Il delitto accadde nel
1930 a Teverola che allora si chiamava Fertilia. Pietro Caputo uccise
Nicola Fedele per contrasti sulla conduzione di un fazzoletto di terra.
Il 20 ottobre del 1928, (anno
VI dell’Era Fascista, come è specificato nel rapporto) i carabinieri di
Teverola, che allora si chiamava Fertilia, (il comune di Fertilia fu creato nel 1929
dalla fusione dei comuni di Casaluce e di Teverola. Nel 1945 passò dalla
provincia di Napoli a quella di Caserta. Nel 1946 il comune venne soppresso e al
suo posto furono ricostituiti i due comuni preesistenti) presentarono alla
Procura del Re, presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, un dettagliato
rapporto con il quale denunciavano il contadino Pietro Paolo Caputo, nativo
di Teverola, di anni 56, di essere l’autore dell’omicidio avvenuto due giorni
prima ai danni del colono 50enne, Nicola
Fedele da Aversa.
I militi della Fedelissima
individuarono il movente del grave fatto di sangue nel contrasto sorto tra i
due per la conduzione di circa 6 moggia di terreno cadenti nel territorio di
Aversa di proprietà degli eredi Dell’Aversana. Questi ultimi – a causa della
persistente morosità dell’estaglio non corrisposto – avevano intimato lo
sfratto - con l’intervento dell’ufficiale giudiziario della Pretura di Aversa
ed oltre allo sfratto, eseguito il 15 agosto, avevano sottoposto a pignoramento
i frutti pendenti (fu nominato custode tale Alfonso Cesaro), per il recupero del loro avere.
Sia in sede di esecuzione
dello sfratto, che in occasione del pignoramento, il Caputo aveva minacciato di
morte i proprietari del terreno, tanto è vero che in seguito a denuncia lo
stesso era stato diffidato dai carabinieri. Apparentemente il Caputo si
tranquillizzò ed i proprietari del terreno lo diedero in fitto al colone Nicola Fedele, di anni 50 da Aversa. Il
predetto si organizzò per la semina del grano e trasportò anche un carico di
letame per la concimazione.
Ma mentre l’incredulo colono
assieme a due figli lavorava il terreno improvvisamente gli si parò di fronte
il Caputo e proferendo minacce e ingiurie esplose un colpo di fucile a breve
distanza allontanandosi subito dopo indisturbato. Sul posto vi erano oltre ai
carabinieri anche alcuni contadini che stavano lavorando la terra in località “San
Nazzaro”: Aniello Cannavale, da
Casaluce; mentre sul fondo “Ponte Frascone”, condotto in fitto anche dallo
stesso Caputo, vi si trovavano due braccianti: Giovannina Pagliuca, di anni 18 e Domenica Graziano di anni 17, entrambe da Teverola. Ricercato dai
carabinieri - il Caputo che si era dato alla latitanza - tra le campagne, fu invece individuato dal
guardiano giurato, Vincenzo Giorgio
Pieretti, che lo condusse presso la caserma dei carabinieri nonostante il
Caputo – che non oppose alcuna resistenza – fosse in possesso del suo fucile
caricato a pallini. Al suo primo interrogatorio il Caputo giustificò il suo
gesto, asserendo di avere sparato un solo colpo per intimidire il Fedele, in seguito alla minacce aveva messo in atto
contro di lui impugnando una zappa. Lui aveva rivendicato il possesso del terreno
che un tempo aveva condotto in fitto, perché
i proprietari gli avevano
promesso che – nonostante il pignoramento – dopo aver pagato l’estaglio (cosa
che aveva fatto) lo avrebbero riammesso nel possesso. La circostanza fu confermata da tale Pasquale Iovine che si trovava nei
pressi del luogo del delitto. Pertanto Pietro Caputo venne denunciato per l’omicidio
di Nicola Fedele.
La
difesa riuscì a capovolgere l’accusa: da omicidio volontario venne derubricato
in preterintenzionale e successivamente riconosciuta la legittima difesa
Mentre il giudice istruttore
del tribunale di Santa Maria Capua Vetere procedeva alla rituale istruttoria,
l’avvocato Ettore Pianese,
nell’interesse delle parti civili, inoltrava una missiva al magistrato per
evidenziare alcuni punti della dinamica del delitto, indicava una serie di
circostanze e di fatti e individuava alcuni testimoni. Vincenzo Sangiuliano, da Parete e Francesco
Pisciotta, da Aversa, avevano ceduto in fitto, per conto delle rispettive
mogli, che ne erano le proprietarie, il
fondo in tenimento di Casaluce al Caputo e possono deporre sulle prepotenze da
questi usato sugli atti giudiziari che furono costretti ad intimargli; sulle
modalità dello sfratto; sulle minacce replicatamente fatte dall’imputato; sul
contegno remissivo dei nuovi fittuari; e sulle pressioni esercitate dal Caputo
e dai suoi familiari – prima e dopo il delitto. Per tali minacce e
comportamenti vi erano in corso procedimenti penali presso la Pretura di Aversa
che l’avvocato Pianese chiese di allegare al processo della Corte di Assise.
Insomma, il Caputo, pretendeva a qualunque costo di rimanere sui fondi, pur non
pagando l’estaglio, solamente per diritto di camorra, minacciando sia i padroni
che chiunque avesse osato di fittare quel malaugurato pezzo di terreno.
Infatti, Umberto Gravina e Maria
Pompella, da Aversa, fittuari assieme al povero Fedele, potranno dire che
appena preso possesso del fondo fu necessario l’intervento dei carabinieri di
Teverola in quanto il Caputo aveva lanciato larvate minacce: “Badate, vi siete preso il fondo ma non lo
seminerete. Uno di noi deve rimanere i figli in mezzo alla strada: o voi od
io”.
Che – scrivevano i carabinieri
- malgrado il contegno remissivo ed appaurato dei nuovi fittuari, dai quali il
Caputo aveva preteso ed ottenuto anche dei servigi, si recava, per intimorirli,
sempre nella terra armato di fucile, minacciando in continuazione; o che,
avendo il Gravino od il Fedele fatto offerta di andarsene, per paura di vedere
effettuate le minacce del Caputo, questi pretendeva che addirittura non
coltivassero la terra sperando così di indurre i proprietari a cedere alle suo
pressioni continue, e durate anche quando il fondo non gli apparteneva più.
Raccapricciante la deposizione
di Vincenzo Marrandino - sul cui biroccino trasportò
all’ospedale la povera vittima – un fatto brigantesco inaudito, un delitto
compiuto con cinismo unico più che raro, sotto gli occhi esterrefatti dei figlioletti
della vittima, che alla minaccia di morte si era dichiarato pronto ad andarsene
ed aveva invocato pietà per i sette suoi figli, ma che cadde, crivellato dal
piombo assassino, e minacciato ancora di
peggio.
Il 19 febbraio del 1929, a
chiusura dell’istruttoria, il Procuratore del Re chiese il rinvio a giudizio
dell’imputato escludendo però la premeditazione. L’8 aprile gli avvocati
difensori presentarono un foglio di lume eccependo: Prima cosa che il Caputo non aveva avuto alcuna
intenzione di uccidere ma solo di ferire Nicola Fedele; secondo la verità è ben
altra. Caputo Pietro, il 18 ottobre 1928 verso le ore 12, recandosi nel fondo “Lavinaio” in tenimento di
Teverola, dal quale era stato sfrattato, ma sul quale doveva raccogliere ancora le uve, trovò in
detto fondo il nuovo fittuario Fedele Nicola. Poiché vi era già preciso impegno
da parte di Fedele e dei proprietari, che Caputo avrebbe sempre mantenuto il
possesso del fondo, non appena avesse pagato l’estaglio arretrato, e poiché ciò
Caputo aveva fatto e Fedele ne era consapevole, si determinò una spiegazione
circa la stabilita ripresa di possesso del fondo da parte di Caputo, nella quale costui non aveva proprio
alcun torto. La spiegazione si tramutò in diverbio, Fedele aggredì Caputo
dicendo: ”Taggia zumpà na coscia”,
come ha confessato, esplose in direzione delle gambe di Fedele un colpo di
fucile che provocarono sulle gambe della vittima varie ferite.
Forse
la causa del decesso fu anche per imperizia medica perché la vittima ferita
alle gambe dopo essere stata dimessa decedette mentre raggiungeva la sua
abitazione
Mentre il ferito veniva
trasportato all’ospedale – passando pel comune di Casaluce – fu interrogato dal
Pretore di Aversa, che ivi si trovava per ragioni di ufficio. All’ospedale di
Aversa, medicato, mentre stava per essere licenziato dal Pio luogo si aggravò
inaspettatamente, cessando di vivere. Il Caputo disse al Pretore testualmente
prima di morire: ”Il Caputo a tal fatto
mi ha conservato rancore fino al punto da spararmi. A breve distanza mi ha
sparato presente mio figlio Raffaele”. Altri testimoni precisarono che il
Caputo era stato minacciato dalla vittima e che fu sparato un solo colpo.
Raffaele Barbato: “Improvvisamente
sentimmo un colpo”. Giovanna Pagliuca: “Il
Fedele levò la zappa contro Caputo che fattosi indietro, gli puntò contro il
fucile e fece partire un colpo”.
L’imputato subito dopo il
fatto – come risulta dal verbale dei carabinieri – fu rimproverato da Aniello
Cannavale, col quale si incontrò a breve distanza dal fondo. Cannavale riferì: “Vidi venire Pietro Caputo tutto sbigottito
e col fucile addosso. Mi disse che un momento prima aveva sparato un colpo
contro Nicola Fedele. Avendolo io rimproverato mi rispose: E’ una sciocchezza,
perché il colpo era a pallini e l’ho tirato alle gambe”.
Il 17 aprile successivo, la
Sezione di Accusa della Corte di Appello di Napoli rinviò al giudizio della Corte di Assise di Santa
Maria Capua Vetere, Pietro Paolo Caputo,
accusandolo di omicidio volontario. La
prima imputazione fu di omicidio volontario premeditato, poi i valenti
difensori riuscirono a far derubricare il reato, prima in omicidio
preterintenzionale, poi addirittura in legittima difesa.
Il 7 luglio del 1930 fu emessa la sentenza dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, presieduta dal giudice Libonati e la condanna fu ad anni 8 di reclusione. In definitiva la difesa sostenne la non intenzione di uccidere, l’esplosione di un solo colpo e la derubricazione del reato da omicidio volontario ad omicidio preterintenzionale. In effetti la votazione dei giudici popolari sulla premeditazione fu “a maggioranza” un netto no! Gli avvocato impegnati furono: Ettore Pianese, Raffaele Ferrara, Tommaso Messore, Giovanni Porzio e Luciano Numeroso.
Il 7 luglio del 1930 fu emessa la sentenza dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, presieduta dal giudice Libonati e la condanna fu ad anni 8 di reclusione. In definitiva la difesa sostenne la non intenzione di uccidere, l’esplosione di un solo colpo e la derubricazione del reato da omicidio volontario ad omicidio preterintenzionale. In effetti la votazione dei giudici popolari sulla premeditazione fu “a maggioranza” un netto no! Gli avvocato impegnati furono: Ettore Pianese, Raffaele Ferrara, Tommaso Messore, Giovanni Porzio e Luciano Numeroso.
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