Pietro Nuzzo
e i
figli Vincenzo e Biagio
uccisero con 13 colpi di trincetto
Roberto
Beltini
Movente
del delitto il mancato assenso per la legittimazione di un figlio adottivo da parte di
certi coniugi di Afragola cui il ragazzo era stato tempo addietro affidato. La donna minacciata dalla vittima si
rifugiò nell’abitazione degli assassini che colpirono a morte l’aggressore
Il delitto accadde il 1° agosto del 1952
a Santa Maria a Vico
Santa Maria a Vico – A tarda sera del
primo agosto del 1952, ai carabinieri Santa Maria a Vico perveniva il referto del dottor Giovanni Nuzzo con il quale attestava di aver rinvenuto cadavere, in un vano di Vico Oliva Alberto
Beltino, il quale presentava
numerose ferite da taglio, non potute singolarmente descrivere, stante la necessità di non spostare
il cadavere prima dell’accesso delle autorità giudiziaria. In questo primo atto
si indicava autore dell’omicidio il calzolaio Pietro Nuzzo che avrebbe agito in concorso con i suoi congiunti. Il
comandante della Stazione, brigadiere Nicola Ramorino, si portava prontamente
sul posto per le prime indagini. Procedeva al rilievo fotografico del vano nel
quale il Beltino era stato rinvenuto cadavere e del cadavere stesso, dando atto
del processo verbale di descrizione di località che tutto il sangue effuso
dalla vittima e nell’ambito della sua abitazione, a partire dalla soglia
dell’ingresso – nella quale il Beltino si giacque, in larghe macchie colanti
nell’interstizio dello sconnesso impiantito. Si
stabiliva così che il Beltino era stato attinto da 13 colpi di trincetto al
torace ed agli arti superiori, riportando perforazione del lobo superiore del
polmone destro, della milza, del
diaframma e decedendo non istantaneamente per emorragia con conseguente anemia
acutissima.
Dalle indagini dei carabinieri risultava che nel pomeriggio di quel
giorno il Beltino aveva pregato la guardia giurata Pasquale Nuzzo di interporre i suoi buoni uffici nei confronti
della cognata del medesimo Palma Pascarella
perché costei alla fine consentisse alla legittimazione di un di lei figliolo
da parte di certi coniugi di Afragola cui il ragazzo era stato tempo addietro
affidato. La Pascarella aveva nettamente respinto la richiesta, determinando
l’ennesima reazione del Beltino che per questo fatto aveva in precedenza già
numerose volte malmenato la cognata. La Palma, alle rinnovate escandescenze di
quello riparò in casa del suo vicino, Vincenzo
Nuzzo, la cui abitazione frequentava con assiduità, prestando la sua assistenza
alla moglie di quest’ultimo, Michelina
Carfora affetta da non recente
cecità. Il Beltino tentò tutti i mezzi per costringere la Palma Pascarella ad
uscire dalla casa dei suoi amici con petulanti schiamazzi e volgari contumelie.
Ma la Palma non si lasciò convincere, conscia del pericolo cui sarebbe andata
incontro esponendosi in difesa all’assurda intimidazione di quell’energumeno.
Sopraggiunsero intanto, l’un dopo l’altro, il Vincenzo Nuzzo, un fratello di costui, Biagio ed il padre Pietro,
ai quali, con villana arroganza il Beltini ingiunse di estromettere
dall’abitazione del Vincenzo, Palma, rivolgendo infine gravi ingiurie e
minacce. Né valse l’intervento della moglie propria, Filomena Pascale, per distogliere il Beltino dal suo insano
programma di persecuzione ad oltranza della cognata; che anzi la mediazione di
quella vieppiù esasperò la sua eccitazione. Il Nuzzo chiamato in veste di
bonario compositore della vertenza vide così fallire sia gli approcci con la
Palma Pascarella che il tentativo di ridurre alla ragione il Beltino che voleva
ad ogni costo aver partita vinta contro la ritrosia del arresto legittima della
cognata. A questo punto Pasquale Nuzzo decise di abbandonare il campo,
lasciando il giovane al suo destino.
Allontanandosi la guardia predetta ebbe
modo di raccogliere la stolta sfida del giovane agli avversari Nuzzo, disposti
come a difesa dell’ingresso dell’abitazione del Vincenzo. Giratosi un istante
il Pasquale Nuzzo poté così sorprendere il Beltino nell’atto di avventarsi
impugnando una sedia, contro il Vincenzo. Non ritenne il Pasquale Nuzzo di
ritornare sui propri passi per impedire l’urto fra il Beltino ed i suoi
avversari, per l’errato apprezzamento, forse della circostanze. Poco dopo
giunse tuttavia il grido di dolore della Filomena Pascarella che annunciava la soppressione del marito. Pietro
Nuzzo alcun tempo dopo lo raggiunse per dirgli che aveva ucciso il Beltino il
cui comportamento era andato progressivamente aggravandosi. Gli mostrò infine un
trincetto insanguinato e manifestò il proposito di andare
a costituirsi dai carabinieri. La vedova dell’ucciso, Filomena Sgarella, interrogata dai
militi dell’Arma, dichiarava che da tempo il marito era in attrito con la
cognata Palma essendosi costei rifiutata contrariamente ai patti, di lasciar
legittimare il figliolo dei coniugi con lo stavano allevando, esponendo così il
Beltino - che si era preoccupato di sistemare quel ragazzo - ad una infelice
figura. In sostanza suo marito si era interessato di alleviare le condizioni
della Palma, vedova e senza risorse, quel giorno per esplicita richiesta dei
coniugi di Afragola il Beltino aveva
posto alla cognata una categorica alternativa: o lasciare definitivamente il
figliuolo presso i suoi benefattori oppure provvedere senza ulteriori indugi a
riprenderlo. Egli avrebbe preferito palesemente la prima soluzione. Perché il
dissenso non provocasse ulteriore aggravamento della tensione, la Filomena in
compagnia di Pasquale interpellò di nuovo la sorella Palma, scongiurandola di
sottoscrivere un atto col quale costei si sarebbe obbligata a lasciare il
figliolo presso i coniugi suddetti. Ma la Palma fu irremovibile forte del suo
buon diritto a decidere dell’avvenire del figlio.
Gli eventi così
precipitarono. Dopo una serie di provocazioni, il Beltino fu circondato spinto, barcollante, nella sua
casa dai tre Nuzzo. Impressionato dall’atteggiamento di costoro, Filomena Pascrella
che aveva già percepito la frase sinistra del Vincenzo: “Posa la sedia che ti faccio fare il morto”, gridò loro : ”Cosa fate?”, e li seguì. Poté così fissare nel suo ricordo
la rapida sequenza della scena. Il Pietro ed il Biagio, dopo essersi introdotti
col Vincenzo nell’abitazione del Beltino, ne uscirono mentre il Vincenzo, curvo
su questi a terra inerte, continuava a colpirlo selvaggiamente con un trincetto.
Alla invocazione della donna, egli è la
minacciò con l’arma ingiungendole di non
avvicinarsi. Nel dirigersi verso il paese per chiedere soccorso la Pascarella si imbatte nel Pietro Nuzzo in possesso di un trincetto.
La Pascale infine dichiarava che
tutti e tre gli aggressori del marito nell’atto di sospingerlo nella sua
abitazione la colpivano con i con i tre trincetti di cui erano armati. Il
giorno successivo si costituiva nella caserma dei carabinieri Pietro Nuzzo,
mentre i figli Biagio e Vincenzo si
erano resi irreperibili immediatamente dopo il delitto. Il Pietro Nunzio
dichiarava di aver agito egli solo in difesa del figlio Biagio aggredito dal
Beltino il quale aveva brandito la sedia
ed impugnava una pistola. Infine Vincenzo era stato affatto presente essendo
forse ritirato nella sua abitazione.
Riferiva inoltre il dichiarante di aver tentato di tutte le guisa di rabbonire il
Beltino il quale era legato loro da comparatico. Il trincetto era stato da lui
abbandonato nei pressi della galleria ferroviaria ove più tardi venne
recuperato. Pascarella confermava, in ordine ai precedenti del delitto, la
sussistenza di vivaci dissensi col cognato che aveva fatto ricorso alla
violenza per indurla al suo volere. Prima che l’incidente giungesse al suo
epilogo, il Vincenzo ed il Biagio, che
si erano trattenuti nell’interno della casa del primo, uscirono sullo spiazzale
alle insistenti invocazioni del Beltino.
Poco dopo sentì la sorella gridare: “Ohi Madonna hanno ucciso mio marito”.
Nella fase istruttoria Pietro Nuzzo
ed il figlio Biagio (tratto nell’intervallo in arresto), insistevano
concordemente nella tesi della legittima difesa. Il solo Pietro aveva
affrontato il Bertino mentre Biagio si
era allontanato per sottrarsi all’attacco di costui. Assente il Vincenzo. Palma
Pascarella modificava di quanto dichiarato ai carabinieri assumeva che il
Biagio ed il Vincenzo erano restati in
casa per l’intera durata dell’episodio. Qualche testimone riferì di aver visto
dopo il delitto, il Vincenzo fuori dall’abitazione tenendo fra le braccia una
figlioletta Filomena infine modificava la dichiarazione in ordine alla circostanza
dell’aggressione armata da parte dei Nuzzo precisando che ella potette vedere
un solo trincetto nelle mani del
Vincenzo. Altro oggetto vide poco dopo nelle
le mani del Pietro nel quale si imbatté dirigendosi verso il centro della
frazione.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
La condanna fu di 9 anni per ciascuno. In appello il
riconoscimento dell’eccesso colposo di legittima difesa e la pena ridotta a due
anni.
I tre Nuzzo furono rinviato al giudizio della Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere (Presidente Giovanni Morfino;
giudice a latere Victor Ugo De donato;
Pubblico ministero Nicola Damiani) e la Corte ritenne che i giudicabili erano stati raggiunti da sufficienti prove di colpevolezza
in ordine al delitto dovendosi respingere la duplice tesi difensive a di Pietro Nuzzo che sia stato cioè egli
soltanto ad agire e che la sua condotta sia stata determinata dalla necessità
di difendere il figliolo Biagio
dall’attacco di Alberto Beltino. Sul
fondamento delle univoche dichiarazioni di Pasquale
Nuzzo può innanzitutto fissarsi come dato di fatto irrefutabile che
all’inizio dell’azione di tre Nuzzo: Pietro, Biagio e Vincenzo erano sul piazzale
comune di fronte al Beltino che in quel
tardo pomeriggio era particolarmente eccitato. Artificiosa pertanto la
ricostituzione istruttoria e dibattimentale
del Pietro e del Biagio secondo la quale
il Vincenzo non sarebbe stato presente per trovarsi nella sua abitazione
accanto alla moglie e al figliolo infermo. La stessa Palma Pascarella che in istruttore e nel dibattimento colloca all’interno
dell’abitazione il Vincenzo e il Biagio nella sua dichiarazione ai carabinieri
affermò senza possibilità di equivoco che entrambi i figlioli del Pietro
uscirono sullo spiazzale non appena il
Beltino intensificò i suoi attacchi sboccatamente verbali contro il gruppo avversario.
Pasquale Nuzzo ha fornito sufficienti
ragguagli circa la posizione dei tre Nuzzo al momento nel quale egli lasciò il
capo, pochi istanti prima del tragico epilogo. Il Pubblico Ministero chiese una
condanna a 10 anni di reclusione ciascuno; gli avvocati degli imputati chiesero
la legittima difesa la Corte ritenne condannare padre e figli a 9 anni di
reclusione ciascuno. In grado di appello la sentenza venne
modificata e venne riconosciuto l’eccesso colposo di legittima difesa, così
modificato l’originario capo di imputazione di omicidio volontario con le
circostanze generiche e la condanna fu a
due anni ciascuno. Nei giudizi
furono impegnati gli avvocati: Vittorio
Verzillo, Alberto Martucci, Francesco Lugnano e Giovanni Leone.
Fonte: Archivio di Stato di Caserta
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