Di Matteo
accusa Bonafede di concorso esterno in associazione mafiosa
Ti
sei fatto ricattare dalla mafia! E tu parli per sensazioni e travisi la realtà!
Ha il sapore della faida il corpo a corpo che domenica sera poco prima di
mezzanotte ha visto protagonisti non due ragazzotti sul ring di una palestra di
periferia, ma un consigliere del Csm e un ministro della repubblica. Nino Di
Matteo e Alfonso Bonafede. Se non proprio mafioso, quanto meno imputabile di
concorso esterno.
È
questa l'immagine che Nino Di Matteo dà del ministro di giustizia Alfonso
Bonafede. Lo fa nel corso di una puntata-gogna di una trasmissione che non sarà
l'Arena, come pretende il titolo, invece pare del tutto simile al luogo dove
venivano perseguitati i cristiani. Con l'esibizione dei corpi, anche. La
vittima predestinata questa volta è proprio il guardasigilli, non invitato,
mentre il conduttore, con il contorno consenziente di personaggi come Luigi de
Magistris e Catello Maresca, una volta ottenute, con la trasmissione precedente,
la dimissioni del capo del Dap Basentini, azzanna alla gola una povera
funzionaria, rea di aver inviato una mail in ritardo. Anche lei deve essere
licenziata. Si canta e si suona tra persone che la pensano allo stesso modo.
Ma
il boccone è poco consistente, quindi si torna a fare le pulci a tutta quanta
l'organizzazione delle carceri italiane, al vertice delle quali finalmente sono
arrivati due magistrati cosiddetti, con il solito strafalcione
incostituzionale, "antimafia".
Si
può stare tranquilli per il futuro, si dice, ma intanto la frittata è fatta, i
mafiosi passeggiano giulivi nei parchi delle loro città perché nessuno ha
provveduto, come incautamente ricorda l'ex ministro Martelli, magari con una
"norma interpretativa" (cioè abrogativa) delle leggi esistenti, a
riacciuffarli tutti. Cioè a dire, sia il ministro della giustizia che l'ex capo
del Dap sono stati due incapaci, dovevano violare la legge e lasciar morire in
carcere qualche vecchio moribondo pur di mostrare i muscoli.
Ah,
se ci fosse stato a dirigere le carceri Di Matteo, sospira Massimo Gilletti. Lo
evoca, ed eccolo. Mancato ministro, mancato capo del Dap, cacciato
dall'Antimafia, entrato per il rotto della cuffia dopo dimissioni di altri al
Csm con il sostegno del suo amico Davigo, dovrebbe stare un po' caché, come
dicono i francesi. Invece no, alza il telefono quasi fosse stato in attesa
della parola d'ordine, ed entra a cavallo nella trasmissione. Lancia subito
sospetti nei confronti dell'autonomia del ministro Bonafede, anche lui sottoposto,
lascia capire, al ricatto della mafia. Ma è proprio un pallino, il suo. Portare
il processo "trattativa" ovunque. Chiunque rappresenti lo Stato,
tranne lui, è condizionato dai mammasantissima.
Certo,
va detto che Alfonso Bonafede gli ha rubato il posto, non dimentichiamolo. Era
Di Matteo che avrebbe dovuto diventare ministro di giustizia nel 2018. Lui era
pronto e si è visto scavalcato da uno qualunque. Vendetta, tremenda vendetta. È
giunto il momento di fargliela pagare. Anche perché, sempre nel 2018, questo
modesto ministro riconfermato si è permesso di proporgli la presidenza del Dap
o in alternativa il prestigioso ruolo che fu di Falcone come Direttore generale
degli affari penali, e poi gli ha soffiato la prima poltrona (preferendogli un
Basentini qualunque) e gli ha riservato solo la seconda. Perché? Perché i
capimafia nelle carceri avevano protestato: se arriva al Dap Di Matteo, quello
butta la chiave, dicevano. Il ministro ci ha ripensato, dice il magistrato.
Poi, allusivo: o qualcuno lo ha indotto a ripensarci.
Ci
risiamo. Dopo aver insultato i giudici di sorveglianza quasi fossero
fiancheggiatori della mafia solo perché avevano applicato alcuni differimenti
di pena, ora è la volta del ministro. Colpito e affondato. In studio si
comportano tutti (con l'eccezione dell'ex jena Giarrusso che non sa più come
difendere il suo ministro) come ragazze coccodè intorno al loro mito e alla sua
ricostruzione dei fatti. Fedele, onesta e leale, la definisce il suo ex collega
de Magistris. Martelli gli domanda come mai lui non abbia chiesto spiegazioni
sul dietrofront di Bonafede. Per orgoglio, sussurra con modestia il magistrato.
Tutti annuiscono compunti.
Si
potrebbe chiudere il sipario con il funerale del ministro e la beatificazione
dell'ex Pm, tanto che viene accolta con fastidio, mentre è ancora aperto
l'audio di Di Matteo, la chiamata di Bonafede, che è "esterrefatto" e
quasi piange al telefono, nel ricordare quanto tasso di antimafia e di
forcaiolismo lui abbia nel sangue. Dà inutilmente la sua versione dei fatti e
viene trattato come la cugina impresentabile che viene nascosta quando arrivano
gli ospiti importanti. Faccia presto, si sbrighi che abbiamo cose più
importanti, gli fanno capire. Fa tenerezza, anche perché nessuno ricorda che un
ministro nomina chi ritiene all'interno del suo dicastero. E non deve certo
render conto al partito dei professionisti dell'antimafia.
Ma
il guardasigilli è ormai diventato un pungi-ball su cui chiunque ritiene di
potersi esercitare. Tutti i partiti dell'opposizione ne chiedono le dimissioni
ignorando chi detiene oggi il vero potere, e il Pd che non lo sa difendere,
tranne l'ex ministro Orlando che ritiene sarebbero scandalose le dimissioni a
causa dell'opinione di un magistrato.
Persino
il Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, forse vedendolo
debole, gli rifila una lezioncina sulla divisione dei poteri, ricordandogli di
agire su delega dell'autorità giudiziaria e non del ministero. Intanto per ora
la vicenda finirà con una seduta parlamentare in cui ci sarà una gara di forche
alte verso il cielo da parte di tutti, speriamo con qualche singola eccezione.
Chi salverà il soldato Bonafede? Pier Camillo Davigo, se lo vorrà. È l'unico
più potente di Di Matteo. Ieri mattina era dato sul treno della contro-immigrazione
Milano Roma, nel primo giorno della fase due anti-covid. Chissà se è andato a
consolare il suo allievo.
Fonte:
di Tiziana Maiolo/ Il Riformista, 6 maggio 2020
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