UNA VENDETTA SERVITA A FREDDO.
Vittima e aggressori erano reduci dal cinema Olimpo di Casal di Principe, dove era stato proiettato il film “Gli amori di Carmen”.
FILIBERTO DIANA, GIUSEPPE PETRILLO E ARMANDO
GAGLIARDI CON PISTOLA E COLPI DI
PALLETTONI UCCISERO IL GUARDIANO CAMPESTRE ANTONIO MORMILE
I cittadini
abitanti nei pressi del luogo del delitto
furono concordi nel dichiarare che la sera precedente erano stati svegliati da otto, nove colpi di pistola, sparati quasi contemporaneamente,
ma non avevano dato peso all’occorso in quanto non avevano udito alcun grido di
persona colpita ed anche perché ritenevano che
si fosse trattato della “solita” sparatoria di giovani scapestrati che
sparano sempre allorquando – provenienti dai cinema di Casal di Principe e San
Cipriano – rincasano in Casapesenna.
UN CARABINIERE, UNA BALILLA E IL FUNERALE DELLA VITTIMA |
San
Cipriano d’Aversa - Quel
13 aprile del 1952, lo studente
universitario, di 26 anni, Nicola Ardente, abitante alla via
Casapesenna n°6 uscito di buon’ora come ogni mattina ebbe la brutta sorpresa (
ma ciò non era un avvenimento raro, anzi) di imbattersi in un cadavere che
giaceva sul terreno. Avvertì i carabinieri i quali, con l’ausilio del
magistrato di turno, iniziarono le indagini di rito. E subito una pattuglia, al
comando del Mar. a piedi Alberto La Sala,
con l’ausilio dei collaboratori Antonio
Mavello, Cosimo Leopardi, Giuseppe De Simone e Giuseppe La Barbiera giunta alla fine di via Roma di San Cipriano
d’Aversa ed al principio di quella campestre – che attraverso il cavalcavia
sulla FF.SS. porta a Casapesenna - osservò un gruppo di persone intente a
guardare una chiazza non copiosa di sangue assorbita per la massima parte già
dal terreno presso un paletto di legno formante angolo di un piccolo
appezzamento di terreno seminato ad erba medica recinto da filo spinato, al
lato destro di chi si porta alla borgata di Casapesenna. L’anzidetta chiazza di
sangue trovavasi quasi di rimpetto al muro esterno della casa dei fratelli Paolo, Emilio ed Attilio Galeone, tutti
agricoltori e nati a San Cipriano e
domiciliati alla via Roma, 248 la dove il muro formava angolo retto con la
strada Casapesenna misurante la stessa circa 4 metri. I presenti affermavano
che proprio dove era stata notata la chiazza di sangue, di buon’ora, era stato
rinvenuto il cadavere di Antonio Mormile, di anni 25, agricoltore, domiciliato alla
Borgata Casapesenna alla via Nuova, 2
già trasportato nella propria abitazione dai familiari. Interrogati ai fratelli Galeone furono
concordi nel dichiarare che la sera precedente – presumibilmente dalla ore 22
alle 23 – erano stati svegliati da otto, nove colpi di pistola, sparati quasi contemporaneamente,
ma non avevano dato peso all’’occorso in quanto non avevano udito alcun grido
di persona colpita ed anche perché ritenevano che si fosse trattato della “solita” sparatoria
di giovani scapestrati che sparano sempre allorquando – provenienti dai cinema
di Casal di Principe e San Cipriano – rincasano in Casapesenna. I carabinieri,
dopo aver repertato presso la chiazza di sangue tre tacchetti di cartone ferma
pallini di cartuccia da fucile da caccia cal. 16 nonché otto bossoli di pistola
automatica di cui 7 di cal. 7,65 e uno
cal. 9 (questo significa che furono tre armi a sparare) il tutto consegnato da
tale Michele Zagaria, di anni 57, da
San Cipriano d’Aversa, contadino, il
quale, transitando aveva raccolto il tutto e dichiarò di averli rinvenuti dietro
il muro di cinta dello stabile dei Galeoni in un raggio di circa un metro. I
carabinieri, inoltre, repertarono anche un altro bossolo di pistola automatica
“Beretta” cal. 9 consegnato da tale Fortunato
Pagano, di 26 anni, da San Cipriano,
domiciliato alla via Diana 3 che affermò di averlo rinvenuto mei pressi della
chiazza di sangue. Ma ciò che ho letto in questi atti processuali è veramente
sconcertante. Ma vi rendete conto che questi signori per fare “shopping” di
bossoli alterarono la scena del crimine? E vi rendete conto che appena un uomo
era ferito invece di portarlo in ospedale (usanza stupida di tutta la zona) lo
portavano a casa? Ma debbo dire che non è la prima volta che mi capita questo
fatto. Nella mia lunga (50 anni) milizia
di cronista giudiziario ha assistito addirittura ad alterazione delle scena del
delitto con personaggi che arrivati prima dei giornalisti e dei carabinieri
depredavano i cadaveri e asportavano le
armi che avevano lasciato gli assalitori e i morti ammazzati. Assurdo. E’ una
cultura, per fortuna, in via di estinzione. Il mar. La Sala con il suo seguito si recò nell’abitazione del Mormile ed ivi
giunto osservò che al centro della camera, su di un tavolo da pranzo, su cui
era stato posto un materasso, giaceva in posizione supina, il cadavere di
Antonio Mormile che indossava giacca e pantalone bleu scuro, camicia celeste,
pullover bleu, cravatta nera, calzini quasi celesti e scarpe basse nere. Aveva
il braccio sinistro piegato ed appoggiato sul petto mentre quello destro,
anch’esso piegato, aveva la mano diretta verso la testa. Da un esame esterno
del cadavere si poteva capire che l’uomo era stato colpito da armi corte e
soprattutto anche da armi lunghe da fuoco al fianco destro, più
specialmente all’emitorace destro, ed
altro corpo d’arma da fuoco lunga alla coscia
destra alla regione laterale interna.
Negli interrogatori che seguirono
vennero fuori i primi indizi dei probabili assassini. Giovanni Mormile, 52 anni, padre dell’ucciso affermò che il figlio
era uscito di casa il 3 aprile, il giorno di Pasqua, asserendo che si sarebbe
recato al cinema. Accortosi verso la mezzanotte che il figlio non era rientrato
lo comunicò alle altre due sue figlie. Iolanda
Mormile, sorella della vittima, di
anni 16 si diresse da Nicola Zagaria,
amico del fratello ma non lo rintracciò. Si diresse allora verso il cavalcavia
e rinvenne il cadavere del fratello giacente per terra rivolto sul fianco
sinistro e col viso verso terra appoggiato sul braccio dello stesso lato.
Allora si mise a gridare ed accorsero alcuni familiari ed amici che provvidero
a trasportare nella sua abitazione il corpo esanime di Antonio Mormile. In un
successivo interrogatorio il padre della vittima affermò innanzi ai carabinieri
che lui, mettendo insieme i vari tasselli delle frequentazioni e delle minacce
al figlio aveva gravissimi sospetti che ad uccidere il figlio fossero stati i
fratelli Filiberto e Cristofaro Diana, con i quali da anni
erano in lite per una infinità di litigi avvenuti in agro di Villa Literno, tra
i componenti della famiglia Mormile – costituente il nucleo familiare dell’ucciso
– e quello degli zii di questi ultimi Nicola,
(di anni 43) e Domenico Mormile (di
anni 47), entrambi da San Cipriano d’Aversa, e che due mesi prima del delitto
la vittima, in agro di Villa Literno, ebbe a schiaffeggiare Filiberto Diana per
le sue precedenti aggressioni esercitate in danno di vari componenti della
famiglia Mormile. Un delitto al fine di vendetta, insomma. L’uccisione del Mormile produsse enorme impressione tra la popolazione locale pur tanto
abituata a delitti del genere e indubbiamente
per la simpatia che circondava i componenti della famiglia Mormile, additata
come esempio di laboriosità ed onestà. Una perquisizione operata presso il
domicilio dei fratelli Diana consentì di
stabilire che mentre Cristofaro che era ammogliato aveva pernottato nella sua
abitazione il fratello Filiberto, che era celibe, non aveva pernottato nella
notte del delitto nella sua abitazione. E altri sospetti presero piede
allorquando i fratelli Diana non vennero rintracciati neppure presso altri
parenti essendosi dati alla latitanza. Attraverso una comunicazione
“confidenziale” i carabinieri vennero a conoscenza che la notte precedente il
Filiberto Diana aveva pernottato presso una parente tale Rosina De Chiara. Un carabiniere, mentre si recava presso
l’abitazione dei De Chiara, alla via Freddana, 61 per invitarli in caserma
sorprese Carolina Coppola (di anni 49) mentre tentava di disfarsi di un
sacco, ma il carabiniere Giuseppe De
Simone glielo impedì e nel sacco
sequestrato venne rinvenuto il fucile omicida che era da caccia retrocarica a
due canne calibro 16, smontato. Nel sacco vi erano pure 5 cartucce per detta
arma, di cui due a pallettoni. Nella culla che era in una stanza attigua venne
rinvenuto un cappotto grigio. La donna confessò che il fucile ed il cappotto si
appartenevano a Filiberto Diana cugino del marito. Le perizie sulle armi e le
dichiarazioni dei testi portarono gli inquirenti sulle precise tracce dei tre
assassini. Alcuni testimoni, però ingarbugliavano la matassa. Nella zona è
veramente difficile distinguere i testimoni veri da quelli falsi e viceversa. I
carabinieri erano orientati a pensare che solo Filiberto Diana aveva partecipato assieme ad altri al delitto mente
la voce popolare indicava invece quali autori entrambi i fratelli. Il delitto divenne l’argomento del giorno.
Nella bettola gestita da Antonio Del
Vecchio, sita alla via Roma di San Cipriano d’Aversa i carabinieri
accertarono che due giorni dopo il delitto il muratore Paolo Galeone affermò che ad uccidere il Mormile erano state cinque persone. La
stessa sera della “Pasqua di sangue”, così come si disse nella borgata di
Casapesenna, subito dopo la sparatoria transitarono sul luogo del delitto: Francesco Piccolo, Pasquale Zagaria, Carmine
Pietroluongo e Giuseppe Santoro, i quali
tutti confermarono di aver notato il cadavere e tutti erano reduci dal cinema Olimpo
di Casal di Principe, dove era stato
proiettato il film “Gli amori di Carmen”;
dalla stessa sala cinematografica era uscito da poco anche la vittima.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
IL LUOGO DEL DELITTO, LA BICICLETTA, IL CORPO DELLA VITTIMA E UN CARABINIERE |
ARMANDO GAGLIARDI FU RITENUTO
PAZZO. FILIBERTO DIANA FU
CONDANNATO A 25 ANNI E 30 ANNI
FURONO GLI ANNI PER GIUSEPPE
PETRILLO.
Dopo una complessa ed
elaborata istruttoria, portata avanti con numerosi figli di lume dai
difensori dei tre imputati a chiusura
della fase formale Giuseppe Petrillo,
di anni 21; Armando Gagliardi, di
anni 22 da Casal di Principe e Filiberto Diana, di anni 21 da San
Cipriano d’Aversa furono rinviati al giudizio della Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere per rispondere di concorso
in omicidio premeditato aggravato nei confronti di Antonio Mormile. L’accusa parlava di omicidio a scopo di vendetta,
“per avere – in concorso tra loro – con premeditazione ed al fine di vendicarsi
volontariamente cagionato al morte di Antonio Mormile contro il quale sparavano
diversi copi di pistola e due colpi di fucile da caccia caricati a pallettoni
esplosi a breve distanza che attingevano il Mormile alla coscia destra ed al
torace determinandone la morte per anemia acutissima dovuta alla copiosa
emorragia interna ed esterna generata dai numerosissimi pallini”. Ma la vera
battaglia in udienza vide protagonisti gli psichiatri che avevano decreto la
seminfermità mentale per due degli imputati. All’epoca c’era un uso
indiscriminato delle perizie psichiatriche a quasi tutti (previa buone parcelle
per medici compiacenti) riuscivano a dribblare il carcere per fare pochi anni
di manicomio. La relazione psichiatrica sulla capacità di intendere e di volere
di Armando Gagliardi fu affidata al Prof. Euastachio Zara, direttore dell’ospedale psichiatrico dell’Aquila e
docente dell’Università di Napoli della clinica delle malattie nervose e
mentali. La sua conclusione fu che il Gagliardi, pur essendo persona “socialmente pericolosa” non
aveva – nell’atto in cui commise il delitto – una seminfermità mentale.
AVV. SEN. GENEROSO IODICE |
Un’altra
perizia sullo stesso imputato era stata redatta dal dott. Giovanni Amati, direttore alienista del manicomio di Napoli, che
aveva ritenuto, invece, il soggetto seminfermo di mente. “Nel Gagliardi – scrisse il perito nella
relazione – non si è verificata né era per verificarsi né era stata da poco
superata una crisi od equivalente. Se vi è stata l’fesa – come pare – il
soggetto l’ebbe a percepire, come tale ed a tale offesa reagì in modo
eccessivo, illegittimo e brutale; ma a simile reazione egli era già predisposto
a causa del complesso morboso in lui presente e dominante in ogni momento la
sua personalità. E questo spiega come il nostro periziando – rotto le barriere
della convivenza e i vincoli del codice – sia stato tratto dalla propria
latenza morbosa a commettere il reato di cui deve rispondere, senza poter
completamente e liberamente valutare le conseguenze e la estensione dell’atto
delittuoso. Concludendo, Arando Gagliardi è un malato di mente ed incarna
precisamente la figura di un soggetto epilettoide con insufficiente evoluzione
psichica. Tale stato morboso esisteva in lui fin da epoca precedente al reato
e, nel momento in cui commise l’azione delittuosa era, per infermità, in uno
stato di mente tale da scemare grandemente senza escluderla, la capacità di
intendere e di volere. Il Gagliardi, con finalità ortofreniche in relazione al
persistere del complesso morboso segnalato, è da ritenersi persona socialmente pericolosa”. La Corte di Assise prese in considerazione la
perizia per Gagliardi e la condanna fu il manicomio criminale di Aversa.
Condannò poi a 30 anni di reclusione il Petrillo ed a 25 anni il Diana. Condanne
confermate in appello e cassazione. Nel
corso dei tre gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: Attilio Pianese, Antonio Giordano e Generoso
Iodice.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
Il delitto accadde nella contrada
“Casapesenna”
di San Cipriano d’Aversa il 13 aprile del 1952
Nessun commento:
Posta un commento