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domenica 22 gennaio 2017







  


LUCA RONZA UCCISE CON DUE COLPI DI PISTOLA NICOLA GRASSIA



Il delitto accadde in località “Cinque Vie” il 3 agosto del 1954, alle 15,45
nei pressi della linea
Ferroviaria Napoli-Piedimonte d’Alife in agro di Trentola



Alla base del delitto le ingiurie della vittima nei confronti della madre dell’assassino. La vittima era armata ed aveva tentato di aggredire il suo avversario. La donna era andata a reclamare il pagamento di un barile di vino rotto da un operaio.


Trentola  -  Con rapporto del 3 agosto 1954, i carabinieri riferivano che il 28 luglio verso le ore 15,45 era stato rinvenuto in località “Cinque Vie”, nei pressi della linea ferroviaria  “Napoli-Piedimonte d’Alife”, il cadavere di tale Nicola Grassia, che era abitante nella vicina Dugenta. Il cadavere, coperto da una giacca di velluto, pietosamente messogli addosso da tale Luigi Ibello, accorso fra i primi, giaceva in una pozza di sangue fuoriuscito dalla bocca, dal naso e da due forami di proiettile da arma da fuoco; l’uno, al primo spazio intercostale sinistro e l’altro, quello di uscita, alla regione della scapola destra.  Nella tasca posteriore dei pantaloni dell’ucciso era stata rinvenuta una pistola a tamburo a sei colpi – che anche per l’assenza di tracce di esplosione – non aveva sparato pur avendo nel caricatore solo cinque cartucce. Gli investigatori precisavano che dalle immediate indagini era risultato che autore del fatto di sangue  era stato tale Luca Ronza resosi perciò irreperibile. Poco prima del fatto la madre del Ronza, Teresa Cantile, si era recata a casa del bottaio Paolo Esposito, onde sollecitarlo del rimborso già da tempo promesso, del costo di un suo barile di vino che era stato rotto dal suo operaio Giovanni Pannella. Presente alla discussione – piuttosto animata – era stato anche presente la vittima Grassia, operaio dello Esposito, il quale, intervenendo nella discussione aveva inviato l’Esposito a mandare via la Cantile esclamando: “ Paulù se fossi in te caccerei fuori questa donna”. L’Esposito non aveva mancato di rimproverare il Grassia per il suo inopportuno intervento ed aveva rassicurato del proprio pagamento della somma di lire 3100 la Cantile che era perciò subito rincasata.  Poco dopo l’esposito si era portato – onde consegnare la somma – in casa della Cantile ed aveva notato che costei stava riferendo – alla presenza di tale Paolina Mormile, quanto poco prima le era occorso, sia al marito Antonio Ronza che al figlio. Se non che mentre l’Esposito cercava di calmare la donna rappresentando la poca rilevanza dell’incidente – anche in considerazione del carattere “un po’ abbonato” del Grassia, costui era passato proprio di là in compagnia di Luigi Ibello ed era stato subito affrontato da Luca Ronza  che  gli aveva mollato anche alcuni schiaffi. 


Erano prontamente intervenuti i presenti e lo stesso genitore del Ronza che dopo aver schiaffeggiato il giovane aveva avuto cura di farlo entrare in un vano a pianterreno della propria abitazione. L’incidente pareva così concluso e le dette persone, allontanatosi il Grassia, si intrattenevano ancora nel cortile allorquando sentirono gridare da alcune donne che il Luca Ronza, scappato dalla stanza attraverso un finestrino aveva ucciso il Grassia dandosi alla fuga in campagna. Testimoni oculari dell’assurdo delitto erano stati Ermanno Pisanelli, Nicola Grassia (parente e omonimo) e Teresa Felaco,  quest’ultima, addirittura  aveva scorto lo sparatore colluttare con la vittima.  Dopo alcuni giorni il latitante si costituiva presso le carceri di Santa Maria. Sottoposto al primo interrogatorio il Ronza dava la “sua” versione dei fatti e assumeva di aver assistito, mentre si accingeva ad entrare nel proprio cortile, un uomo di ingiuriare la madre, aveva quindi scorta costei che piangeva vicino al Grassia e pertanto si era avventato contro costui ma ne era stato impedito dal proprio genitore che anzi lo aveva schiaffeggiato e costretto ad entrare in casa. Dopo pochi minuti però egli era uscito  di nuovo – senza peraltro farsi notare dalle persone che sostavano nel cortile – ma al solo scopo di attingere  informazioni  dai vicini – ed assodare quanto era accaduto fra la propria madre ed il Grassia. Se non che poco lontano aveva improvvisamente scorto – nascosto dietro un cumulo cdi immondizia – il Grassia stesso che subito gli era andato incontro afferrandolo per una spalla e pronunziando parole di sfida accompagnate dal gesto di cavar dalla tasca dei pantaloni una pistola di cui egli avevano notato l’impugnatura. Perciò egli aveva estratto la propria pistola (si noti il particolare che, due giovani all’epoca, nella triste zona dei Mazzoni erano armati e non erano i soli, peggio del “Far West”, insomma) puntandola contro il Grassia; questi nell’atto di deviare l’arma era stato raggiunto da un colpo improvvisamente esploso. Nel corso dell’istruttoria i testimoni confermavano le dichiarazioni rese in precedenza. La perizia necroscopica affidata ai periti settori dottori Pasquale Tagliacozzi e Mario Pugliese accertava che “il decesso del Grassia rimontava a 24/36 ore prima dell’autopsia; che la causa della morte era stata la cospicua ed infrenabile emorragia endocavitaria generata dalla lesione di ambedue i lobi superiori dei polmoni; che il Grassia venne attinto dea un colpo d’arma da fuoco portatile a canna corta; che la vittima doveva mostrare all’offensore il fianco sinistro e che sparato e sparatore dovevano trovarsi su uno stesso piano; che il colpo venne esploso da breve distanza quasi a bruciapelo”. 



La sentenza istruttoria che concluse per il rinvio a giudizio del Grassia per omicidio nell’approfondimento del caso mise in evidenza l’antefatto del tragico delitto. Accertarono i giudici della Sezione Istruttoria della Corte di Appello di Napoli… “che il caso volle che mentre lo Esposito cercava di calmare la Cantile, addirittura inviperita come dimostra la sua esclamazione: “ Tu non sai cosa tengo in questa pancia!” passasse dinanzi al cortile quel “pidocchioso”  del Grassia, per usare la stessa espressione della Cantile. Immediatamente e prima che il Grassia avesse potuto giustificarsi e “ragionare con calma” siccome riferisce lo Ibello, Luca Ronza gli si avventò contro schiaffeggiandolo. Il gesto del giovane apparve allo stesso suo genitore precipitoso ed esagerato tanto che il povero uomo – rimproverando anche la moglie – non esitò a schiaffeggiarlo ed a trascinarlo nel vano terraneo dell’abitazione sito nel cortile medesimo. Deve escludersi che il Ronza – in preda ormai ad una evidente incontrollabile furia – fornitosi di un mezzo micidiale, quale una Beretta 7,65, abbia voluto soltanto ferire l’avversario, colpito peraltro in pieno petto da una distanza poco superiore al bruciapelo, egli va dichiarato colpevole poiché d’altra parte la causale non può ritenersi inadeguata in considerazione del temperamento stesso chiaramente impulsivo di lui e del costume degli abitanti della zona”.  

Fonte: Archivio di Stato di Caserta







 

Con la concessione delle attenuanti della provocazione e le generiche la condanna fu ad anni 16 di reclusione. La Corte di Assise di Appello ridusse la pena ad anni 14.




La Corte di Assise  di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Giovanni Morfino; giudice a latere, Renato Mastrocinque; pubblico ministero, Gennaro Calabrese), con sentenza pronunciata il 5 marzo del 1956,  condannò Luca Ronza, di anni 25 (all’epoca dei fatti) da Trentola, accusato di omicidio volontario in danno di Nicola Grassia, con la concessione delle attenuanti della provocazione e le generiche alla pena di anni 16 di reclusione. La Corte di Assise di Appello di Napoli con sentenza del 18 aprile del 1958 ridusse la pena ad anni 14. In sede di dibattimento il Ronza mantenne la tesi difensiva già adombrata nel corso dei precedenti interrogatori. “Ritornando in bicicletta  a casa trovai mia madre piangendo – raccontò ai giudici – che era in compagnia di mio padre, e dei conoscenti Luigi Ibello, Paolo Esposito e Paolino Mormile. Mia madre mi riferì di essere stata ingiuriata poco prima da Nicola Grassia; essa mi spiegò, sempre piangendo, che il Grassia le aveva detto che se lui fosse stato al posto di Esposito l’avrebbe cacciata fuori e le avrebbe messe le mani in faccia. In questo momento sopraggiunse il Nicola Grassia ed io senza domandargli conto di quanto lui aveva detto a mia madre mi lanciai contro di lui per schiaffeggiarlo; non riuscii neppure a colpirlo perché si intromisero i presenti; anzi mio padre mi dette due/tre schiaffi. Come ho già riferito al G.I. mi incontrai inaspettatamente con il Grassia, il quale, vedendomi mi affrontò cercando anche di impugnare la pistola che teneva nella tasca posteriore dei pantaloni, dalla quale usciva il manico. Preciso che io e il Grassia  ci colluttammo per cinque/sei minuti, poi lui fece il gesto di portare la mano alla pistola. Io cacciai la mia pistola se non che il Grassia mi afferrò la mia mano armata e così partì il colpo accidentalmente. Il Grassia mi affrontò dicendomi: “Carugnò in casa tua facevi il guappo fallo anche qua”.



“La circostanza inoppugnabile – scrissero i giudici nella motivazione della loro condanna -  che il Ronza fuggì di casa armato della pistola – infilata nella cinghia dei pantaloni – nascosta sotto  la camicia e pronta per ciò all’uso immediato - rendono davvero superflua ogni discussione sulla sussistenza di uno stato di legittima difesa dedotta dall’imputato. Questo stato d’altronde non sussisterebbe neppure se il Grassia avesse – come assume l’imputato – portato la mano alla pistola giacchè aggressore rimarrebbe purtuttavia il Ronza e la eventualità sua necessità di difendersi sarebbe pur sempre derivata da una causa dipendente dalla sua volontà  come conseguenza di uno stato di pericolo volontariamente posto in essere proprio da lui. In difetto il presupposto della  legittima difesa non è ipotizzabile neppure – come è noto – l’eccesso colposo subordinatamente invocato dall’imputato e ciò perché non sussistendo la necessità di una difesa non è opinabile che l’agente abbia colposamente ecceduto i limiti di una tale inesistente necessità dando luogo ad una sproporzione tra il fatto posto in essere ed il pericolo in atto. E poiché deve escludersi che il Ronza – in preda ormai ad una evidente incontrollabile furia – fornitosi di un mezzo micidiale quale una Beretta 7,65, abbia voluto soltanto ferire l’avversario, colpito peraltro in pieno petto da una distanza poco superiore al bruciapelo, egli va dichiarato colpevole”.  Nei tre gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: Michele Crispo, Cristiano Dario e Ciro Maffuccini.

Fonte. Archivio di Stato di Caserta
  




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