Un
orrendo parricidio: Giuseppe, Maria e
Francesco Moronese accusati di aver ucciso il padre
Il cadavere trascinato
in aperta campagna. La moglie andò a denunciare ai carabinieri la scomparsa del
marito. Lui minacciava con un coltello moglie e figli. Il vero
assassino era il figlio Giuseppe il
quale vibrò un forte
colpo al capo per finirlo gli strinse da
solo una corda al collo richiesta ed approntata dalla sorella Maria. Poi tutti
e due adagiarono il cadavere ricoperto con un
lenzuolo su una scala a pioli e lo portarono sulla strada di campagna,
ove fu rinvenuto il mattino successo.
Santa
Maria Capua Vetere – “La
morte di Tommaso Moronese, può
retrodatarsi di uno-due giorni rispetto a quello dell’autopsia (22 settembre
1953). Essa è stata dovuta a traumatismo cranio-encefalico con frattura della
base cranica e contusione dell’emisfero cerebrale sinistro. Il Moronese è stato
altresì oggetto di manovre di strozzamento che però non hanno prodotto lesioni
a carico di organi interni. Il cadavere del Moronese presentava inoltre alcune
lesioni cutanee, per le quali non è possibile dire se sono state dovute a
traumi diretti con oggetto contundente, a caduta al suolo del corpo, o a
colluttazione. Il mezzo adoperato per produrre la morte del Moronese è stato un
oggetto contundente. Dai rilievi eseguiti sul cadavere non è possibile trarre
alcuna deduzione circa la posizione reciproca tra vittima ed aggressore al
momento del fatto”. Questa la conclusione a cui pervennero i periti Gaetano Papa, Mario Pugliese e Francesco
Tarsitano, incaricati dagli inquirenti per chiarire la causa della morte
dell’anziano contadino. Ma non era affatto un giallo. Anzi. Apparve subito un
delitto con tanto di depistaggio e di simulazione. Ma chi aveva strangolato il
53enne? Qual era il movente? I primi sospetti si appuntarono sui figli Giuseppe, di anni 31, Maria, di anni 20, Francesco Moronese di anni 23 e sulla moglie Assunta Cecere, di anni 50 che assieme
al figlio Francesco si era recata presso la polizia e i carabinieri per
denunciare la scomparsa del marito. I predetti familiari dichiaravano alle
autorità che loro erano vivamente preoccupati per la scomparsa del loro
congiunto ma che era probabile che lo stesso fosse stato arrestato perché con
molta probabilità era stato colto in stato di ubriachezza perché era solito dedicarsi
con assiduità al vino. Dopo alcune ore però giungeva alla polizia ed ai
carabinieri la notizia secondo la quale un cadavere era stato rinvenuto in
località “Fosso Busico” in agro della
città del Foro. Lo stesso veniva subito identificato dai figli (Maria, Giuseppe, Antonietta e Giuseppina) accorsi sul posto per
quello dello “scomparso”, Tommaso
Moronese. Tutti i figli si abbandonarono a scene di pianto e tra un
singhiozzo e l’altro Giuseppe si mostrava convinto che il proprio genitore
doveva essere morto a seguito di caduta accidentale accorsagli nello stato di
ubriachezza a lui solito. Dall’esame cadaverico ed ancora dall’autopsia disposta dal
Procuratore della Repubblica si potè accertare in modo indubbio che il cadavere
del Moronese presentava una vasta chiazza ecchimotica alla regione orbitaria
destra ed escoriazioni varie, nonché una frattura della base cranica; tali dati
obiettivi orientarono le indagini per il delitto. La mancanza sul terreno, ove
era adagiato il cadavere, di tracce di colluttazione, il mancato rinvenimento
di corpi contundenti atti a provocare le
lesioni riscontrate, la inesistenza di macchie di sangue sul posto, l’assenza
di polvere e di fango sulle scarpe del Moronese, pur essendo la Via Campania,
strada che necessariamente la vittima avrebbe dovuto percorrere per giungere
sul posto ove fu rinvenuta, piena di mota
e di pozzanghere, furono elementi tali da convincere gli organi di polizia che
il delitto fosse stato commesso in località diversa dal luogo del rinvenimento
del cadavere il quale in un secondo momento vi fu trasportato.
Il secondo a destra Avv. Giuseppe Garofalo difensore dell'imputato |
Gli
inquirenti accertarono che la sera del delitto il Tommaso Moronese alle 20 e 15 circa, allontanatosi dall’Osteria di “Picco ò Campo”, ove si era trattenuto
placidamente va giocare a carte con Michele
Rauso, Antonio Stellato e un
altro giovane non identificato, si era diretto verso casa con la sua bicicletta
in condizioni affatto normali avendo bevuto un solo bicchiere di vino. Iniziate le indagini in tali sensi, venivano interrogati i familiari del morto i quali asserivano che
il loro genitore si era allontanato di casa alle 16:00 del 21 settembre, che in
assenza del padre andarono a letto ad eccezione di Francesco Moronese il quale
recatosi dapprima a Macerata Campania e poi a Curti per godersi la festa si
coricò al suo rientro, avvenuto qualche ora prima della mezzanotte e che
durante la notte tutti si svegliarono, chiamati dalla madre preoccupata del
mancato rientro del marito e tutti insieme iniziarono le opportune ricerche, ad
eccezione di Caterina Moronese. Accertato in un secondo momento che il Tommaso
Moronese era uscito di casa verso le 16:00 e vi aveva fatto ritorno in serata
stessa, sorgeva nei verbalizzante il sospetto che si trattasse di un delitto
compiuto dagli stessi familiari, onde procedevano al loro interrogatorio. Invero Giuseppina
Moronese fu la prima a dichiarare che
verso le ore le 21:30 del 21 settembre il padre era rientrato ubriaco e con un
coltello in mano minacciava tutti i
componenti della famiglia: “Questa sera
vi devo scannare tutti”. Intanto le
ragazze con la madre si erano rinchiuse nella stanza da letto, mentre il padre
si avviò verso la campagna seguito da Giuseppe che, tornato durante la notte,
riferì di aver sferrato al genitore un forte pugno alla sua testa, lasciandolo
morto in campagna. Il Giuseppe Moronese, invece riferiva che mentre dormiva
nella stalla fu svegliato dalle grida della madre e delle sorelle minacciate
dal padre che mentre nel cortile affilava un coltello, andava ribadendo: “Vi debbo scannare come pecore a tutti”,
intanto la madre e la sorella Giuseppina si allontanava dalla casa ed egli
accortosi che il padre s’era addormentato uscì dalla stalla ove dormiva, prese a terra una grossa barra di legno di
quelle che servono per i carretti e la vibrò con violenza alla fronte del
genitore assestandogli anche un pugno all’occhio.
Tommaso Moronese ricevuto il
colpo ebbe la forza di alzarsi e si diresse nella sua stanza da letto cadendo
ai piedi del comò e versando del sangue sui mattoni, e quivi per finirlo gli si strinse la gola con una
corda e poi chiamò la sorella Maria che era ancora in casa affinché gli
apprestasse un lenzuolo per trasportare il cadavere del padre in aperta campagna;
trasporto che effettuò con l’aiuto della predetta Maria. Effettuato questo
entrambi fecero ritorno a casa dove nel frattempo erano tornate la madre e le
sorelle e chiesero loro perdono di quanto avevano commesso: poco tempo dopo fece ritorno nel
fratello Francesco. Però, reinterrogato nella stessa giornata Giuseppe Moronese, precisava che mentre
il padre giaceva accanto al comò, ove si era condotto dopo aver ricevuto il colpo,
chiese una fune alla sorella Maria per finirlo la quale non solo gliela portò
ma l’aiuto anche a stringere per accelerare la morte del padre che già era
agonizzante. La classica chiamata di correità. La Maria Moronese rese analoga dichiarazione precisando che aiutò il
fratello a mettere la corda al collo del padre ancora in vita e di averlo poi
trasportato in campagna servendosi di una scala a pioli. Al contrario Francesco Moronese protestava la
propria innocenza. Egli dopo aver cenato in casa con tutti di famiglia – ad
esclusione del padre - ne uscì per recarsi a Macerata Campania. Strada facendo
si imbattè nel genitore dal quale si fece dare la bicicletta e con questa
dapprima si recò a Macerata Campania per parlare con Agostino Iodice, in merito al pozzo artesiano e poi a Curti, per
godersi la festa, facendo ritorno a casa verso la mezzanotte: quivi giunto
sull’uscio della stanza coniugale trovò morto il padre e dal fratello Giuseppe
apprese che lui lo aveva ucciso. I due fratelli insieme con la sorella Maria
avvolsero il genitore in un lenzuolo e adagiatolo su di una scala a pioli, lo
trasportarono in campagna per simulare una disgrazia e per depistare le
indagini della giustizia. In base a questi elementi Giuseppe, Maria e Francesco Moronese erano denunciati – in stato di
arresto – per “concorso in omicidio” del loro padre. Instauratosi il
procedimento penale l’istruttoria venne condotta col rito formale. Una perizia
ematologica – oltre a quella autoptica – poi eseguita su due mattoni repertati
nella camera da letto ove vi sarebbe svolto l’epilogo del tragico
delitto - secondo le dichiarazioni rese
dal Giuseppe Moronese, diedero esito
negativo. Sulle prime tutti gli indiziati si protestarono innocenti ma poi tra
ammissioni e reticenze, inesattezze e contraddizioni, preoccupazione di
addossare tutta la responsabilità su Giuseppe
Moronese che materialmente vibrò il colpo mortale e che in un secondo momento tentò di escludere la
partecipazione al delitto del fratello Francesco e della sorella Maria hanno
fornito elementi che uniti tra loro
e logicamente concatenati, riescono a dare un quadro completo sia pure con qualche particolare lacunoso dello svolgimento di quel tenebroso dramma del
21settembre del 1953 avvenuto nell’abitazione dei Moronese e conclusosi con
l’uccisione del padre e col macabro trasporto del cadavere in aperta compagna. Giuseppe Moronese
giunse alla confessione del delitto per gradi. Innanzi ai carabinieri dapprima
nega – ma poi reso consapevole che la sorella Giuseppina aveva parlato –
finisce col dire più di quello riferito dalla Giuseppina, perché mentre questa afferma che fu il
fratello a narrarle di aver ucciso il genitore con un pugno nell’occhio in
aperta compagna, Giuseppe invece descrive l’omicidio del padre nei suoi
particolari, da lui commesso nel cortile
dell’abitazione a mezzo di una barra di legno. Innanzi al magistrato il
medesimo dichiara che mentre dormiva nella stalla – come sua abitudine – sentì
gridare il padre come un forsennato e la madre e le sorelle piangere;
nell’aprire la porta venne aggredito dal padre armato di coltello che gli
scagliò contro la manovella per cui rientrò e rinserrò, e accortosi dopo un
certo tempo che il genitore si era appisolato sui canapuli pensò bene di
ucciderlo: prese infatti la manovella e con essa gli vibrò un forte colpo al
capo seguito da un forte pugno sull’occhio destro successivamente il padre si
alzò e si portò lentamente nella camera da letto, dove appena entrato si
accasciava al suolo; egli per finirlo
gli strinse da solo una corda al collo, richiesta ed approntata dalla sorella Maria. Poi tutti e
due adagiarono il cadavere ricoperto con un lenzuolo su una scala a pioli e lo portarono
sulla strada di campagna , ove fu rinvenuto il mattino successo; il fratello
Francesco fece ritorno mezz’ora dopo il trasporto. E nuovamente
interrogato dal magistrato inquirente Giuseppe Moronese modificava la
precedente confessione nel senso che inseguito dal padre fu da questi colpito
con un bastone lanciatogli; egli lo raccolse e con lo stesso percosse
violentemente il capo del genitore, cagionandogli la morte: lasciò il padre
morto là dove era caduto.
la vittima |
LA SERA DEL 21 SETTEMBRE DEL
1953 RIONE SANT’ ERASMO- FOSSO “BUSICO” IN AGRO DELLA CITTÀ DEL FORO
UN ORRENDO PARRICIDIO:
GIUSEPPE, MARIA E FRANCESCO MORONESE ACCUSATI DI AVER UCCISO IL PADRE
l'assassino |
IL
CADAVERE TRASCINATO IN APERTA CAMPAGNA. LA MOGLIE ANDÒ A DENUNCIARE AI
CARABINIERI LA SCOMPARSA DEL MARITO. LUI MINACCIAVA CON UN COLTELLO MOGLIE E
FIGLI. IL VERO ASSASSINO ERA IL FIGLIO GIUSEPPE IL QUALE VIBRÒ
UN FORTE COLPO AL CAPO PER FINIRLO GLI
STRINSE DA SOLO UNA CORDA AL COLLO RICHIESTA ED APPRONTATA DALLA SORELLA MARIA.
POI TUTTI E DUE ADAGIARONO IL CADAVERE RICOPERTO CON UN LENZUOLO SU UNA SCALA A PIOLI E LO PORTARONO
SULLA STRADA DI CAMPAGNA, OVE FU RINVENUTO IL MATTINO SUCCESSO.
L'esperimento giudiziale |
CON LE ATTENUANTI DELLA PROVOCAZIONE E
LE GENERICHE LA PENA PER GIUSEPPE MORONESE FU DI 20 ANNI DI CARCERE. FRANCESCO
E MARIA MORONESE FURONO ASSOLTE “PER NON AVER COMMESSO IL FATTO”. DOPO 4
PROCESSI LA PENA FU RIDOTTA PRIMA AD
ANNI 18 E POI AD ANNI 15.
A due anni dal delitto, il 21
gennaio del 1955, il giudice Istruttore Alessandro
Mancini, del Tribunale di Santa
Maria Capua Vetere, rinviava al giudizio
della locale Corte di Assise, Giuseppe, Maria e Francesco Moronese,
per rispondere di omicidio aggravato in correità tra di loro in persona del
loro genitore Tommaso Moronese. Nel
corso del dibattimento Giuseppe Moronese
confermò per la massima parte le dichiarazioni rese in precedenza agli
inquirenti. “Nego nel
modo più assoluto - continuò
nel suo interrogatorio Giuseppe Moronese - di
aver messo le mani al collo di mio padre e faccio presente che io al Giudice
Istruttore resi la dichiarazione subito dopo quando ero ancora in grande stato di agitazione. Il G.I. mi domandò se io
confermassi la dichiarazione resa ai carabinieri ed io – stordito ancora – dovetti confermare.
Passò poi al vaglio dei
giudici la testimonianza della figlia della vittima Maria, la quale ribadì anche innanzi alla Corte la propria
innocenza. Fu poi la volta dell’altro figlio della vittima Francesco il quale esordì con il confermare che lui era totalmente
estraneo al delitto essendo stato a Macerata per la nota vicenda del Pozzo.
Anche per lui la solita contestazione di aver dichiarato una cosa diversa ai
carabinieri, al giudice istruttore ed ora in udienza. Poi la testimonianza della vedova Assunta Cecere: “La sera io non seppi nulla da mio figlio Giuseppe”. Tutti si sono trovati d’accordo nel fornire una
triste rappresentazione del carattere dell’uomo ucciso. Nicolò Brajda pubblico ministero chiese 30 anni di reclusione. Dopo
le arringhe difensive degli avvocati Ciro
Maffuccini, Generoso Iodice, Giuseppe Garofalo e Ettore Botti, la Corte di Assise (Presidente, Giovanni Morfino; giudice a latere, Renato Mastrocinque) condannò Giuseppe
Moronese, con la concessione delle attenuanti della provocazione ad anni 24
di reclusione per tali attenuanti e diminuita poi ad anni 20 per effetto delle
attenuanti della provocazione. La corte assolse Francesco e Maria Moronese
per non aver commesso il fatto. Nei motivi di appello di Ciro Maffuccini venne messo in risalto il fatto che all’imputato
doveva essere riconosciuto “il vizio
parziale di mente”. La Corte, infatti, aveva ignorato la richiesta della
difesa di sottoporre a perizia psichiatrica il Moronese il quale già da
militare era stato riformato per una grave “sindrome
nevrasteni-forme in distonia neurovegetativa”. Quantomeno i primi giudici avrebbero dovuto
disporre perizia psichiatrica, tanto più che essa era stata già in periodo
istruttoria invocata in difesa, la quale aveva anche posto in rilievo il fatto
che un cugino in primo grado del padre dell’imputato era stato ricoverato nel
manicomio di Aversa. Tra i motivi evidenziati in appello l’ipotesi della
contestazione dell’omicidio preterintenzionale e non volontario e l’eccessiva
pena irrogata. La Corte di Assise di Appello di Napoli (Presidente, Filippo D’Errico; giudice a latere, Giuseppe Conti; pubblico ministero,
procuratore generale, Titomanlio Bellini)
con sentenza del 17 luglio del 1956 ridusse la pena ad anni 18 rigettando
ancora una volta la perizia psichiatrica. Quindi ricorso per Cassazione accolto ”per
quanto concerne la richiesta di una maggiore riduzione di pena per le
attenuanti generiche” e con sentenza del 7 luglio 1959 rinviò ad altra sezione della Corte di Assise di Appello di
Napoli (Presidente, Emanuele Montefusco, giudice a latere, Raffaele
Petti; pubblico ministero, S.
Procuratore Generale, Federico Putaturo)
la quale con sentenza dell’11 dicembre
del 1959 – dopo sei anni dal delitto – determinò la pena definitiva in anni 15.
Fonte
Archivio di Stato di Caserta
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