ESTREMISMO DELL’ANTIMAFIA E FUNZIONE DI
MAGISTRATO.
“Quale che fosse la più vera
motivazione è risultato chiaro dalla
telefonata fatta a “Non è l’Arena” che Di Matteo ci teneva davvero, nel 2018, a
essere nominato capo del DAP dall’amico ministro della giustizia.
“…l’atteggiamento mentale di Di Matteo,un
modello che non esito a definire estremistico in senso oltranzista; e ciò sino
al punto di sollevare seri problemi di compatibilità con la stessa funzione di
magistrato…”.
L’estremismo
dell’antimafia e la funzione di magistrato. Alcune considerazioni a proposito
del recente scontro tra il ministro “spazzacorrotti” e il magistrato-simbolo
della lotta alla mafia dura e pura.
1.
La recente sceneggiata con protagonisti il ministro Bonafede e il magistrato Di
Matteo, nell’ambito della trasmissione “Non è l’Arena” su La7, conferma
connessioni per non pochi versi inquietanti. Connessioni cui ci siamo da tempo
assuefatti, sino al punto di percepirle ormai come pressoché normali. Ma così
in realtà non dovrebbe essere. Com’è intuibile, alludo al persistere di
liaisons dangereuses tra settori del mondo politico, giornalisti di grido e
magistrati di punta (specie del pubblico ministero) cementate da una comune
vocazione giustizialista: ne costituisce, negli ultimi anni, esemplificazione
emblematica la cordata che ricomprende, sotto la cornice culturale (si fa per
dire) del fanatismo punitivista grillino, personaggi quali appunto Bonafede, Di
Matteo, Travaglio e altri compagni di giro.
Ma
come emerge dal contrasto esploso domenica sera, il rapporto di contiguità o
collateralismo politico tra il guardasigilli e il magistrato-simbolo
dell’antimafia non ha avuto alla base soltanto motivazioni per così dire
culturali o ideologiche. Come spesso avviene nell’ambito di una comune
militanza, alle ragioni nobili si aggiungono presto o tardi ambizioni di potere
e di carriera, che peraltro possono pur sempre ammantarsi di giustificazioni
ideali. Quale che fosse la più vera motivazione (ideale o di carriera e potere,
o tutte e tre le cose), è risultato chiaro dalla telefonata fatta a “Non è
l’Arena” che Di Matteo ci teneva davvero, nel 2018, a essere nominato capo del
DAP dall’amico ministro della giustizia. E l’avere lo stesso Di Matteo
maliziosamente adombrato il sospetto che Bonafede abbia potuto infine
rinunciare a nominarlo a causa dell’avversione verso quella preannunciata
nomina manifestata da alcuni boss al 41 bis intercettati in carcere, può anche
essere interpretato come una vendetta postuma originata da una ambizione
frustrata.
2
La
questione oggi più rilevante dell’intera vicenda non è però, a mio avviso, se
Bonafede abbia ceduto per pavidità di fronte alle reazioni allarmate
provenienti dalle celle dei mafiosi incarcerati: la scelta rinunciataria del
ministro potrebbe essere stata frutto di una valutazione prudenziale o di
opportunità, che sarebbe in ogni caso cosa diversa da un vile cedimento alle
pressioni mafiose. E c’è un profilo tutt’altro che secondario, che finora è
stato del tutto trascurato: l’esperienza acquisita da pubblico ministero nelle
indagini antimafia conferisce automaticamente la competenza a gestire un
universo particolarmente problematico e complesso come quello delle prigioni? E
poi, è razionale e giustificato elevare un antimafia concepita in maniera dura
e pura, con il suo conseguente rigore iper-repressivo, a principio-guida della
gestione dell’intera popolazione detenuta, costituita al suo interno da
variegate tipologie di autori di reati che poco hanno in comune con i
delinquenti mafiosi?
Su
interrogativi come questi bisognerebbe riflettere, senza lasciarci invischiare
e irretire soltanto dalle superficiali e strumentali polemiche subito scoppiate
in coda alla trasmissione di Giletti.
2.
Venendo ora al punto che considero più importante, esplicito che questo a mio
avviso riguarda l’atteggiamento mentale di Di Matteo, beninteso non come
persona in carne ed ossa, ma come prototipo anche simbolico di un modello di
magistrato che è impersonato anche da altri pubblici ministeri da
combattimento: un modello che non esito a definire estremistico in senso
oltranzista; e ciò sino al punto di sollevare seri problemi di compatibilità
con la stessa funzione di magistrato. Non solo in termini di correttezza
istituzionale e deontologica, come è stato già rilevato ad esempio dall’ex
procuratore di Torino Armando Spataro, il quale in un’intervista ha dichiarato
che non è accettabile che un pubblico ministero azzardi pubblicamente sospetti
in mancanza di prove, e che l’essere in aggiunta membro del Csm comporterebbe
maggior rispetto nei confronti di un ministro della giustizia (cfr. La Stampa
del 5 maggio 2020). La mia critica è più di fondo e a più ampio spettro, e ha a
che fare proprio con la visione estremizzante dell’azione giudiziaria antimafia
tipica di un magistrato à la Di Matteo.
Per
riassumere qui i tratti caratteristici dell’estremismo, mi avvarrò di un saggio
del filosofo analitico Robert Nozick (contenuto nel volume Puzzle socratici,
Raffaello Cortina, 1999), che più volte mi è stato di aiuto nel diagnosticare
le persone affette da questa peculiare tendenza. Precisamente, Nozick giunge ad
indicare otto caratteristiche sintomatiche, ma con l’avvertenza che può bastare
la presenza di un certo numero di tali caratteristiche. Accennando a quelle
anche a mio giudizio più importanti, comincerei a menzionare la tendenza a
rivendicare il proprio punto di vista come una verità oggettiva e
inoppugnabile. In coerenza con questa premessa, l’estremista percepisce chi non
condivide la sua posizione come un nemico da combattere, un avversario
spregevole che sposa interessi ignobili ed è animato da intenzioni malevole; da
ciò altresì un complesso cospiratorio, che induce a sospettare trame oscure e
macchinazioni
orchestrate
dagli appartenenti ai fronti da combattere. Ancora, l’indisponibilità
dell’estremista ad accettare soluzioni di compromesso, essendo egli un
assolutista che adotta la logica del tutto o niente, ragion per cui “chi non è
con me, è contro di me”. Ulteriore, e connesso, tratto caratteristico è la
propensione a collocarsi in ogni caso al punto estremo dell’ideologia o dello
schieramento (politico, professionale, ecc.) di appartenenza: per cui un
estremista tenderà quasi sempre ad apparire ancora più estremista dei compagni
o dei rivali interni alla medesima militanza.
A
questo punto, è arrischiato identificare in un magistrato del modello di Di
Matteo buona parte dei tratti caratteristici della personalità estremista?
Verosimilmente no, se si tengono ben presenti sia il dogmatismo accusatorio e
il fanatismo repressivo che connotano l’operato giudiziario di questo tipo di
pubblico ministero, sia la radicalità della contrapposizione critica
delegittimatrice che ne caratterizza le esternazioni pubbliche contro quanti
(politici, opinionisti, studiosi e perfino colleghi magistrati) non condividono
lo stesso estremismo antimafioso.
3.
Ora, vediamo perché un atteggiamento mentale e professionale estremista appare
poco compatibile – quantomeno in linea teorica o di principio – con la funzione
odierna di magistrato. Anche se il discorso meriterebbe bena altro
approfondimento, mi limito ad alcune notazioni di massima.
Prendo
le mosse dalla premessa, abbastanza scontata, secondo la quale il diritto in
generale, e più nello specifico la giustizia penale implicano complessi
bilanciamenti tra valori, diritti ed esigenze di tutela spesso in conflitto:
per cui continue operazioni di ragionevole bilanciamento si rendono necessarie
tanto sul piano della politica legislativa, quanto su quello
dell’interpretazione e applicazione delle norme. Che il bilanciamento sia
diventato l’“anima” del diritto contemporaneo, sempre più pervasivamente
costituzionalizzato in una prospettiva anche sovranazionale, è una verità
banale, ormai acquisita anche dagli studenti di giurisprudenza. Solo che questa
verità quasi banale non solo di fatto viene disconosciuta dai settori politici
più intrisi di populismo punitivista: essa stenta a farsi strada – il che è
ancora più grave – nella magistratura d’accusa, soprattutto in quella più
impegnata nel contrasto alla criminalità organizzata. Ciò non è il mero
riflesso di una fisiologica diversità di approccio corrispondente al differente
ruolo di giudice o di accusatore. Piuttosto, si manifesta una divergenza di
vedute che riguarda addirittura il modo di concepire gli stessi principi
basilari dell’ordinamento penale. Al di là delle recenti e aggressive critiche
lanciate dal versante dell’antimafia giudiziaria ai magistrati di sorveglianza
che hanno scarcerato anziani boss per motivi di salute, un’altra emblematica
riprova di questa divergenza culturale di fondo la possiamo desumere dal grande
sfavore con cui la maggior parte dei magistrati delle procure hanno accolto la
sentenza costituzionale n. 253/2019 in tema di ergastolo ostativo: a ennesima
conferma del fatto che l’impegno giudiziario antimafia, specie nelle sue forme
più unilaterali di manifestazione, lascia trasparire
una
forma mentis restia a farsi carico dei delicati bilanciamenti tra valori tutti
meritevoli di tutela che il costituzionalismo multilivello oggi impone pure (se
non soprattutto) nell’ambito della giustizia penale, anche quando i soggetti da
giudicare siano mafiosi di grossa taglia. In luogo di un costituzionalismo
penale che sollecita ragionevoli compromessi assiologici, persiste in
particolare sul versante dell’antimafia una ideologia belligerante da “diritto
penale del nemico”, come si desume ad esempio da questa affermazione del
presidente grillino della Commissione antimafia, non a caso pienamente
consonante con il punto di vista di Di Matteo, Gratteri e altri magistrati di
procura: «i mafiosi non sono delinquenti qualsiasi, ma soldati di un esercito
che combatte la democrazia. Per questo sono in prigione. E i prigionieri di
guerra non si liberano tanto facilmente, perché potrebbero tornare a
combattere».
Orbene,
sta proprio in questo approccio similguerresco l’intrinseca e sostanziale
incostituzionalità dell’estremismo antimafioso. Riguardato nelle sue perniciose
ricadute sull’intero mondo giudiziario (anche per la espansiva tendenza che
reca con sé a esportare la mentalità belligerante e l’ottica del diritto penale
del nemico in altri settori criminosi, come la corruzione
politico-amministrativa, i reati sessuali, ecc.), e più in generale sul
funzionamento della nostra democrazia, questo estremismo dovrebbe essere una
buona volta seriamente discusso nelle diverse sedi – istituzionali e non – in
cui si svolgono il dibattito pubblico e il confronto culturale. Ma penso ad una
discussione seria come cosa ben diversa dalle polemiche politico-giornalistiche
correnti, animate da contrapposte tifoserie di pensiero corto, rozzo e soggetto
a volubili pulsioni emotive.
Sarebbe
auspicabile, in questa prospettiva di più autentico e approfondito dibattito
critico, che facessero sentire la loro voce – assai più di quanto finora non
abbiano fatto – il Csm e la Scuola di formazione della magistratura. Rientro
invero nel novero di quanti, da tempo, lamentano la mancanza (o, comunque,
l’insufficienza) di una formazione culturale e professionale dei magistrati
davvero all’altezza delle sfide del nostro tempo; e che sia, altresì idonea a
rimuovere quei deficit di ordine formativo che possono concorrere a perpetuare
in Italia forme vistose e dannose non solo di improprio protagonismo, ma anche
di estremismo giudiziale. Una cosa è infatti il pluralismo ragionevole quale
valore da preservare anche tra i magistrati, altra cosa è un pluralismo così
accentuato da consentire di fatto contrapposizioni tra culture giudiziali così
agli antipodi, da risultare inconciliabili. Ma, purtroppo, pavento che per
questo tipo di confronto approfondito manchino ancora le complessive condizioni
di contesto.
Nell’immediato,
considero comunque sbagliato il tentativo, da parte di Italia Viva e
dell’opposizione di centro-destra, di strumentalizzare politicamente lo scontro
tra il ministro e il pm chiedendo le dimissioni del primo, anche come pretesto
per fare cadere il governo. Bonafede andrebbe sostituito come guardasigilli per
ragioni di demerito politico-culturale che precedono, e nulla hanno a che fare
con la maliziosa e istituzionalmente scorretta accusa di Di Matteo. Ma vi è di
più. Sarebbe assai preoccupante e
deprimente
se a provocare la caduta del ministro, o addirittura dell’intero governo,
dovessero essere – dopo le dimissioni del capo del DAP Basentini causate dalla
precedente puntata della stessa trasmissione televisiva – ancora una volta le
polemiche provocate da un uso spregiudicato e aggressivo della comunicazione
mediatica. Se ciò dovesse malauguratamente avvenire, avremmo la prova della
irreversibilità del decadimento culturale e politico- istituzionale del nostro
Paese.
Fonte: di Giovanni Fiandaca/ “Diritto di
Difesa” – Rivista dell’Unione delle Camere Penali Italiane/ 6.05.20
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