La pandemia e i decreti di Conte: se non
basta obbedire. La nostra responsabilità di fronte al virus: il difetto è la
confusione tra due concetti, uno giuridico e l'altro etico
Bisogna
leggerli per rendersi conto di qualcosa di meraviglioso e, al tempo stesso, di
patologico nel rapporto tra governo e cittadini. Parlo dei Dpcm - i decreti del
presidente del Consiglio dei ministri, acronimo del nostro tempo, misterioso e
minaccioso - sul contenimento della diffusione dell'infezione virale. Sono
testi meravigliosi nel senso etimologico della parola: stupefacenti. Mi
riferisco all'idea di base: che le abitudini, le attività e le esigenze
materiali e spirituali delle persone siano materia inerte, modellabile come
cera fin nei più piccoli dettagli.
Modellabile
attraverso atti d'autorità che aprono e chiudono, concedono e vietano,
impongono e consigliano, disapprovano, esortano e raccomandano. L'essere umano
non come persona naturalis capace di autodeterminazione, ma come persona
legalis forgiata dalla legge: l'ideale del giuridicismo estremo.
Nelle
70 pagine dell'ultimo Dpcm con i suoi allegati c'è il disciplinamento di buona
parte delle nostre giornate, in casa propria, per strada, nei luoghi di lavoro
e di ricreazione, nelle scuole, nei negozi, nei ristoranti e nelle mense, nei
parchi pubblici e nel modo di sedere e di salire e scendere dai mezzi di
trasporto, eccetera. Leggiamo di divieti di spostamento, di obblighi di
distanziamento, di modalità di comportamento super-dettagliate perfino sul modo
di starnutire, soffiarsi il naso, collocare le mascherine tra il mento e il
naso medesimo.
Le
situazioni personali e personalissime, come la deambulazione e l'esercizio
fisico, le occasioni di socialità come nei ritrovi amicali nelle case, nei
servizi funebri, nelle cerimonie religiose e nei raduni in luoghi pubblici o
aperti al pubblico sono oggetto di minutissima descrizione e regolamentazione.
Le attività industriali, commerciali e professionali sono distinte in categorie
dettagliatissime, dagli estetisti e parrucchieri ai lavoratori negli
iper-mercati e nelle fabbriche.
Leggiamo
ammirati questa enciclopedia. Gli storici che, nel quarto millennio, si
chiederanno come si viveva nel nostro inizio del terzo, troveranno in questo
documento una summa che esaudirà e quasi esaurirà le loro curiosità.
Apprenderanno che c'erano passeggiate solitarie e in coppia, cinematografi,
teatri, pub, scuole di ballo, sale giochi scommesse e bingo, discoteche e
locali assimilati (?).
L'insidia
del virus epidemico è invasiva al massimo grado e, dunque, la risposta non può
essere grossolana e generica. Questo è ovvio. Tanti, anzi tantissimi, sono i
momenti e i luoghi dell'esistenza che offrono occasioni all'infezione. Giusto
che si faccia attenzione a tutte le pieghe in cui il contagio può insinuarsi e
riprodursi.
Solo
certi giuristi credono, però, che le abitudini di vita si possano cambiare a
colpi di decreti: le abitudini si cambiano con altre abitudini, non soltanto
con le leggi. In qualunque società libera, le leggi senza le abitudini
soccombono o, comunque, durano poco. Prima o poi, la loro efficacia, senza la
collaborazione dei cittadini, perde mordente e rischia di finire come le grida
impotenti del tempo di un'altra epidemia, quattrocento anni fa. Già ora si
riscontra, nei discorsi e nelle condotte del tempo del coronavirus, un
distacco, un'indifferenza e un'insofferenza crescenti. All'allentamento del
timore o anche all'abitudine al pericolo corrisponde l'allentamento dei
comportamenti.
C'è
perfino un inizio di teorizzazione in nome della libertà: che m'importa della
salute e addirittura della vita se mi si priva della libertà? Nobilissimo è
l'argomento. Ignora però, e questo è molto meno nobile, il piccolo particolare
che nelle infezioni epidemiche in gioco non c'è solo la propria salute, la
propria vita, la propria libertà, ma anche quella degli altri. È la tipica
situazione "olista" in cui bene e male del singolo e di tutti si
convertono l'uno nell'altro. L'argomento della libertà, come dotazione
individuale, non vale. È un prezzo che la libertà individuale paga alla
"globalizzazione", la globalizzazione dei rischi.
Non
c'è oggi una questione di "deriva autoritaria" o di "corsa ai
pieni poteri", secondo categorie ricevute dal passato e usate per
interpretare il momento presente. Almeno così mi pare. Anzi, mi paiono
eccessivi e, talora, anche ridicoli gli alti lai sulla democrazia sospesa,
sulla Costituzione violata, sui proclami al Paese di stampo peronista del
presidente del Consiglio, eccetera. Mi chiedo quanto ci sia di esagerato e di
strumentale in questi "al lupo, al lupo" e quanta incomprensione
della natura del problema che abbiamo di fronte a noi.
La
critica, piuttosto, mi pare debba essere indirizzata altrove: in quella pretesa
di trasformarci in persone modellate giuridicamente, di cui si diceva
all'inizio, come se la virtù del buon cittadino sia di essere semplicemente un
"osservante" che s'inchina a un legislatore onnipossente. In una
società libera e di fronte a problemi dove il bene dei singoli e il bene di
tutti si implicano strettamente, la legge incontra limiti di efficacia se non
può contare sulla partecipazione responsabile di ciascuno e di tutti. E questa
è una questione etica.
Orbene,
i Dpcm da cui siamo partiti mescolano vere e proprie prescrizioni giuridiche,
con annessa comminazione di sanzioni, a consigli ed esortazioni che,
evidentemente, di giuridico hanno poco o nulla ma riguardano l'assunzione di
condotte autonome e responsabili. Bene sarebbe distinguere: una cosa è
l'ubbidienza, altra cosa è la responsabilità. Il difetto è la confusione. La
prima è cosa giuridica, la seconda è cosa etica. I mezzi per promuovere
l'ubbidienza non sono quelli per promuovere la responsabilità. Anche
quest'ultima implica doveri, ma sono doveri autonomi che ciascuno impone a se
stesso in nome della libertà propria e degli altri, in nome cioè della
solidarietà.
Mescolare
ubbidienza e responsabilità è cosa contraria alla natura dell'una e dell'altra,
come mescolare soggezione e adesione, vincolo e libertà. Chiamare
all'ubbidienza e sollecitare la responsabilità sono cose profondamente diverse.
A ciascuno il suo: al governo le prescrizioni giuridiche (vietare, consentire e
imporre), alla società nelle sue tante articolazioni, la promozione dell'etica
della responsabilità.
Fonte:
di GUSTAVO ZAGREBELSKY/ La Repubblica
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