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mercoledì 27 maggio 2020



Il delitto accadde nel 1930 a Teverola che allora si chiamava Fertilia. Pietro Caputo  uccise  Nicola Fedele per contrasti sulla conduzione  di un fazzoletto di terra.

Il 20 ottobre del 1928, (anno VI dell’Era Fascista, come è specificato nel rapporto) i carabinieri di Teverola, che allora si chiamava Fertilia,  (il comune di Fertilia fu creato nel 1929 dalla fusione dei comuni di Casaluce e di Teverola. Nel 1945 passò dalla provincia di Napoli a quella di Caserta. Nel 1946 il comune venne soppresso e al suo posto furono ricostituiti i due comuni preesistenti) presentarono alla Procura del Re, presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, un dettagliato rapporto con il quale denunciavano il contadino Pietro Paolo  Caputo, nativo di Teverola, di anni 56, di essere l’autore dell’omicidio avvenuto due giorni prima ai danni del colono 50enne, Nicola Fedele da Aversa.
I militi della Fedelissima individuarono il movente del grave fatto di sangue nel contrasto sorto tra i due per la conduzione di circa 6 moggia di terreno cadenti nel territorio di Aversa di proprietà degli eredi Dell’Aversana. Questi ultimi – a causa della persistente morosità dell’estaglio non corrisposto – avevano intimato lo sfratto - con l’intervento dell’ufficiale giudiziario della Pretura di Aversa ed oltre allo sfratto, eseguito il 15 agosto, avevano sottoposto a pignoramento i frutti pendenti (fu nominato custode tale Alfonso Cesaro), per il recupero del loro avere.  
Sia in sede di esecuzione dello sfratto, che in occasione del pignoramento, il Caputo aveva minacciato di morte i proprietari del terreno, tanto è vero che in seguito a denuncia lo stesso era stato diffidato dai carabinieri. Apparentemente il Caputo si tranquillizzò ed i proprietari del terreno lo diedero in fitto al colone Nicola Fedele, di anni 50 da Aversa. Il predetto si organizzò per la semina del grano e trasportò anche un carico di letame per la concimazione.
Ma mentre l’incredulo colono assieme a due figli lavorava il terreno improvvisamente gli si parò di fronte il Caputo e proferendo minacce e ingiurie esplose un colpo di fucile a breve distanza allontanandosi subito dopo indisturbato. Sul posto vi erano oltre ai carabinieri anche alcuni contadini che stavano lavorando la terra in località “San Nazzaro”: Aniello Cannavale, da Casaluce; mentre sul fondo “Ponte Frascone”, condotto in fitto anche dallo stesso Caputo, vi si trovavano due braccianti: Giovannina Pagliuca, di anni 18 e Domenica Graziano di anni 17, entrambe da Teverola. Ricercato dai carabinieri - il Caputo che si era dato alla latitanza -  tra le campagne, fu invece individuato dal guardiano giurato, Vincenzo Giorgio Pieretti, che lo condusse presso la caserma dei carabinieri nonostante il Caputo – che non oppose alcuna resistenza – fosse in possesso del suo fucile caricato a pallini. Al suo primo interrogatorio il Caputo giustificò il suo gesto, asserendo di avere sparato un solo colpo per intimidire il Fedele,  in seguito alla minacce aveva messo in atto contro di lui impugnando una zappa. Lui aveva rivendicato il possesso del terreno che un tempo aveva condotto in fitto, perché   i proprietari gli avevano promesso che – nonostante il pignoramento – dopo aver pagato l’estaglio (cosa che aveva fatto) lo avrebbero riammesso nel possesso. La  circostanza fu confermata da tale Pasquale Iovine che si trovava nei pressi del luogo del delitto. Pertanto Pietro Caputo venne denunciato per l’omicidio di Nicola Fedele.


La difesa riuscì a capovolgere l’accusa: da omicidio volontario venne derubricato in preterintenzionale e successivamente riconosciuta la  legittima difesa

Mentre il giudice istruttore del tribunale di Santa Maria Capua Vetere procedeva alla rituale istruttoria, l’avvocato Ettore Pianese, nell’interesse delle parti civili, inoltrava una missiva al magistrato per evidenziare alcuni punti della dinamica del delitto, indicava una serie di circostanze e di fatti e individuava alcuni testimoni. Vincenzo Sangiuliano, da Parete  e Francesco Pisciotta, da Aversa, avevano ceduto in fitto, per conto delle rispettive mogli, che ne erano  le proprietarie, il fondo in tenimento di Casaluce al Caputo e possono deporre sulle prepotenze da questi usato sugli atti giudiziari che furono costretti ad intimargli; sulle modalità dello sfratto; sulle minacce replicatamente fatte dall’imputato; sul contegno remissivo dei nuovi fittuari; e sulle pressioni esercitate dal Caputo e dai suoi familiari – prima e dopo il delitto. Per tali minacce e comportamenti vi erano in corso procedimenti penali presso la Pretura di Aversa che l’avvocato Pianese chiese di allegare al processo della Corte di Assise. Insomma, il Caputo, pretendeva a qualunque costo di rimanere sui fondi, pur non pagando l’estaglio, solamente per diritto di camorra, minacciando sia i padroni che chiunque avesse osato di fittare quel malaugurato pezzo di terreno.
Infatti, Umberto Gravina e Maria Pompella, da Aversa, fittuari assieme al povero Fedele, potranno dire che appena preso possesso del fondo fu necessario l’intervento dei carabinieri di Teverola in quanto il Caputo aveva lanciato larvate minacce: “Badate, vi siete preso il fondo ma non lo seminerete. Uno di noi deve rimanere i figli in mezzo alla strada: o voi od io”.
Che – scrivevano i carabinieri - malgrado il contegno remissivo ed appaurato dei nuovi fittuari, dai quali il Caputo aveva preteso ed ottenuto anche dei servigi, si recava, per intimorirli, sempre nella terra armato di fucile, minacciando in continuazione; o che, avendo il Gravino od il Fedele fatto offerta di andarsene, per paura di vedere effettuate le minacce del Caputo, questi pretendeva che addirittura non coltivassero la terra sperando così di indurre i proprietari a cedere alle suo pressioni continue, e durate anche quando il fondo non gli apparteneva più.
Raccapricciante la deposizione di Vincenzo  Marrandino - sul cui biroccino trasportò all’ospedale la povera vittima – un fatto brigantesco inaudito, un delitto compiuto con cinismo unico più che raro, sotto gli occhi esterrefatti dei figlioletti della vittima, che alla minaccia di morte si era dichiarato pronto ad andarsene ed aveva invocato pietà per i sette suoi figli, ma che cadde, crivellato dal piombo assassino, e  minacciato ancora di peggio.
Il 19 febbraio del 1929, a chiusura dell’istruttoria, il Procuratore del Re chiese il rinvio a giudizio dell’imputato escludendo però la premeditazione. L’8 aprile gli avvocati difensori presentarono un foglio di lume eccependo: Prima cosa  che il Caputo non aveva avuto alcuna intenzione di uccidere ma solo di ferire Nicola Fedele; secondo la verità è ben altra. Caputo Pietro, il 18 ottobre 1928 verso le ore 12,  recandosi nel fondo “Lavinaio” in tenimento di Teverola, dal quale era stato sfrattato, ma sul quale  doveva raccogliere ancora le uve, trovò in detto fondo il nuovo fittuario Fedele Nicola. Poiché vi era già preciso impegno da parte di Fedele e dei proprietari, che Caputo avrebbe sempre mantenuto il possesso del fondo, non appena avesse pagato l’estaglio arretrato, e poiché ciò Caputo aveva fatto e Fedele ne era consapevole, si determinò una spiegazione circa la stabilita ripresa di possesso del fondo         da parte di Caputo, nella quale costui non aveva proprio alcun torto. La spiegazione si tramutò in diverbio, Fedele aggredì Caputo dicendo: ”Taggia zumpà na coscia”, come ha confessato, esplose in direzione delle gambe di Fedele un colpo di fucile che provocarono sulle gambe della vittima varie ferite.





Forse la causa del decesso fu anche per imperizia medica perché la vittima ferita alle gambe dopo essere stata dimessa decedette mentre raggiungeva la sua abitazione
Mentre il ferito veniva trasportato all’ospedale – passando pel comune di Casaluce – fu interrogato dal Pretore di Aversa, che ivi si trovava per ragioni di ufficio. All’ospedale di Aversa, medicato, mentre stava per essere licenziato dal Pio luogo si aggravò inaspettatamente, cessando di vivere. Il Caputo disse al Pretore testualmente prima di morire: ”Il Caputo a tal fatto mi ha conservato rancore fino al punto da spararmi. A breve distanza mi ha sparato presente mio figlio Raffaele”. Altri testimoni precisarono che il Caputo era stato minacciato dalla vittima e che fu sparato un solo colpo. Raffaele Barbato: “Improvvisamente sentimmo un colpo”. Giovanna Pagliuca: “Il Fedele levò la zappa contro Caputo che fattosi indietro, gli puntò contro il fucile e fece partire un colpo”. 
L’imputato subito dopo il fatto – come risulta dal verbale dei carabinieri – fu rimproverato da Aniello Cannavale, col quale si incontrò a breve distanza dal fondo. Cannavale riferì: “Vidi venire Pietro Caputo tutto sbigottito e col fucile addosso. Mi disse che un momento prima aveva sparato un colpo contro Nicola Fedele. Avendolo io rimproverato mi rispose: E’ una sciocchezza, perché il colpo era a pallini e l’ho tirato alle gambe”.   
Il 17 aprile successivo, la Sezione di Accusa della Corte di Appello di Napoli rinviò  al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere,  Pietro Paolo Caputo,  accusandolo di omicidio volontario. La prima imputazione fu di omicidio volontario premeditato, poi i valenti difensori riuscirono a far derubricare il reato, prima in omicidio preterintenzionale, poi addirittura in legittima difesa.
Il 7 luglio del 1930  fu emessa la sentenza dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, presieduta dal giudice Libonati  e la condanna fu ad anni 8 di reclusione. In definitiva la difesa sostenne la non intenzione di uccidere, l’esplosione di un solo colpo e la derubricazione del reato da omicidio volontario ad omicidio preterintenzionale. In effetti la votazione dei giudici popolari sulla premeditazione fu “a maggioranza” un netto no! Gli avvocato impegnati furono: Ettore Pianese, Raffaele Ferrara, Tommaso Messore, Giovanni Porzio e  Luciano Numeroso.





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