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lunedì 13 marzo 2017



TRA POROSITA’ E SORVEGLIANZA DINAMICA IL NUOVO CARCERE A TRATTAMENTO AVANZATO DI NOLA


“L’hanno messo dentro”. In un modo brusco, questo è quanto si dice per una persona che viene arrestata. La descrizione peggiora quando si aggiunge: “hanno buttato la chiave”. L’apertura un po’ ruvida che ho fatto è la conseguenza della presa visione del bando per la realizzazione del nuovo penitenziario a Nola, un carcere a “custodia attenuata” da 1.200 posti, già inserito nell’elenco 2013 delle nuove carceri da costruire e definito nella relazione come istituto a “trattamento avanzato”: terminologia di sapore vagamente ermetico che nella relazione al bando non rimanda ad altre più chiare definizioni e finalità.
Rilevo subito una profonda discontinuità tra il concorso di Nola e quanto stabilito nelle sue linee generali intorno a quello che dovrebbe essere il “nuovo modello detentivo” pensato dai tecnici del Tavolo n. 1 degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale - Spazio della pena: architettura e carcere.
Scaturito dall’intenso lavoro degli esperti coordinati dall’architetto Luca Zevi, direttore nel 2012 del padiglione italiano di architettura alla Biennale di Venezia, il nuovo istituto ripete l’adozione di concetti, anche se non del tutto innovativi in quanto ampiamente trattati nella bibliografia specializzata, sui quali il carcere di Nola si sarebbe dovuto muovere. In realtà la prima macroscopica e grave contraddizione si rileva nell’altissimo numero dei detenuti previsti nel bando. Per una buona gestione di un penitenziario, è ormai largamente condivisa la scelta di contenere il numero dei reclusi al massimo all’interno di quattro/cinquecento unità. Con la scelta di Nola che prevede ben 1200 persone in regime di “trattamento avanzato” si supera in modo abnorme la quota suggerita dagli studi più recenti. Il sito previsto, vicinissimo all’interporto e al “Vulcano buono” (noto e affollato centro commerciale) tra Cicciano e Nola, è in piena campagna, decentrato rispetto agli insediamenti residenziali, tra strade vicinali e tratturi. La marginalizzazione dell’intervento rispetto ai centri abitati aggiunge altra contraddizione a fronte delle conclusioni del Tavolo n. 1 che richiedono, per vari motivi non solo teorici, un contatto più diretto tra carcere e città. Le linee guida degli Stati Generali ripetono il concetto della necessaria reintegrazione dei penitenziari con la realtà urbana per favorire quanto più possibile la cosiddetta “porosità” (termine innovativo nel linguaggio giudiziario adottato nella relazione finale) tra ambiente penitenziario e habitat urbanizzato.

 La “spugnosa” nozione prescelta, che a prima vista sembrerebbe un tipico concetto da sociologismo architettonico tardo sessantottesco, se sostenuta da adeguate strutture di supporto culturali, ambientali e soprattutto progettuali, dovrebbe garantire un’effettiva interazione tra le diverse funzioni della città. Prime tra tutti quelle logistico-sanitarie, ma non solo. Cose, queste, che dal progetto così come descritto e impostato nell’inquadramento territoriale e organizzativo all’interno del complesso edilizio non appaiono assolutamente risolte. Tantomeno indicate nella loro futura possibile soluzione di eventuale richiesta di adattamento a nuove esigenze. Tra i risultati del Tavolo 1 e ciò che è previsto nel bando di gara, un altro dei più grossi equivoci emerge in merito al cosiddetto “nuovo modello detentivo” che muoverebbe i suoi primi passi in quello della “sorveglianza dinamica”. Scopo di questa ulteriore invenzione linguistica nasce in effetti a seguito della censura fatta dalla CEDU all’Italia riguardante la sentenza Torreggiani, ampiamente commentata sul mio libro “Non solo carcere” (Mursia gennaio 2016): “Tutto nasce dalla manifesta violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, ovvero la proibizione di “trattamenti inumani e degradanti” nei confronti di coloro che sono detenuti in condizioni inaccettabili all’interno di celle di dimensioni insufficienti e con servizi non idonei. Nel suo giudizio generale la Corte veniva considerando lo spazio minimo vitale per un detenuto non soltanto in base ai metri quadrati a disposizione ma, molto correttamente, entrava nel merito anche delle più generali condizioni di vivibilità, le quali determinavano situazioni ambientali di inaccettabile degrado per i detenuti”. Il nostro Paese, non privo di fantasia linguistica, non potendo costruire dall’oggi al domani nuove carceri, per rispondere in via immediata alle richieste della Corte ed evitare ulteriori sanzioni, si è inventato di sana pianta il modello della “sorveglianza dinamica”. Questa nuova procedura di reclusione, per far fronte al conteggio dei metri quadrati mancanti, mette nel conteggio totale delle superfici a disposizione del detenuto “oltre” ai metri quadrati della cella (nel linguaggio del politicamente corretto oggi chiamata stanza o camera di pernottamento), anche le superfici destinate ai passaggi, ai corridoi, alle camere di servizio e accessori vari, forse anche le scale e i ripostigli. Cosicché lo schema detentivo oggi adottato nelle carceri italiane, per il “miglioramento” della
qualità della vita, vede i reclusi “sfrattati” al mattino dalle celle, costretti a mescolarsi durante il giorno con
diverse specificità di condanna, per il tempo che li separa da un pernottamento e l’altro. Tale espediente, tipico della maldestra fantasia del burocrate di turno, insieme ad altri danni crea anche la situazione della
inclusione e del diretto contatto di condannati minacciosi con altri detenuti che nulla hanno di pericoloso nella loro carriera. Sappiamo dalle cronache giudiziarie, che non sono pochi i reclusi che si rifiutano di uscire “fuori” dalla cella per non imbattersi con criminali incalliti e male intenzionati che agiscono
aggressivamente su di loro imponendo le regole criminali dell’ambiente ristretto. Di ciò ne soffre ovviamente anche il personale della Polizia penitenziaria. Questa è la realtà della vigilanza dinamica, quella
cioè che rimescola in un unico spazio reclusi di ogni tipo violando le minime regole di protezione e
salvaguardia nei confronti della dominanza del più forte nei confronti del più debole. La Polizia
penitenziaria nel suo percorso di vigilanza, per l’appunto “dinamica”, si affaccia e osserva da lontano, ben al
di là delle sbarre, questo serraglio umano costretto a passeggiare su e giù per ore parlando di criminalità,
subendo criminalità, specializzandosi in ulteriore criminalità, avendo come obiettivo ultimo la criminalità.
Lo schema progettuale, definito nel bando immutabile modello di riferimento anche per coloro che
vinceranno la gara (…), non offre alcuna flessibilità di futuri adattamenti funzionali. Propone schemi
costruttivi rigidi nella prefabbricazione e, sotto il profilo distributivo, disegna schemi tradizionali ed
obsoleti, non apportando alcun elemento innovativo. Corridoi ciechi si alternano a ossessive teorie di celle
ove l’internità e l’esclusione sprofonda nell’interno del sistema generale, ben chiuso a sua volta dentro una
serie di barriere edilizie mascherate da un fittizio ambiente “urbano”. La lettura di questo enorme e
sproporzionato carcere sarà letto dall’esterno come una lunga ed interminabile fila di un unico edificio con
blocchi allineati tra loro per centinaia di metri senza soluzione di continuità. Una lunga teoria di muri forse
di diverse altezze in mezzo ad una campagna pianeggiante, con accanto il grosso centro commerciale del
Vulcano buono. Se questo doveva essere il primo modello di carcere scaturito dalla lunga riflessione di tanti
esperti, come per il resto dell’amministrazione della giustizia siamo molto lontani da poter essere fieri del
campione proposto.


Arch. D. Alessandro De Rossi
Presidente Commissione LIDU onlus
Diritti della persona privata della libertà

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