Il delitto accadde nella frazione Talanico di San Felice a Cancello nel Vico Paciello il 18 agosto del 1955
UCCISE IL FRATELLO ALLE SPALLE CON TRE COLPI DI PISTOLA PER
LA CONTESA DI UNA CUGINA CHE ENTRAMBI VOLEVANO SPOSARE
Alla base del
fratricidio non solo la spartizione dell’eredità e la gestione dell’azienda
agricola. L’assassino aveva chiesto per primo la mano della cugina. Il fratello
maggiore invece la stava sposando.
Talanico
di San Felice a Cancello -
La sera del 18 agosto del 1955 i carabinieri di Arienzo avuta
notizia che in Talanico, frazione di San
Felice a Cancello, il giovane contadino Mario
Gagliardi, aveva ucciso il fratello
Domenico con alcuni colpi di
pistola, accorrevano in detta località e rinvenivano nell’abitazione terranea
dei Gagliardi, sita nel vico Paciello, adagiato su un letto il cadavere del Domenico Gagliardi che presentava
ferite di arma da fuoco al torace. Nel cortile che dà ingresso all’abitazione i
verbalizzanti notavano delle chiazze di sangue e repertavano tre bossoli per
pistola automatica Cal. 7,65 il tutto nei pressi della porta in legno della
abitazione medesima, porta che presentava tre fori prodotti dal passaggio di
pallottole dall’esterno e rinvenivano sul comò una pallottola. Dall’interrogatorio di Vincenzo Gagliardi, che abitava in un vano attiguo a quello dei
germani Mario e Domenico Gagliardi, suoi cugini, risultava che quella sera
verso le 20,30 il Mario Gagliardi incontrato per strada il fratello Domenico,
lo aveva chiamato un po’ in disparte e aveva avuto con lui un colloquio. Dai
loro discorsi si arguiva che si dovevano recare nel centro di Talanico per
chiedere un consiglio a tale Tommaso
Ferrara. Più tardi verso le 22 i fratelli avevano raggiunto il Vincenzo
Gagliardi in casa della sua fidanzata Antonietta
De Rosa ed indi con il cugino avevano fatto ritorno a casa. Lunga la strada
si era parlato del fidanzamento del teste e i due germani avevano tenuto un
contegno del tutto normale. Giunti nel cortile comune Domenico e Mario si erano
diretti – l’uno dinanzi all’altro – verso la loro abitazione. Vincenzo
Gagliardi si era diretto verso la propria casa ma non appena entrato in essa
aveva sentito degli spari e, ritornando nel cortile aveva trovato Domenico a
terra e visto Mario che fuggiva. Mario Gagliardi si costituiva il giorno
successivo ed ammetteva di aver ucciso il fratello. Precisava che quando rincasarono,
Domenico, da lui invitato a seguirlo in montagna per sorvegliare i loro bovini
che erano rimasti affidati alla madre, oppose un rifiuto e con atteggiamento
minaccioso depose sul tavolo la pistola e poi si recò nel gabinetto sito nel
cortile, attese che il fratello uscisse dal gabinetto e poi gli rinnovò
l’invito a recarsi in montagna. Domenico reiterò il rifiuto ed anzi alzò le mani come per picchiarlo per modo che
egli temendo di essere sopraffatto sparò tre colpi di pistola e si dette alla
fuga. Il fratricida raccontava, inoltre, che da qualche anno tra lui ed il
fratello Domenico non correvano buoni rapporti quantunque egli cercasse essere
remissivo onde evitare rappresaglie da parte del predetto che, benché più
giovane, era più prestante di lui. In particolare i dissensi erano originati
dal fatto che il Domenico preferiva lavorare presso terzi – incamerando per sé
gli interi suoi guadagni – anzicchè collaborare con lui (che era il maggiore
dei fratelli rimasti nella casa paterna e come tale aveva la responsabilità
dell’amministrazione dei beni familiari) nella conduzione del fondo ereditato
dal defunto genitore. Della divisione di detto fondo di era parlato proprio la
sera del 18 agosto in un convegno in casa di Tommaso Ferrara che, peraltro, non
era approdato ad una conclusione, essendosi fissato un nuovo appuntamento per
la domenica successiva. Nel corso delle indagini il Ferrara confermava di aver
ricevuto in casa sua la sera in cui avvenne l’omicidio – verso le ore 21 – i due fratelli Gagliardi “al
fine di evitare motivi di questioni” tra di essi e di addivenire alla
divisione della loro eredità paterna, e che si era rimasti di accordo di
rinviare la definizione della questione alla domenica e di incaricare della
cosa un geometra ed eventualmente un notaio. Lo stesso Ferra, Michele
Carissimo, Costantino Bernardo, Giuseppe Guadagnino, deponevano che i due
fratelli non andavano d’accordo e qualche volta si erano perfino picchiati
perché Domenico si disinteressava della coltivazione del fondo e dell’allevamento
del bestiame della famiglia a cui doveva pertanto provvedere per lo più Mario. Veniva
inoltre accertato che sei mesi prima del delitto i due fratelli erano stati
denunciati in stato di arresto per lesioni reciproche Mario anche per detenzione
e porto abusivo di pistola. Iniziatasi la formale istruzione contro il
Gagliardi, si procedeva ad autopsia sul cadavere del Domenico da parte dei
periti nominati dalla Procura nella persona dei medici sammaritani dott.
ri Emiddio
Farina e Pasquale Tagliacozzi e
accertavano che lo stesso – attinto
all’emitorace destro e all’ascellare sinistro da tre colpi di arma da fuoco a
canna corta, esplosi da breve distanza in posizione frontale – era deceduto per
imponente emorragia derivata dalla lesione dei grossi vasi dell’emotorace
destro. L’imputato riferiva al magistrato inquirenti che i rapporti con il fratello – già cattivi per i motivi
innanzi esposti ai carabinieri – divennero più tesi allorchè Domenico si era
fidanzato con una cugina, Maria Carmina
Gagliardi, che egli aveva per primo
chiesto in sposa. Circa le modalità del delitto – modificando la prima versione
dichiarò che egli temeva il fratello e quella sera pensando di trovarsi solo
con lui e che non voleva seguirlo in montagna , “come un cieco”, estrasse la pistola e gli sparò alle spalle prima
ancora che avesse avuto il tempo di girarsi. Successivamente modificò ancora
una volta la versione del delitto ( che peraltro non aveva testimoni oculari)
affermando che era stato costretto a sparare i colpi in quanto il fratello
aveva tentato di disarmarlo dopo che lui aveva impugnato l’arma del
delitto. Maria Carmina Gagliardi,
fidanzata della vittima, negava di aver ricevuto proposta di matrimonio anche
dall’imputato, in contrasto con uno dei fratelli, Giovanni Gagliardi il quale
confermava tale proposta. Dalle deposizioni del Giovanni e dalla sorelle
risultava, però, che in sostanza – causa dell’attrito esistente tra l’imputato
e la vittima – era l’abitudine di quest’ultima di rifiutarsi di cooperare nella
sorveglianza degli animali in montagna. Veniva allegata agli atti del processo
la sentenza emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 14 gennaio del
1956 nel giudizio per lesioni in seguito alla quale il Mario Gagliardi era
stato condannato – per lesioni e per detenzione di armi. Infine con sentenza
del 29 maggio del 1957 il Giudice Istruttore ordinava il rinvio dell’imputato
al giudizio della Corte di Assise per rispondere di omicidio volontario in
persona del fratello.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
La pubblica accusa chiese 28 anni di reclusione. La condanna fu a 23 ridotti a 19 in sede di appello.
In apertura di dibattimento la
difesa chiedeva che il Mario Gagliardi
fosse sottoposto a perizia psichiatrica in quanto lo stesso da certificato del
medico dottor Ludovico Marone risultava
essere stato affetto alla età di anni 10 da accessi febbrili e disturbi nervosi
da cui guarì residuando nevrastenia ed inoltre alcuni suoi familiari sarebbero
stati riconosciuti infermi di mente. La Corte di Assise di Santa Maria Capua
Vetere (Presidente, Eduardo Cilento; giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero, Gennaro Calabrese), non ravvisando gli estremi richiesti dalla
legge per disporre la richiesta perizia rigettava l’istanza. L’imputato al
quale veniva contestata la recidiva infraquinquennale modificava ancora una
volta la propria versione sostenendo che – dopo che erano entrati in casa- Domenico,
dapprima gli disse che non avrebbe dovuto parlare della divisione del
terreno e poi si rifiutò di seguirlo sui monti ed afferratogli il petto lo
percosse con pugni e schiaffi a qual punto egli espresse la pistola e sparò. A
chiusura dell’istruttoria dibattimentale il pubblico ministero dichiarava
affermarsi la responsabilità dell’imputato chiedendo una condanna ad anni 28 di
reclusione. Gli avvocati difensori chiesero l’assoluzione dell’imputato per
aver agito in stato di legittima difesa o ritenersi l’ipotesi dell’eccesso
colposo, e in subordine concedersi le attenuanti generiche, dei motivi di
particolare valore morale e sociale e della provocazione. La sentenza emessa il 30 ottobre del 1957, condannava il 27enne Mario Gagliardi ad anni 23 di
reclusione. In appello la pena veniva ridotta per il reato di fratricidio per aver ucciso il fratello Domenico ad anni
19. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Alfonso Raffone e Carlo Cipullo.
Fonte: Archivio di Stato di
Caserta
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