Dal
1976 ha portato le istituzioni nelle case, e i suoi microfoni nelle strade e
nelle piazze, raccontando quattro decenni di vita italiana. Ora il governo può
farla chiudere
Dal 1976 ha portato le istituzioni nelle case dei cittadini,
e i suoi microfoni nelle strade e nelle piazze, raccontando quattro decenni di
vita italiana. Molto più che una semplice radio di partito, quella Radicale è
una radio che si occupa di politica in tutte le sue forme, dai dibattimenti
parlamentari alla più cruda vox populi, passando per l’immagazzinamento di
tonnellate di materiale documentario che racconterà il nostro paese alle
generazioni future. Presto, con l’approvazione dell’ultima manovra di bilancio
che dimezza le risorse disponibili per il servizio, potrebbe chiudere.
Radio Radicale, pur essendo un soggetto economico che sta
sul mercato, ha vinto una gara su una convenzione per effettuare un servizio
pubblico, che consiste nel trasmettere tutti i giorni le sedute del Parlamento.
Il costo di questo servizio è di 10 milioni all’anno, a condizione che non
trasmetta pubblicità. Dal 2007 il contratto viene rinnovato di anno in anno, e
la cosa complica gli investimenti e le strategie di crescita della radio.
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Dal 2019 la concessione potrebbe scendere a 5 milioni e
questo sta costringendo l’emittente a ripensare il proprio business, o a
considerare di chiudere bottega.
Radio Radicale nasce quarantadue anni fa, nel 1976, per
iniziativa di un gruppo di deputati dell’omonimo partito nel quartiere
Gianicolense di Roma, nel periodo di pieno boom delle radio libere in Italia.
Fu subito caratterizzata da un’atmosfera libertaria e dedicata
all’improvvisazione. Rifiutò, però, fin dal primo momento, l’etichetta di
controinformazione, che spesso veniva associata a canali radio di estrema
sinistra o specializzati in un certo tipo di complottismo: la radio benedetta
da Marco Pannella voleva invece essere un servizio pubblico a tutti gli
effetti. Venne messo su fin da subito un grande archivio audiovisivo: più di
250mila registrazioni, tra cui oltre 19mila sedute dal parlamento, 6700
processi giudiziari, 19300 interviste e 4400 convegni.
Nel 1986 si verificò la primi crisi societaria: Radio
Radicale rischiava di chiudere, allora i conduttori lasciarono liberi i
centralini e registrarono (senza filtri, per la prima volta) i commenti e le
reazioni dei cittadini comuni. Nacque così l’incredibile esperienza di “Radio
parolaccia”, un flusso di coscienza di ingiurie, bestemmie e mattane di ogni
ordine e grado; un appuntamento che venne ripetuto per un altro paio d’anni e
causò più di una grana legale al partito. Ma anche, al tempo stesso, una
vetrina profetica sull’Italia che sarebbe venuta decenni dopo, e un
anticipazione dei forum gentisti che sarebbero nati soltanto due decenni più
tardi.
Qualcuno si è chiesto come mai lo stato debba pagare una una
radio privata, di proprietà ufficialmente della Lista Pannella del Partito
radicale, quando potrebbe esserci lo stato stesso a sopperire la mancanza. Ma
la concorrenza da parte della Rai finora ha fallito miseramente: nel 1998 venne
lanciata Rai GR Parlamento, in realtà in violazione dei limiti di legge sul
numero di canali radio dell’azienda pubblica. Nessuno conosce tuttora i costi
dell’operazione, ma gli spettatori scarseggiano e la programmazione è
miserevole.
Radio radicale copre invece ancora oggi non solo la politica
ma anche i processi – dalla mafia alla grande cronaca al terrorismo – segue i
dibattiti interni alle istituzioni, i congressi di partito, i dibattiti
sindacali, i movimenti. Nel 1998 fu la prima radio italiana ad avere un suo
sito internet, gestito da Rino Spampanato, che realizzò il primo sistema di
webcast nostrano: gli utenti potevano seguire in diretta le sedute di
Montecitorio, del Parlamento europeo o della Corte dei conti. L’appuntamento
fisso nel palinsesto più famoso è forse la rassegna dei quotidiani Stampa e
Regime, divenuta col tempo fonte autorevole di informazione anche per le altre
radio e giornali.
Radio Radicale divenne così l’unica radio a percepire un
finanziamento, stabilito con la legge 230/1990 con cui lo stato finanzia le
imprese radiofoniche private che trasmettono “quotidianamente propri programmi
informativi su avvenimenti politici, religiosi, economici, sociali, sindacali o
letterari per non meno di nove ore comprese tra le ore sette e le ore venti“. È
questo finanziamento che verrebbe abrogato, in base all’articolo 471 del
maxiemendamento alla manovra gialloverde.
“Mai avuta tanta libertà di essere fuori linea, perché linea
non c’è“, scrive David Carretta, corrispondente per l’Europa della radio e collaboratore
de Il Foglio. “C’è qualcuno che può offrire a un pubblico così largo le sedute
del Parlamento a un prezzo così basso? Non mamma Rai che ritiene
commercialmente non conveniente occupare un grande canale per il Parlamento“.
I critici della manovra avanzano il sospetto che potrebbe
trattarsi di una decisione tutta politica, per silenziare uno strumento di
monitoraggio della politica italiana non inquadrabile facilmente negli
schieramenti principali, in un contesto di tagli all’editoria senza precedenti.
Quale che sia la verità, dopo quattro decenni la vicenda di Radio Radicale
rischia di volgere al termine.
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