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mercoledì 27 maggio 2020



Il duplice delitto accadde a S. Maria Capua Vetere  nel 1870
Processo all’ex monaco che uccise il padrone  e sua figlia

 

 Questa è la ricostruzione del processo  definito dalla stampa dell’epoca: “uno dei processi  più celebri  ed interessanti nei fasti della giustizia penale”, contro un  ex monaco che uccise il padrone a coltellate e strangolò la figlia 18enne. Il truce episodio accadde a  Santa Maria Capua Vetere, nel luglio del 1870, in casa del ricchissimo Michele Visconti. Il movente era da ricercarsi nel licenziamento in tronco per scarso rendimento. Dopo il delitto, occultò i cadaveri nella cantina del palazzo. Sottrasse ori, diamanti e fedi di credito del “Gran Libro del Debito Pubblico”, del Regno d’Italia, per vari milioni. Giudicato dalla locale Corte di Assise fu condannato a morte. Alla difesa due tra i più importanti avvocati dell’epoca: Pietro Rosano e Francesco Girardi.
Le cronache dell’epoca raccontano che Antonio Bottillo, 37 anni, da Cervinara, ex monaco terziario nel convento dei Francescani a Napoli, dopo aver sedotta una minorenne, era fuggito da Napoli e venuto a Santamaria era stato assunto come servitore presso la ricca famiglia dei Visconti.
Il 14 luglio del 1870, una mattina, appunto verso le sette, appena abbrustolito il caffè, aggredì e uccise a coltellate il suo padrone Michele Visconti; poi, recatosi nella camera da letto dove dormiva strangolò la figlia Rosina, una giovanetta di appena 18 anni.
Dopo il duplice delitto, scavò una fossa nella cantina di casa e vi seppellì i due cadaveri. Motivo? Il padrone gli aveva detto che non sapeva cucinare e lo aveva minacciato di licenziamento. Per occultare il suo duplice omicidio il Bottillo a chi cercava (parenti, amici e conoscenti) notizie sulla scomparsa del Visconti e della figlia narrava che i due erano andati per un certo tempo in vacanza a Napoli e facevano i bagni tra Lucrino e Ischitella e che lui li aveva accompagnati fino all’angolo di Corso Garibaldi per aiutarli nel peso del loro baule.
Per accreditare ancora di più la tesi dell’allontanamento volontario aveva fatto sparire gli indumenti dei due, e ricettato poi presso un personaggio napoletano coinvolto nel processo, tale Giovanni La Ruffa, gli oggetti rubati al padrone.
Il Bottillo, dopo molti giorni contattava la sorella del suo padrone alla quale consegnava le chiavi della casa e si recava a servire in Castellammare presso la famiglia del barone Castaldi.
Mentre trascorreva il tempo -  i familiari erano sempre più allarmati - il locale Pretore effettuò una sortita nel palazzo Visconti, ma parve tutto in ordine. Non furono rinvenuti né segni di sangue né effrazioni o tracce di colluttazioni o altri indizi che portassero al duplice efferato crimine.  Dopo qualche tempo - poiché erano risultate vane anche le ricerche effettuate dalla polizia nella zona di Lucrino, Lago Patria, Ischitella e Pozzuoli - il Pretore fu spinto ad effettuare un nuovo sopralluogo nel palazzo Visconti.
Questa volta le ricerche più approfondite portarono alla scoperta dei cadaveri – trovati coperti di terriccio - seppelliti nella cantina della casa.  Con la perizia generica e le autopsie risultò che Michele Visconti era stato ucciso con tre colpi di coltello al collo e al capo. Ed altre ferite che si trovavano in altre parti del corpo. I periti accertarono inoltre che il Visconti era stato ucciso mentre era a letto con armi diverse. Si accertava anche che la giovane Rosina era stata uccisa con un colpo alla testa ed era stata strozzata con un laccio di piccole dimensioni. A questo punto Antonio Bottillo fu arrestato a Castellammare di Stabia a tradotto nelle carceri  di San Francesco della città del Foro. 

Interrogato diede una versione inverosimile del duplice delitto. Narrò che il 14 luglio del 1870, il Visconti e la figlia, verso le sette di mattina entrarono nella cucina dove lui era per apparecchiare il caffè e gli ingiunsero di allontanarsi da casa in virtù della diffida già fatta giorni prima del licenziamento. Che lui, adirato, aveva replicato ed il padrone aveva ingiunto alla figlia di correre nella camera attigua a prendere la pistola e nel contempo gli aveva mollato solenni ceffoni.
 Il relativo processo – definito dalla stampa dell’epoca - “uno dei processi  più celebri  ed interessanti nei fasti della giustizia penale”-  si svolse nel 1871 presso la Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, di cui era Presidente Francesco Santamaria; la pubblica accusa venne sostenuta dal  pubblico ministero, il procuratore generale, Cesare Oliva; gli avvocati difensori, per Bottillo furono Pietro Rosano (allievo di Nicola Amore)  e Francesco Girardi, (allievo di Leopoldo Tarantini); per il ricettatore napoletano l’avvocato Niccola Mottola. La privata accusa fu sostenuta dall’avvocato Francesco D’Amore (unico avvocato sammaritano, amico di famiglia delle vittime).
Dopo un anno dal delitto fu celebrato il processo.  In apertura del dibattimento la relazione del presidente che riassunse il duplice efferato delitto provocò il raccapriccio (orrore e ripugnanza) dei presenti. Nel corso dell’istruttoria dibattimentale fu interrogato l’imputato il quale cercò, prima di negare poi di sminuire le sue responsabilità accreditando la tesi della provocazione. Subito dopo furono interrogati  i numerosi testimoni: Maria Sticco, moglie separata  e madre naturale della Rosina Visconti; il commissario di polizia, Achille Magliano; l’ex cuoco della famiglia Visconti, il napoletano Pasquale Zarlengo; il medico di famiglia Dr. Pietro Morelli (forse quello a cui poi è stata intitolata una strada a Santamaria); il calessiere,  o cocchiere,  Raffaele Avenia, che condusse in carrozza il Bottillo a Napoli; il sacerdote Raffaele Fratta; i barbieri, Abramo Pagano e Aniello Bizozzero; la capera, Caterina Cipullo, che curava i capelli della giovane Visconti; Padre Salvatore Candido, da Napoli, che svelò le precedenti disavventure del monaco (stupratore, vinaio, rapinatore); i suoi ex servitori,  Nicola Manone e Giovanni Teti; Giulia Della Corte, amica della giovane uccisa; Teresina Bobbio e Rachele Panaro, altre amiche della vittima. L’apprendista notaio Enrico Code, che la mattina del delitto aveva un appuntamento con Michele Visconti per discutere di alcune rendite.


Il processo in Corte di Assise  del tribunale di Santa Maria Capua Vetere
La requisitoria e le arringhe difensive

Al termine della sua arringa l’avvocato Francesco D’Amore, parte civile concluse: “Ecco, o giurati, come il complesso delle prove morali e la stessa perizia generica, sbugiardano i fatti raccontati dal Bottillo e gli gridano: bugiardo tu mentisci! Resterebbe ora a dimostrare come gli omicidii commessi dall’accusato in persona dei due Visconti siano accompagnati da varie circostanze aggravanti; ma questo non è mio compito, sibbene del valentissimo Magistrato che sostiene l’accusa pubblica”.
Quindi - nella udienza successiva – prese la parola la pubblica accusa che a conclusione della sua requisitoria chiese una condanna esemplare: “Io, senza trattenermi su quelle circostanze che con tanta chiarezza vi sono state esposte, assumo semplicemente a dimostrarvi: 1°) Che la scusa di provocazione messa in campo dall’accusato non può concedersi. 2°) Che il primo omicidio commesso dal Bottillo in persona di Michele Visconti, sia accompagnato dall’aggravante della premeditazione. 3°) Che l’altro in persona della figlia di costui, parimenti premeditato, sia stato perpetrato per assicurare la impunità al colpevole. 4°) Che nel furto, dal medesimo commesso, vi sia una triplice qualifica. 5°) Ed infine che il La Ruffa sia colpevole di ricettazione di oggetti furtivi, senza precedente concerto cogli autori del reato”.

Nelle udienze successive le arringhe degli avvocati difensori spinsero molti sammaritani a gremire le aule del Tribunale. Qual giorno in Corte di Assise si registrò il pienone. Il primo a prendere la parola fu l’avvocato Pietro Rosano (*) “Dove fu ucciso Michele Visconti?. La parte Civile, sosteneva che tale omicidio fosse avvenuto nella stanza da letto. Il P. G. invece osservava essere per lui indifferente determinare il luogo. Per me, difensore di Antonio Bottillo, un abisso separa le due ipotesi”.  
Il servo fu  condannato  a morte.  I cittadini applaudirono.
Il presidente: “Questa gioia feroce è indegna di un popolo civile”.
 
Dopo circa tre ore di oratoria, l’avvocato Rosano che aveva tentato in tutti i modi di dimostrare che i due delitti non erano premeditati (perché l’aggravante della premeditazione portava alla via del patibolo) senza riuscirvi così concluse:  “Quello che noi sappiamo solamente di certo si è che due eccidi si sono commessi e che di questi sia autore il Bottillo. Punitelo severamente sì, ma che la punizione non sia esagerata!”.
Il secondo difensore di Bottillo fu Francesco Girardi. (*)  La sua arringa quanto alle argomentazioni, non fu molto lunga, poiché la causa era stata già ampiamente trattata dal suo collega Rosano; però con quella facilità di parola che tanto lo distingue, parlò molto tempo al cuore dei giurati, interessandoli perché dessero almeno le circostanze attenuanti all’accusato, dando così un’ultima smentita a quelli che ritengono sia necessario il carnefice.
Quindi i giurati si ritirarono in camera di consiglio e alle questioni loro presentate risposero affermativamente ritenendo i due imputati colpevoli secondo l’accusa. Il Bottillo cioè di due assassinii per premeditazione in persona del padre e figlia Visconti, e colla qualifica bensì di essere stato il secondo, commesso allo scopo di occultare il primo. Il La Ruffa poi di ricettazione di oggetti furtivi senza precedente concerto coll’autore del furto. A costui furono accordate le circostanze attenuanti. La Corte condannò il primo alla pena di morte ed il secondo a 4 mesi di carcere computandosi il carcere già sofferto. Non appena il presidente ebbe letta la sentenza colla quale al Bottillo veniva comminata la pena di morte, s’intese nella sala un vivo mormorio di gioia e molti applausi.  Il Presidente allora diè immediatamente ordine ai Carabinieri di fare sgombrare la sala, rivolgendo al pubblico le seguenti gravi parole: “Questa gioia feroce è indegna di un popolo civile”.





(*) Pietro Rosano quando pronunciò l’arringa in difesa di Bottillo aveva 30 anni.  Fu deputato al Parlamento rappresentando il collegio di Aversa. Fu penalista principe, allievo di Nicola Amore, quest’ultimo nato a Roccamonfina.  Poco dopo che il Governo Giolitti II ottenne la fiducia alla Camera dei deputati, socialisti, repubblicani e radicali lanciarono contro di lui una campagna di attacchi personali e Rosano, non abituato a tali aspri scontri politici, si suicidò proclamando la sua innocenza.
  (*) Francesco Girardi nacque a Napoli. Giovanissimo, si laureò in giurisprudenza, specializzandosi in diritto penale con Enrico Pessina. Dopo aver superato una dura selezione, entrò in magistratura, per tornare poi alla professione forense come allievo di Leopoldo Tarantini. Non mirava mai a impietosire i giudici, né a smuovere gli affetti, preferendo elaborare convinzioni ragionate supportate da una vasta cultura giuridica, da un ingegno vivace e da una tempra impetuosa. Fu deputato e sindaco di Napoli.




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