LUCA RONZA
UCCISE CON DUE COLPI DI PISTOLA NICOLA GRASSIA
Il delitto accadde in località “Cinque Vie” il 3 agosto del 1954, alle 15,45
nei pressi della linea
Ferroviaria Napoli-Piedimonte d’Alife in agro di Trentola
Alla
base del delitto le ingiurie della vittima nei confronti della madre
dell’assassino. La vittima era armata ed aveva tentato di aggredire il suo
avversario. La donna era andata a reclamare il pagamento di un barile di vino
rotto da un operaio.
Trentola - Con
rapporto del 3 agosto 1954, i carabinieri riferivano che il 28 luglio verso le
ore 15,45 era stato rinvenuto in località “Cinque
Vie”, nei pressi della linea ferroviaria
“Napoli-Piedimonte d’Alife”, il cadavere
di tale Nicola Grassia, che era
abitante nella vicina Dugenta. Il cadavere, coperto da una giacca di velluto,
pietosamente messogli addosso da tale Luigi
Ibello, accorso fra i primi, giaceva in una pozza di sangue fuoriuscito
dalla bocca, dal naso e da due forami di proiettile da arma da fuoco; l’uno, al
primo spazio intercostale sinistro e l’altro, quello di uscita, alla regione
della scapola destra. Nella tasca
posteriore dei pantaloni dell’ucciso era stata rinvenuta una pistola a tamburo
a sei colpi – che anche per l’assenza di tracce di esplosione – non aveva
sparato pur avendo nel caricatore solo cinque cartucce. Gli investigatori
precisavano che dalle immediate indagini era risultato che autore del fatto di
sangue era stato tale Luca Ronza resosi perciò irreperibile.
Poco prima del fatto la madre del Ronza, Teresa
Cantile, si era recata a casa del bottaio Paolo Esposito, onde sollecitarlo del rimborso già da tempo
promesso, del costo di un suo barile di vino che era stato rotto dal suo
operaio Giovanni Pannella. Presente
alla discussione – piuttosto animata – era stato anche presente la vittima
Grassia, operaio dello Esposito, il quale, intervenendo nella discussione aveva
inviato l’Esposito a mandare via la Cantile esclamando: “ Paulù se fossi in te caccerei fuori questa donna”. L’Esposito non
aveva mancato di rimproverare il Grassia per il suo inopportuno intervento ed aveva
rassicurato del proprio pagamento della somma di lire 3100 la Cantile che era
perciò subito rincasata. Poco dopo
l’esposito si era portato – onde consegnare la somma – in casa della Cantile ed
aveva notato che costei stava riferendo – alla presenza di tale Paolina Mormile, quanto poco prima le
era occorso, sia al marito Antonio Ronza
che al figlio. Se non che mentre l’Esposito cercava di calmare la donna
rappresentando la poca rilevanza dell’incidente – anche in considerazione del
carattere “un po’ abbonato” del Grassia, costui era passato proprio di là in
compagnia di Luigi Ibello ed era
stato subito affrontato da Luca
Ronza che gli aveva mollato anche alcuni schiaffi.
Erano
prontamente intervenuti i presenti e lo stesso genitore del Ronza che dopo aver
schiaffeggiato il giovane aveva avuto cura di farlo entrare in un vano a
pianterreno della propria abitazione. L’incidente pareva così concluso e le
dette persone, allontanatosi il Grassia, si intrattenevano ancora nel cortile
allorquando sentirono gridare da alcune donne che il Luca Ronza, scappato dalla
stanza attraverso un finestrino aveva ucciso il Grassia dandosi alla fuga in
campagna. Testimoni oculari dell’assurdo delitto erano stati Ermanno Pisanelli, Nicola Grassia (parente e omonimo) e Teresa Felaco, quest’ultima,
addirittura aveva scorto lo sparatore
colluttare con la vittima. Dopo alcuni
giorni il latitante si costituiva presso le carceri di Santa Maria. Sottoposto
al primo interrogatorio il Ronza dava la “sua” versione dei fatti e assumeva di
aver assistito, mentre si accingeva ad entrare nel proprio cortile, un uomo di
ingiuriare la madre, aveva quindi scorta costei che piangeva vicino al Grassia
e pertanto si era avventato contro costui ma ne era stato impedito dal proprio
genitore che anzi lo aveva schiaffeggiato e costretto ad entrare in casa. Dopo
pochi minuti però egli era uscito di
nuovo – senza peraltro farsi notare dalle persone che sostavano nel cortile –
ma al solo scopo di attingere
informazioni dai vicini – ed
assodare quanto era accaduto fra la propria madre ed il Grassia. Se non che
poco lontano aveva improvvisamente scorto – nascosto dietro un cumulo cdi
immondizia – il Grassia stesso che subito gli era andato incontro afferrandolo
per una spalla e pronunziando parole di sfida accompagnate dal gesto di cavar
dalla tasca dei pantaloni una pistola di cui egli avevano notato l’impugnatura.
Perciò egli aveva estratto la propria pistola (si noti il particolare che, due
giovani all’epoca, nella triste zona dei Mazzoni erano armati e non erano i
soli, peggio del “Far West”, insomma) puntandola contro il Grassia; questi
nell’atto di deviare l’arma era stato raggiunto da un colpo improvvisamente
esploso. Nel corso dell’istruttoria i testimoni confermavano le dichiarazioni
rese in precedenza. La perizia necroscopica affidata ai periti settori dottori Pasquale Tagliacozzi e Mario Pugliese accertava che “il
decesso del Grassia rimontava a 24/36 ore prima dell’autopsia; che la causa
della morte era stata la cospicua ed infrenabile emorragia endocavitaria
generata dalla lesione di ambedue i lobi superiori dei polmoni; che il Grassia
venne attinto dea un colpo d’arma da fuoco portatile a canna corta; che la
vittima doveva mostrare all’offensore il fianco sinistro e che sparato e sparatore
dovevano trovarsi su uno stesso piano; che il colpo venne esploso da breve
distanza quasi a bruciapelo”.
La
sentenza istruttoria che concluse per il rinvio a giudizio del Grassia per
omicidio nell’approfondimento del caso mise in evidenza l’antefatto del tragico
delitto. Accertarono i giudici della Sezione Istruttoria della Corte di Appello
di Napoli… “che il caso volle che mentre lo Esposito cercava di calmare la
Cantile, addirittura inviperita come dimostra la sua esclamazione: “ Tu non sai cosa tengo in questa pancia!”
passasse dinanzi al cortile quel “pidocchioso”
del Grassia, per usare la stessa
espressione della Cantile. Immediatamente e prima che il Grassia avesse potuto
giustificarsi e “ragionare con calma”
siccome riferisce lo Ibello, Luca Ronza gli si avventò contro
schiaffeggiandolo. Il gesto del giovane apparve allo stesso suo genitore
precipitoso ed esagerato tanto che il povero uomo – rimproverando anche la
moglie – non esitò a schiaffeggiarlo ed a trascinarlo nel vano terraneo dell’abitazione
sito nel cortile medesimo. Deve escludersi che il Ronza – in preda ormai ad una
evidente incontrollabile furia – fornitosi di un mezzo micidiale, quale una
Beretta 7,65, abbia voluto soltanto ferire l’avversario, colpito peraltro in
pieno petto da una distanza poco superiore al bruciapelo, egli va dichiarato
colpevole poiché d’altra parte la causale non può ritenersi inadeguata in
considerazione del temperamento stesso chiaramente impulsivo di lui e del
costume degli abitanti della zona”.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
Con la concessione delle attenuanti
della provocazione e le generiche la condanna fu ad anni 16 di reclusione. La
Corte di Assise di Appello ridusse la pena ad anni 14.
La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Giovanni Morfino; giudice a latere, Renato Mastrocinque; pubblico
ministero, Gennaro Calabrese), con
sentenza pronunciata il 5 marzo del 1956,
condannò Luca Ronza, di anni
25 (all’epoca dei fatti) da Trentola, accusato di omicidio volontario in danno
di Nicola Grassia, con la
concessione delle attenuanti della provocazione e le generiche alla pena di
anni 16 di reclusione. La Corte di Assise di Appello di Napoli con sentenza del
18 aprile del 1958 ridusse la pena ad anni 14. In sede di dibattimento il Ronza
mantenne la tesi difensiva già adombrata nel corso dei precedenti
interrogatori. “Ritornando in bicicletta a casa trovai mia madre piangendo – raccontò
ai giudici – che era in compagnia di mio
padre, e dei conoscenti Luigi Ibello,
Paolo Esposito e Paolino Mormile. Mia madre mi riferì di
essere stata ingiuriata poco prima da Nicola Grassia; essa mi spiegò, sempre
piangendo, che il Grassia le aveva detto che se lui fosse stato al posto di
Esposito l’avrebbe cacciata fuori e le avrebbe messe le mani in faccia. In
questo momento sopraggiunse il Nicola Grassia ed io senza domandargli conto di
quanto lui aveva detto a mia madre mi lanciai contro di lui per
schiaffeggiarlo; non riuscii neppure a colpirlo perché si intromisero i presenti;
anzi mio padre mi dette due/tre schiaffi. Come ho già riferito al G.I. mi
incontrai inaspettatamente con il Grassia, il quale, vedendomi mi affrontò
cercando anche di impugnare la pistola che teneva nella tasca posteriore dei
pantaloni, dalla quale usciva il manico. Preciso che io e il Grassia ci colluttammo per cinque/sei minuti, poi lui
fece il gesto di portare la mano alla pistola. Io cacciai la mia pistola se non
che il Grassia mi afferrò la mia mano armata e così partì il colpo
accidentalmente. Il Grassia mi affrontò dicendomi: “Carugnò in casa tua facevi il guappo fallo anche qua”.
“La circostanza inoppugnabile – scrissero i
giudici nella motivazione della loro condanna - che il Ronza fuggì di casa
armato della pistola – infilata nella cinghia dei pantaloni – nascosta
sotto la camicia e pronta per ciò
all’uso immediato - rendono davvero superflua ogni discussione sulla
sussistenza di uno stato di legittima difesa dedotta dall’imputato. Questo
stato d’altronde non sussisterebbe neppure se il Grassia avesse – come assume
l’imputato – portato la mano alla pistola
giacchè aggressore rimarrebbe purtuttavia
il Ronza e la eventualità sua necessità di difendersi sarebbe pur sempre
derivata da una causa dipendente dalla sua volontà come conseguenza di uno stato di pericolo
volontariamente posto in essere proprio da lui. In difetto il presupposto
della legittima difesa non è
ipotizzabile neppure – come è noto – l’eccesso colposo subordinatamente
invocato dall’imputato e ciò perché non sussistendo la necessità di una difesa
non è opinabile che l’agente abbia colposamente ecceduto i limiti di una tale
inesistente necessità dando luogo ad una sproporzione tra il fatto posto in
essere ed il pericolo in atto. E poiché deve escludersi che il Ronza – in preda
ormai ad una evidente incontrollabile furia – fornitosi di un mezzo micidiale
quale una Beretta 7,65, abbia voluto soltanto ferire l’avversario, colpito
peraltro in pieno petto da una distanza poco superiore al bruciapelo, egli va
dichiarato colpevole”. Nei tre gradi di
giudizio furono impegnati gli avvocati: Michele
Crispo, Cristiano Dario e Ciro Maffuccini.
Fonte. Archivio di Stato di Caserta
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