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mercoledì 27 maggio 2020







Giuseppe Aprile a Frignano Piccolo, nel 1928, uccise  Alfonso Cacciapuoti, per vendicare l’uccisione del fratello Tommaso da parte di Giovanni Cacciapuoti  e ferì – per aberratio ictus, le piccole Iolanda Della Corte (12 anni)  e Concetta Papa (2 anni)




I primi ad accorrere sul luogo del delitto furono i carabinieri,  erano stati allertati, verso le ore 9 del 5 aprile del 1928, che in via Campo dei  Fiori,  nei pressi dell’ufficio del Dazio Consumi, erano stati sparati diversi colpi di arma da fuoco. Giunti sul posto -  oltre al rituale capannello di curiosi – i militi rinvennero un carretto, trainato da un asino, con il corpo senza vita di Alfonso Cacciapuoti.  
I carabinieri provvidero a far trasportare il cadavere prima nella propria abitazione e successivamente nella caserma, mettendolo a disposizione del magistrato inquirente, il quale, dopo il verbale di rito – autorizzò la famiglia al trasporto della salma al locale cimitero. Ma qual era il movente del truce delitto? I carabinieri individuarono l’assassino nel giovane muratore Giuseppe Aprile, ma agli inquirenti interessava individuare anche i mandanti dell’omicidio. Il padre del giovane, Giuseppe Aprile, di 55 anni, fu il primo ad essere sospettato. Seguirono gli altri familiari, il figlio Armando, maniscalco, di anni 26; Amerigo, di anni 23, muratore; la mamma del giovane assassino, Giovanna Puoti, di anni 52; tutti tradotti, in stato di fermo nelle carceri di Trentola, in attesa dei provvedimenti della magistratura. Altri sospettati di complicità furono: Vincenzo D’Angiolella, 24 anni, muratore, il fratello Francesco. Liberati poi nel prosieguo delle indagini.
Carlo Pellegrino, che si trovava sul carretto assieme alla vittima; i testimoni oculari della scena del crimine, Carlo Lombardi, di anni 66, guardia municipale; Saverio Della Corte, di anni 70, Lucovico Pellegrino, di anni 28, Giovanni Bruno, di anni 46; Luigi Vigna, di anni 40 e Antonietta Cantile, di anni 33. Tutti nel corso degli interrogatori descrissero le modalità del delitto
Nella sparatoria, vennero coinvolte anche due bimbe, la dodicenne Iolanda Della Corte, e Concetta Papa, di 2 anni, che passavano in quel momento per la piazza assieme alla nonna. Il medico, Luca Della Corte, che soccorse immediatamente le bambine ferite riferì che, una era stata colpita all’avanbraccio sinistro e che sarebbe guarita in 10 giorni; l’altra (ferita alla coscia destra e nella parte ombelicale) la prognosi era più lunga con riserva di guarigione. Infatti la bambina fu trasportata dalla madre all’ospedale dei Pellegrini di Napoli e vi rimase ricoverata per numerosi giorni in pericolo di vita.
I familiari di Giuseppe Aprile confermarono, all’unisono, che il giovane quella mattina, verso le 8.30, entrato in casa e gettando a terra una pistola Browing, cal. 7.65, aveva gridato: “Ho sparato ad Alfonso Cacciapuoti”, dandosi subito dopo alla macchia nelle campagne circostanti.

La pistola era ben custodita  e chiusa in un cassetto, ma che il giovane aveva scardinato la serratura e forzato il cassetto per impossessarsi  dell’arma per poi compiere la vendetta. 



L’arma del delitto fu infatti rintracciata dai militi in un armadietto dell’abitazione degli Aprile, fu scaricata perché conteneva – essendo automatica a 9 colpi – ancora 5 colpi. Il che lasciava presupporre che il giovane aveva sparato in continuità 4 colpi.
Nel corso del sopralluogo dei rappresentanti della Fedelissima fu anche accertato che la pistola era ben custodita dal padre Vincenzo e chiusa in un cassetto, ma che il giovane aveva scardinato la serratura e forzato il cassetto per impossessarsi  dell’arma per poi compiere la vendetta.  
Giuseppe Aprile – quella mattina – era fermo presso la Croce dei Passionisti, sita all’ingresso di Via di Campo dei Fuori, erano circa le 8.30, ed avendo notato che dallo stradone di Casal di Principe proveniva su di un carretto il Cacciapuoti, attese che gli fosse passato davanti – nascondendosi per non farsi notare – ed appena il carretto era giunto nei pressi, da una distanza di circa 4/5 metri gli esplose alle spalle quattro, cinque colpi di rivoltella  colpendolo alla regione mediana sinistra del collo, alla regione scapolare, alla dorsale e a quella gastrica.
La vittima, proditoriamente aggredita, ai colpi mortali ricevuti alla schiena  – inverosimilmente – si riversò all’indietro contemporaneamente girando la testa – forse per conoscere in volto il suo assassino – e fu così che uno degli ultimi colpi sarà stato quello che ferendolo al collo è andato a ferire anche le bambine  Della Corte e Papa, di cui quest’ultima, essendo piccolina, era portata in braccia dalla prima e che insieme si trovavano qualche passo più in giù della Chiesa privata di Alfonso Cassandra.
L’Aprile – come accertarono i periti balistici – sparò in direzione obliqua da destra a sinistra, ciò è confermato dal fatto che furono trovati 3 fori in un muro presso il lato destro della porta di ingresso dell’abitazione di Nicola Pagano. Sulla premeditazione del crimine gli investigatori non ebbero remore: “il delitto è stato premeditato, perché se l’Aprile, non era malamente intenzionato – scrissero nella loro informativa i carabinieri – non si sarebbe impossessato dell’arma che il padre aveva sotto chiave e non andava ad attendere il rientro in paese di Alfonso Caccipuoti da Casal di Principe.
Un’altra certezza sulla premeditazione del crimine i carabinieri la colsero nel momento in cui il giovane – che aveva ucciso il Cacciapuoti per vendicare il fratello, ucciso un mese prima, da un fratello della vittima di nome Giovanni  – nel momento in cui l’Aprile si costituì in caserma: “il giovane in questa caserma durante gli interrogatori ha avuto sempre sulle labbra un tenue sorriso di soddisfazione e di sfida (come per dire… ho commesso un delitto giusto, ho applicato la legge del taglione, il kanun aversano…)  segno evidente in chi, pago d’aver commesso una buona azione, è contento di se stesso”.
Ma perché c’era stato quel delitto in piazza? Una vendetta? Una sfida? No! Una vicenda passionale, un matrimonio mancato, un amore finito e una minaccia: “Faccia gialluta, hai fatta la guapparia, hai profittato di me che non tengo fratelli ma c’è chi te la farà pagare”.  E ancora, in altra circostanza, da parte della madre della ragazza una palese minaccia: “Amerigo, ringrazia quel gialluto di tuo fratello, che ha dato gli schiaffi a Vincenzina, ma io femmina femmina, lo debbo uccidere. Lui sempre la deve pagare”.


Ma per comprendere meglio tutta la vicenda bisogna fare un passo indietro. Il giovane Tommaso Aprile era stato per un tempo fidanzato con Vincenzina D’Angiolella, imparentata con la famiglia Cacciapuoti. Il 5 marzo del 1928 in base al forte dissidio sorto per la rottura del fidanzamento Tommaso Aprile viene ucciso da Giovanni Cacciapuoti.  Il 5 aprile, dopo circa un mese, Giuseppe Aprile uccide Alfonso Cacciapuoti. Nel giugno dello stesso anno, Giovanni Cacciapuoti, detenuto in attesa di giudizio, muore misteriosamente - pare sia stato avvelenato con la complicità di un compagno di cella,  originario di Frignano Piccolo, tale  Gennaro Orabona, ma nel processo non vi sono tracce dell’episodio – ma nel corso del dibattimento in Corte di Assise per il processo a Giuseppe Aprile la vicenda venne a galla. 


Per  la sua giovane età l’imputato venne condanna a 10 anni di reclusione – Riconosciuta l’attenuante della provocazione



A quell’epoca la procedura non prevedeva, per esempio, il rito di sottoporre l’imputato a perizia per accertare le eventuali patologie psichiatriche. Si procedeva quindi, su quesiti specifici che formulava il presidente della Corte di Assise e che sottoponeva ai giurati. Siamo nel 1930.  Nell’udienza dell’8 febbraio del 1930, il presidente della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere,  Cav. Ufficiale Michele Libonati, consigliere della corte di Appello di Napoli, con l’intervento del pubblico ministero, in persona dell’Ill/mo Signor Cavalier Pietro De Longis, sostituto procuratore del re, ha pronunciato la seguente sentenza nella causa penale contro Giuseppe Aprile di anni 16 e Vincenzo Aprile (padre) di anni 57, entrambi da Frignano Piccolo, imputati, il primo per avere in Frignano Piccolo, il 5 aprile del 1928, al fine di uccidere, e con premeditazione, esplosi più colpi di rivoltella contro Alfonso Cacciapuoti di anni 15, cagionandone la morte, allo scopo di esercitare vendetta per l’uccisione del fratello Tommaso, da parte di Giovanni Cacciapuoti che nel frattempo era deceduto.  Il secondo accusato di impunibilità civile ai fini del porto abusivo di pistola. Poiché l’omicidio premeditato è punito con l’ergastolo, ma all’Aprile che aveva 16 anni all’epoca del commesso reato, va applicata la reclusione da dodici a venti anni e, nella specie, si ritiene adeguato il minimo, che per le attenuanti si riduce  a dieci. Per il padre non fu riscontrata colpa.  Nei tre gradi del processo furono impegnati  gli avvocati: Francesco Polito, da Santa Maria Capua Vetere, in difesa della parte civile; Tommaso Messore, Giovanni Porzio, Enrico De Nicola,  Alfredo De Marsico e Remo Persico, per gli imputati. La condanna fu ad anni 10 di reclusione per il giovane vendicatore.






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