssimativi di identificazione e foggia dei vestiti; di essere stati
svegliati dalla detonazione dei due colpi di arma da fuoco e di aver sentito
una voce esclamare: ”Vedi il vino che ti
fa fare”. Avevano udito poi il rumore dei passi di una persona che si
allontanava rapidamente. Discesi sul piazzale rinvennero il cadavere del Barecchia.
Chiamarono gente e fecero avvertire i congiunti dell’ucciso. Un figliuolo di
costui giunto con gli altri avrebbe voluto portar via il cadavere astenendosi
su ingiunzione del capostazione. Le indagini dirette ad acquisire ulteriori
elementi di fatto accertavano che il Barecchia rientrava quella sera dalla
cantina di Michele De Lucia in Santa
Maria a Vico, ove si era trattenuto a
giocare a carte.
In un primo momento - per la reticenza delle persone consultate - risultò
che nessun incidente si era verificato in quel locale. Successivamente si
accertò che il Barecchia aveva giocato a “padrone
e sottopadrone” con il Michele De Lucia cantiniere e con tale Pietro De Lucia, suo omonimo
di anni 40. (La passatella è un
gioco da osteria che ha le sue origini nella Roma antica, e parlano Catone ed
Orazio, e divenne parte della tradizione romanesca nella Roma dei Papi. Lo
scopo del gioco è quello di non far bere il vino o altre bevande alcoliche ad
un partecipante al fine di screditarlo od umiliarlo. N.d.R.). Tra quest’ultimo ed
il Barecchia nel corso del gioco erano sorte talune divergenze circa le regole
da osservare nella distribuzione del vino che figurava come posta nel gioco ed
il Pietro De Lucia risentito del contegno dell’altro aveva in un certo momento
profferita la frase: “Ti darei proprio
una pistolettata in testa”, mimando con la mano una pistola. Aveva poco
dopo contestato all’altro di non essersi servito della sua mediazione per la
vendita di una partita di arance ed una di carboni. Avendo poi il Barecchia manifestato il desiderio di andar via, Pietro
De Lucia lo aveva costretto a continuare il gioco. Alla fine il Barecchia si
era allontanato da solo. Il Pietro De Lucia si era trattenuto ancora una
ventina di minuti; era poi andato via col figliuolo Vincenzo sopraggiunto di lì
a poco. Mentre le indagini proseguirono stentatamente e nelle direzioni più
varie, le testimonianze di Vincenzo De Lucia e Dionisio Nuzzo offrivano alla ricerca un sicuro e definitivo
indizio.
Il Nunzio dichiarò infatti di aver notato - in ora prossima al delitto
- nella strada che partendo dal fascio di binari si spinge fino all’abitato di
Santa Maria a Vico, il figliolo del De
Lucia, a nome Vincenzo, riconoscibile dal braccio amputato in
compagnia di altro uomo diretto verso Santa Maria a Vico. Vincenzo De Lucia
riferì che la sera del 5 aprile Pietro De Lucia stando sul limitare della
cantina del Michele De Lucia incitò ripetutamente costui ad accompagnarlo a Forchia,
apparendo notevolmente irritato. Interrogato dai carabinieri Vincenzo De Lucia,
figliuolo dell’indiziato Pietro De Lucia, finiva col dichiarare - in due distinte sedute - che la sera del 5 aprile essendosi recato
nella cantina di Michele De Lucia per
prelevare il padre si diresse col medesimo verso casa. Giunti in prossimità di
una rampa che dal piano stradale porta alla via ferrata il genitore gli
ingiunge di ritirarsi perché egli doveva fare delle cose. Non volle contraddirlo mentre l’altro
si inerpicava su per la scarpata. Appena giunto a casa sopravvenne Michele De
Lucia, il cantiniere, che chiese di suo padre mostrandosi preoccupato per le
condizioni non perfettamente normale di costui. Si posero pertanto entrambi
alla ricerca del Pietro, dirigendosi verso il casello ferroviario. A 200 metri
circa da detto casello percepirono due colpi di arma da fuoco che egli attribuì
al padre; si nascosero allora sotto un
ponticciolo sul quale corrono le rotaie temendo che il Pietro De Lucia sulla
via del ritorno non riconoscendoli avesse potuto far fuoco anche contro di loro.
Sentirono i passi frettolosi di una persona su per la ghiaia del sentiero che
costeggia il binario. Si
diressero quindi verso Santa Maria aVico seguendo la strada sottostante lungo
la quale Dionisio Nuzzo li vide. Arrivati a casa vi trovarono il Pietro De
Lucia in preda a viva agitazione il quale confidò loro di aver combinato un
guaio di aver sparato di non saper altro. Da
quel momento i due non parlarono più dell’accaduto. Michele De Lucia
interrogato a sua volta in più sedute, riferiva che effettivamente, dopo il diverbio
avuto in cantina con lo Barecchia, Pietro De Lucia nell’atto di andarsene col
figliolo Vincenzo insistette molto presso di lui perché egli lo seguisse a
Forchia per mangiare delle salsicce in casa del Barecchia. Al suo rinnovato
diniego il Pietro alla fine esclamò: “E’ arrivato il momento che devo andarci”. Si allontanò
quindi con il figlio preoccupato del contegno del Pietro e su suggerimento della moglie egli
seguì di lì a poco i due. Pietro Di Lucia non era rincasato. La moglie di
costui condivise le preoccupazioni di Michele De Lucia e lo esortò a porsi in sulle tracce del
marito e di rientrare. Fu così che Vincenzo si diresse alla volta di Forchia ma
a qualche centinaia di metri dal casello ferroviario udì l’esplosione di due
colpi di pistola. Il suo compagno allora esclamò: “Questa è la pistola di papà”. Consigliando nell’avvertire l’avvicinarsi
di una persona dal punto in cui avevano sparato di nascondersi sotto il ponticciolo
esistente in quel luogo ad evitare rischi personali. Qualche tempo dopo il
passaggio di costui che presumibilmente era l’omicida ripresero la via del
ritorno che corre quasi parallelamente alle rotaie. Giunti a casa del De Lucia trovarono
il Pietro che dirà di aver sparato contro il Barecchia, ingiungendo loro di
mantenere il segreto. Qualche giorno dopo Pietro De Lucia si recò nella cantina
di Michele per dirgli di non rivelare ad alcuno quanto sapeva pena la vita.
Quando furono tratti in arresto gli Gentile (questo fu un grosso abbaglio dei
carabinieri) Pietro De Lucia fece sapere al cantiniere che lo aveva mandato a chiamare
che non si sarebbe più costituito come in un primo momento aveva deciso perché
ormai i sospetti si orientavano verso altre persone.
L'AVV. MICHELE VERZILLO |
Michele De Lucia concludeva
giustificando la primitiva reticenza dettata dal timore delle promesse rappresaglie.
Si instaurava così procedimento penale contro Pietro De Lucia, mentre nei confronti dei Gentile – per assoluta
mancanza di indizi nei loro confronti – si disponeva la scarcerazione. Pietro
De Lucia confermando le sue tesi si proclamò tuttavia ancora innocente, anche
se nella loro casa era stata rinvenuta e sequestrata una pistola ”Mauser cal.
6,35, i colpi della quale erano stati giudicati
dal perito balistico identici a quello recuperato nella salma il DeLucia
assumeva in proposito di aver acquistato l’arma tempo addietro di aver sparato
un solo colpo per constatare l’efficienza della pistola. Vicenzo De Lucia, ritrattava la prima
versione dei fatti assumendo di essere stato minacciato di fargli perdere la
pensione di invalido se avesse parlato del delitto.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
L'AVV. SEN. FRANCESCO LUGNANO |
Già la sentenza istruttoria
aveva reso giustizia alla famiglia Gentile i cui membri furono ingiustamente
sospettati di essere in concorso
gli autori dell’omicidio di Vincenzo Barecchia, delitto avvenuto a Cervino il 5
aprile del 1952 ucciso a colpi di
pistola. Andrea, Giuseppe e Salvatore
Gentile furono completamente scagionati dal Giudice Istruttore. Quindi solo
il vero autore del delitto fu rinviato al giudizio della Corte. Pietro De Lucia, da Santa Maria a Vico,
arrestato il 10 aprile del 1952, fu
accusato di omicidio volontario in danno di Vincenzo Barecchia. Nel corso del dibattimento il De Lucia si protestava innocente e pretendeva di
adombrare una legittima difesa. Il pubblico ministero invece chiedeva una
condanna a 30 anni di reclusione con l’affermazione della piena responsabilità.
Veniva effettuato un sopralluogo sul posto per dare alla Corte una visione
completa della scena del crimine. La
difesa dell’imputato chiedeva l’assoluzione quanto meno per insufficienza di
prove ed in via subordinata gradatamente la responsabilità per omicidio colposo
o preterintenzionale. La Corte ritenne che era “comprensibile la ritrattazione del Vincenzo De Lucia (figlio
dell’imputato) in quanto è molto duro per
un figlio contribuire alla condanna del genitore”. Altro elemento a carico
dell’imputato fu ritenuto dalla Corte l’identità del proiettile repertato nelle
viscere del cadavere con i proiettili sequestrati in casa dell’imputato. Poiché
la pistola Mauser 6,35 a giudizio del
perito contiene nove colpi – otto nel caricatore ed uno in canna – e nell’arma
sequestrata furono rinvenuti sette colpi che con i due esplosi formano la
carica completa. Il Pietro De Lucia assume che la sua pistola in origine ne
conteneva otto. Uno lo esplose per
provare l’arma, onde il bilancio a suo avviso tornerebbe. Ma è chiaro che trattasi di lustra difensiva. Cioè di una tesi falsa. Quanto alla
resistenza dei tessuti alla azione di penetrazione del proiettile, valutata la
lunghezza del tramite (dall’ascellare alla fosse eliaca) non pare possa
concludersi con i periti che il colpo fu esploso da una distanza corrispondente
alla gittata massima dell’erma,
perché in tali casi il proiettile
percorre nei tessuti un tragitto ben più modesto. Comunque per ammissione degli
stessi periti “in balistica non vi è nella di assoluto”. Tanto vero che esclusi i tratti balistici del “contatto”
e del “bruciapelo” tutto il resto è
soltanto supposizione. Circa la causale del fatto – ribadirono ancora i giudici
– la negativa dell’imputato non agevola l’indagine. L’antefatto è tuttavia
sufficiente ad identificarla. Tra i due
– il Barecchia e il De Lucia – vi erano motivi di discordia- non avendo il
primo utilizzato l’opera di mediatore del secondo per le arance che pel
carbone. Il dissidio insorto nel corso della partita a carte – e l’innegabile
azione del vino - dovettero agire sulla
psiche del De Lucia inasprendo situazioni che in condizioni normali si
sarebbero svolte senza scosse. Competono, tuttavia, scrissero i giudici nel
loro verdetto – le attenuanti generiche in considerazione dello stato di
temporaneo squilibrio dovuto alla azione dell’alcool. Con la concessione delle attenuanti generiche,
con sentenza della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere del 22 aprile
del 1954, (Giovanni Morfino, presidente;
Victor Ugo De Donato, giudice a
latere; Nicola Damiani, pubblico
ministero) fu condannato ad anni 18 di
reclusione. In appello la Corte, ( Presidente Giulio La Marca, giudice a
latere Antonio Grieco, procuratore
generale Emanuele Montefusco), con sentenza del 23 dicembre del 1954, in
parziale riforma della sentenza dei primi giudici, la pena fu ridotta ad anni
14. Gli avvocati impegnati furono: Giacomo Jacuzio, Vittorio e Michele
Verzillo, Silvio De Lucia e Francesco Lugnano.
Fonte.
Archivio Storico di Caserta
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