Giuseppe Aprile a Frignano Piccolo, nel
1928, uccise Alfonso Cacciapuoti, per vendicare
l’uccisione del fratello Tommaso da parte di Giovanni Cacciapuoti e ferì – per aberratio ictus, le piccole Iolanda Della Corte (12 anni) e Concetta Papa (2 anni)
I primi ad accorrere sul luogo
del delitto furono i carabinieri, erano
stati allertati, verso le ore 9 del 5 aprile del 1928, che in via Campo
dei Fiori, nei pressi dell’ufficio del Dazio Consumi,
erano stati sparati diversi colpi di arma da fuoco. Giunti sul posto - oltre al rituale capannello di curiosi – i
militi rinvennero un carretto, trainato da un asino, con il corpo senza vita di
Alfonso Cacciapuoti.
I carabinieri provvidero a far
trasportare il cadavere prima nella propria abitazione e successivamente nella
caserma, mettendolo a disposizione del magistrato inquirente, il quale, dopo il
verbale di rito – autorizzò la famiglia al trasporto della salma al locale
cimitero. Ma qual era il movente del truce delitto? I carabinieri individuarono
l’assassino nel giovane muratore Giuseppe
Aprile, ma agli inquirenti interessava individuare anche i mandanti dell’omicidio.
Il padre del giovane, Giuseppe Aprile,
di 55 anni, fu il primo ad essere sospettato. Seguirono gli altri familiari, il
figlio Armando, maniscalco, di anni
26; Amerigo, di anni 23, muratore;
la mamma del giovane assassino, Giovanna
Puoti, di anni 52; tutti tradotti, in stato di fermo nelle carceri di
Trentola, in attesa dei provvedimenti della magistratura. Altri sospettati di
complicità furono: Vincenzo D’Angiolella,
24 anni, muratore, il fratello Francesco.
Liberati poi nel prosieguo delle indagini.
Carlo
Pellegrino, che si trovava sul carretto assieme alla
vittima; i testimoni oculari della scena
del crimine, Carlo Lombardi, di
anni 66, guardia municipale; Saverio
Della Corte, di anni 70, Lucovico
Pellegrino, di anni 28, Giovanni
Bruno, di anni 46; Luigi Vigna,
di anni 40 e Antonietta Cantile, di
anni 33. Tutti nel corso degli interrogatori descrissero le modalità
del delitto
Nella sparatoria, vennero
coinvolte anche due bimbe, la dodicenne Iolanda
Della Corte, e Concetta Papa, di
2 anni, che passavano in quel momento per la piazza assieme alla nonna. Il
medico, Luca Della Corte, che
soccorse immediatamente le bambine ferite riferì che, una era stata colpita
all’avanbraccio sinistro e che sarebbe guarita in 10 giorni; l’altra (ferita
alla coscia destra e nella parte ombelicale) la prognosi era più lunga con
riserva di guarigione. Infatti la bambina fu trasportata dalla madre
all’ospedale dei Pellegrini di Napoli e vi rimase ricoverata per numerosi
giorni in pericolo di vita.
I familiari di Giuseppe Aprile confermarono,
all’unisono, che il giovane quella mattina, verso le 8.30, entrato in casa e
gettando a terra una pistola Browing, cal. 7.65, aveva gridato: “Ho sparato
ad Alfonso Cacciapuoti”, dandosi subito dopo alla macchia nelle campagne
circostanti.
La pistola era ben custodita e chiusa in un cassetto, ma che il giovane
aveva scardinato la serratura e forzato il cassetto per impossessarsi dell’arma per poi compiere la vendetta.
L’arma del delitto fu infatti
rintracciata dai militi in un armadietto dell’abitazione degli Aprile, fu
scaricata perché conteneva – essendo automatica a 9 colpi – ancora 5 colpi. Il
che lasciava presupporre che il giovane aveva sparato in continuità 4 colpi.
Nel corso del sopralluogo dei
rappresentanti della Fedelissima fu anche accertato che la pistola era ben
custodita dal padre Vincenzo e chiusa in un cassetto, ma che il giovane aveva
scardinato la serratura e forzato il cassetto per impossessarsi dell’arma per poi compiere la vendetta.
Giuseppe
Aprile – quella mattina – era fermo presso la Croce dei
Passionisti, sita all’ingresso di Via di Campo dei Fuori, erano circa le 8.30,
ed avendo notato che dallo stradone di Casal di Principe proveniva su di un
carretto il Cacciapuoti, attese che gli fosse passato davanti – nascondendosi
per non farsi notare – ed appena il carretto era giunto nei pressi, da una
distanza di circa 4/5 metri gli esplose alle spalle quattro, cinque colpi di
rivoltella colpendolo alla regione
mediana sinistra del collo, alla regione scapolare, alla dorsale e a quella
gastrica.
La vittima, proditoriamente
aggredita, ai colpi mortali ricevuti alla schiena – inverosimilmente – si riversò all’indietro
contemporaneamente girando la testa – forse per conoscere in volto il suo
assassino – e fu così che uno degli ultimi colpi sarà stato quello che
ferendolo al collo è andato a ferire anche le bambine Della Corte e Papa, di cui quest’ultima,
essendo piccolina, era portata in braccia dalla prima e che insieme si
trovavano qualche passo più in giù della Chiesa privata di Alfonso Cassandra.
L’Aprile – come accertarono i
periti balistici – sparò in direzione obliqua da destra a sinistra, ciò è confermato
dal fatto che furono trovati 3 fori in un muro presso il lato destro della
porta di ingresso dell’abitazione di Nicola
Pagano. Sulla premeditazione del crimine gli investigatori non ebbero
remore: “il delitto è stato premeditato,
perché se l’Aprile, non era malamente intenzionato – scrissero nella loro
informativa i carabinieri – non si
sarebbe impossessato dell’arma che il padre aveva sotto chiave e non andava ad
attendere il rientro in paese di Alfonso Caccipuoti da Casal di Principe.
Un’altra certezza sulla premeditazione del crimine i carabinieri la colsero
nel momento in cui il giovane – che aveva ucciso il Cacciapuoti per vendicare
il fratello, ucciso un mese prima, da un fratello della vittima di nome Giovanni – nel momento in cui l’Aprile si costituì in
caserma: “il giovane in questa caserma
durante gli interrogatori ha avuto sempre sulle labbra un tenue sorriso di
soddisfazione e di sfida (come per dire… ho commesso un delitto giusto, ho
applicato la legge del taglione, il kanun aversano…) segno evidente in chi, pago
d’aver commesso una buona azione, è contento di se stesso”.
Ma perché c’era stato quel
delitto in piazza? Una vendetta? Una sfida? No! Una vicenda passionale, un
matrimonio mancato, un amore finito e una minaccia: “Faccia gialluta, hai fatta la guapparia, hai profittato di me che non
tengo fratelli ma c’è chi te la farà pagare”. E ancora, in altra circostanza, da parte della
madre della ragazza una palese minaccia: “Amerigo,
ringrazia quel gialluto di tuo fratello, che ha dato gli schiaffi a Vincenzina,
ma io femmina femmina, lo debbo uccidere. Lui sempre la deve pagare”.
Ma per comprendere meglio
tutta la vicenda bisogna fare un passo indietro. Il giovane Tommaso Aprile era stato per un tempo
fidanzato con Vincenzina D’Angiolella,
imparentata con la famiglia Cacciapuoti. Il 5 marzo del 1928 in base al forte
dissidio sorto per la rottura del fidanzamento Tommaso Aprile viene ucciso da Giovanni
Cacciapuoti. Il 5 aprile, dopo circa
un mese, Giuseppe Aprile uccide Alfonso Cacciapuoti. Nel giugno dello
stesso anno, Giovanni Cacciapuoti,
detenuto in attesa di giudizio, muore misteriosamente - pare sia stato
avvelenato con la complicità di un compagno di cella, originario di Frignano Piccolo, tale Gennaro
Orabona, ma nel processo non vi sono tracce dell’episodio – ma nel corso
del dibattimento in Corte di Assise per il processo a Giuseppe Aprile la vicenda venne a galla.
Per
la sua giovane età l’imputato venne condanna a 10 anni di reclusione –
Riconosciuta l’attenuante della provocazione
A quell’epoca la procedura non
prevedeva, per esempio, il rito di sottoporre l’imputato a perizia per
accertare le eventuali patologie psichiatriche. Si procedeva quindi, su quesiti
specifici che formulava il presidente della Corte di Assise e che sottoponeva
ai giurati. Siamo nel 1930. Nell’udienza
dell’8 febbraio del 1930, il presidente della Corte di Assise di Santa Maria
Capua Vetere, Cav. Ufficiale Michele
Libonati, consigliere della corte di Appello di Napoli, con l’intervento del
pubblico ministero, in persona dell’Ill/mo Signor Cavalier Pietro De Longis,
sostituto procuratore del re, ha pronunciato la seguente sentenza nella causa
penale contro Giuseppe Aprile di anni 16 e Vincenzo Aprile (padre) di anni 57,
entrambi da Frignano Piccolo, imputati, il primo per avere in Frignano Piccolo,
il 5 aprile del 1928, al fine di uccidere, e con premeditazione, esplosi più
colpi di rivoltella contro Alfonso Cacciapuoti di anni 15, cagionandone la
morte, allo scopo di esercitare vendetta per l’uccisione del fratello Tommaso,
da parte di Giovanni Cacciapuoti che nel frattempo era deceduto. Il secondo accusato di impunibilità civile ai
fini del porto abusivo di pistola. Poiché l’omicidio premeditato è punito con
l’ergastolo, ma all’Aprile che aveva 16 anni all’epoca del commesso reato, va
applicata la reclusione da dodici a venti anni e, nella specie, si ritiene
adeguato il minimo, che per le attenuanti si riduce a dieci. Per il padre non fu riscontrata
colpa. Nei tre gradi del
processo furono impegnati gli avvocati: Francesco Polito, da Santa Maria Capua
Vetere, in difesa della parte civile; Tommaso
Messore, Giovanni Porzio, Enrico De Nicola, Alfredo
De Marsico e Remo Persico, per
gli imputati. La condanna fu ad anni 10 di reclusione per il giovane vendicatore.
Nessun commento:
Posta un commento