Le donne
invisibili uccise in quarantena
Un
femminicidio a settimana dall’inizio dell’emergenza.
E il crollo
delle denunce
ROMA - Si chiamavano Larissa,
Barbara, Bruna, Rossella, Lorena, Gina, Viviana, Maria Angela, Alessandra,
Marisa, Zsuzsanna. Sono state uccise mentre l’Italia era serrata in casa, ma
per loro la casa è stata una trappola mortale. Assassinate da mariti, compagni,
padri, fratelli, addirittura figli e nipoti, in un crescendo, terribile, di
violenza domestica.
Undici
femminicidi in undici settimane. L’ultimo, davanti agli occhi di tre
bambini senza più parole: Susy, massacrata a coltellate dopo aver detto al
marito: «Domani andiamo dall’avvocato per la separazione, ricordatelo». Degli
uomini assassini alcuni si sono tolti la vita, tutti gli altri finiti in
manette. Il lockdown non è ancora finito del tutto, ma un dato è chiaro: la
quarantena delle donne è stata bagnata di sangue. Eppure i segnali c’erano fin
dall’inizio. L’allarme, subito, lo avevano lanciato i centri antiviolenza: nella
convivenza coatta le situazioni a rischio esploderanno.
Così è stato. E mentre in questi
due mesi tutti i reati, dalle rapine ai furti allo spaccio, sono diminuiti del
66 per cento, il numero dei femminicidi è rimasto, drammaticamente, “stabile”.
Ma sono invece i dati “per sottrazione” delle denunce mancate, e dei mancati
accessi ai centri antiviolenza, che ci raccontano quanto la segregazione anti
Covid abbia sepolto sotto una coltre di silenzio i veri dati della persecuzione
domestica contro le donne. Prigioniere, senza di via di fuga per il virus, dei
loro aguzzini, nell’impossibilità di denunciare, di fuggire, di chiedere aiuto
ai centri antiviolenza. Isolati, questi ultimi a causa della quarantena e alla
ricerca di altri luoghi sicuri dove ospitare le donne in fuga.
La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, sin dai primi di
marzo, era intervenuta d’accordo con la ministra per la famiglia Bonetti
chiedendo un monitoraggio costante alle forze dell’ordine e l’intervento dei
prefetti alla ricerca di case dove poter ospitare le vittime di violenza mentre
sulla app Youpol della polizia sono arrivate nell’ultimo mese 117 segnalazioni
di violenza domestica. Ma assai poco è stato fatto, denuncia la
giudice del tribunale di Roma, Paola Di Nicola. «Una ricerca del Cnr su 228
centri antiviolenza, afferma che da marzo a oggi, le richieste di primo accesso
ai centri sono calate del 50 per cento, mentre i contatti con le donne già
seguite sono diminuiti del 40 per cento.
Se
a questo si aggiunge che le denunce durante il lockdown sono calate del 50 per
cento in quasi tutte le procure, abbiamo chiaro il quadro di ciò che è
accaduto: le donne, non potendo uscire, hanno subìto senza più chiedere aiuto». E in
quelle case-prigioni, dice Di Nicola, è successo l’indicibile. «Chi veniva
picchiata una volta alla settimana, quando il marito si ubriacava, è stata
picchiata ogni giorno. Davanti ai figli, senza pietà. Oggi quindi dobbiamo
chiederci che cosa non ha funzionato».
Forse le vittime nell’isolamento
non si sono sentite tutelate. Se denuncio, dove potrò nascondermi? «Perché — chiede la giudice Di Nicola — non
sono state trovate nuove case rifugio dove inserire le donne in pericolo?
Perché non sono stati dati ai centri i tamponi prioritari? Perché non si
applica in modo più efficace l’articolo 384 bis, ossia l’allontanamento
d’urgenza dalla casa familiare dei persecutori? Ancora una volta, purtroppo, è
un fatto culturale. Da qualche parte si pensa ancora che il femminicidio sia un
reato inevitabile».
Riflette
Valeria Valente, presidente della commissione d’inchiesta sul femminicidio:
«Dall’inzio del lockdown abbiamo sottolineato il rischio che le donne non
riuscissero più a denunciare. Abbiamo chiesto, infatti, che fosse istituita la
chat del 1522, il numero dove chiedere aiuto. L’accesso ai centri è stato
difficoltoso, ma vorrei aggiungere che non sono mai stati chiusi e abbiamo
destinato loro tre milioni di euro con il “Cura Italia” E se i femminicidi per
fortuna non sono cresciuti, dice Valente, «è aumentata però come fenomeno la
violenza sommersa».
Larisa Smolyak. La vita in una
stanza con un figlio difficile
Povera Larisa, lasciata sola fino
all’ultimo e anche dopo. Ucraina, 49 anni, un figlio avuto a 20 anni da un uomo
che non lo aveva mai neanche voluto vedere, cercava in Italia una nuova vita
dopo lo shock del suicidio del compagno, con cui viveva nel suo Paese. E invece
aveva trovato la Sla, la povertà e nessun aiuto a gestire quel figlio, Andriy,
spesso violento e caduto in depressione, che il 4 marzo ha finito per
massacrarla con 40 coltellate e finirla con un colpo di portacenere in testa.
Quando già accusava grossi problemi
agli arti, Larisa sbarcava il lunario a fatica facendo l’estetista ma il
ragazzo, che era riuscito a trovare soltanto lavoretti saltuari, voleva sempre
soldi. E le sue reazioni ai rifiuti erano violente. Abitavano in una casa di
una sola stanza e inutilmente lei aveva chiesto assistenza ai servizi sociali
di Camaiore, in provincia di Lucca, dove viveva da alcuni anni. «Le avevano
detto che non c’erano gli estremi per un loro intervento», accusa il fratello
Juriy, che vive anche lui in Italia e che adesso non ha neanche i soldi per
riportare Larisa in Ucraina.
Barbara Rauch. In fuga dallo
stalker che la perseguitava
Un marito, una bimba di tre anni e
uno stalker che la perseguitava da anni e che aveva denunciato facendolo finire
agli arresti domiciliari ma che, una volta tornato libero, ha portato a termine
la sua vendetta. Barbara Rauch, Babsy, come la chiamavano, 28 anni, titolare
dell’elegante enoteca Bordeaux- kettler nel centro di Appiano, in provincia di
Bolzano, è stata uccisa il 10 marzo nel locale che aveva messo su con il
marito, Philip Carli, sommelier professionista che aveva sposato nel 2016. Ma
il matrimonio non aveva fatto desistere Lukas Oberhauser, 25 anni, figlio di un
noto cuoco titolare di un hotel nella vicina Vilpiano, dove la ragazza era
andata a fare uno stage facendosi molto apprezzare. Tra i due non c’era mai
stata nessuna relazione, ma Lukas la tormentava senza tregua. Telefonate,
appostamenti, minacce. Barbara si era decisa a denunciarlo e lo aveva fatto
arrestare. Lui era finito ai domiciliari, era sotto processo, ma le misure gli
erano state revocate ed era tornato libero da poco.
Bruna Demaria. La famiglia spezzata
dalla paura del virus
Tre vite stroncate dalla paura
folle del coronavirus, sotto una pioggia di colpi di pistola. Bruna, 60 anni,
impiegata nell’ufficio tecnico del Comune di Beinasco, nel Torinese, da quando
era andata in pensione, appena tredici giorni prima, non faceva altro che tener
testa con difficoltà all’angoscia del marito. Franco Necco, 65 anni, ex vigile
urbano in pensione conosciuto in tutto il paese, era ossessionato
dall’epidemia. Nella casa dove la coppia viveva con il figlio Simone, 29 anni,
attivista della Lega e disoccupato, non si parlava d’altro.
E il 13 marzo, Necco ha caricato e
ricaricato la sua pistola e fatto fuoco prima contro la moglie, poi contro il
figlio: venti colpi per lei, 17 per lui prima di chiamare il 112 e spararsi
anche lui. Qualche ora prima aveva mandato dei messaggi agli amici: «Quando
leggerete sarà tutto finito». Sul computer ancora aperto una lettera con la
spiegazione del suo gesto: «Ho paura del coronavirus e dell’agonia di tutta la
famiglia». Il terrore per il futuro del figlio che non riusciva a trovare un
lavoro.
Rossella Cavaliere. Aveva chiesto
aiuto solo il giorno prima
Solo 24 ore prima di essere uccisa
da suo figlio con cinque colpi di coltello a serramanico Rossella Cavaliere, 51
anni, di San Vito dei Normanni in provincia di Brindisi, aveva chiamato il 118.
Andrea, 23 anni, il più piccolo dei due figli con cui era rimasta a vivere dopo
la separazione dal marito, era incontrollabile.
Il 18 marzo, a pochi giorni
dall’inizio del lockdown, voleva assolutamente uscire di casa per andare a
raggiungere il suo giro di amici, e la madre e la sorella facevano fatica a
trattenerlo.
«Mio fratello è depresso e
psicologicamente fragile», ha detto la ragazza agli operatori del 118 che gli
hanno somministrato un tranquillante. Ma la sera dopo la furia di Andrea
Asciano è diventata incontenibile. Per tutto il giorno i vicini avevano sentito
urlare in casa. Poi il ragazzo è andato a dormire ma nel corso della notte si è
alzato e impugnando il coltello si è avventato contro la madre colpendola
cinque volte al torace. Un rapporto burrascoso da anni quello tra Rossella e il
figlio, instabile e violento con piccoli precedenti penali.
Lorena Quaranta. L’accusa assurda:
“Mi ha contagiato"
Ha usato il Covid come alibi per
ucciere la sua ragazza lAntonio De Pace, studente in odontotecnica e infermiere
28enne calabrese. Una bugia reiterata dai suoi familiari: aveva paura di
ammalarsi. «Lorena mi ha attaccato il coronavirus e io ho contagiato tutta la
famiglia», ha biascicato al primo interrogatorio il 31 marzo dopo aver
ammazzato Lorena Quaranta, 27 anni di Favara, laureanda in medicina con cui
viveva in un paese del Messinese. Ma non era vero.
L’ha uccisa dopo giorni in cui lui
si rifiutava di andare al lavoro per paura di contrarre il virus. Quella sera
alle nove hanno cominciato a litigare e Antonio l’ha uccisa alle quattro del
mattino dopo averla colpita prima a calci e pugni, poi con una lampada, infine
con un coltello a seghetto per poi finirla strangolandola. In serata lei aveva
salutato la sua famiglia con una videochiamata. Nulla che lasciasse presagire
la tragedia. La coppia — secondo le testimonianze di amici e parenti — «non
aveva particolari problemi».
Gina Lorenza Rota.
Omicidio-suicidio sul divano di casa
Un solo colpo alla tempia della sua
donna, seduta accanto sul divano di casa, prima di spararsi anche lui. Così
Terens Cacici, 38 anni, un uomo
possessivo e violento, ha ucciso Gina Lorenza Rota, 52 anni e due figli avuti
da una precedente relazione. Gina continuava a lavorare nel negozio di tende
del suo ex marito, cosa che Terens le rimproverava in continuazione,come se lei
dovesse cancellare del tutto la sua vita precedente.
Terens e Gina li hanno trovati
morti il 2 aprile nell’appartamento che dividevano a Rho, nel Milanese.
Tutti sapevano di quel rapporto
assai difficile e complicato, ma Gina non aveva mai denunciato alcuna violenza
da parte del giovane compagno, che aveva qualche piccolo precedente per droga.
Sembra che la sera del delitto lui
non le avesse messo le mani addosso. Nessun segno di violenza o di
colluttazione, solo un foro di pistola alla tempia prima per lei e subito dopo
anche per lui, trovato morto con la pistola ancora in mano.
Viviana Caglioni. Sua madre diceva:
“È solo una caduta”
L’ha presa a calci e pugni per ore,
picchiandola dalla testa ai piedi, l’ha spedita in coma all’ospedale cercando
di far passare quella brutale aggressione per una banale caduta,
incredibilmente supportato dalla madre di lei con cui la coppia viveva in una
villetta di Bergamo insieme ad uno zio. Viviana Caglioni, 34 anni, ha resistito
per una settimana, poi il 6 aprile è morta. E il 25 aprile il suo compagno Cristian
Michele Locatelli, 42 anni, è stato arrestato.
Geloso per una antica relazione
della donna con cui viveva da soli sei mesi, una sfilza di precedenti penali,
l’uomo ha aggredito la compagna con un calcio alla testa , poi ha continuato a
tempestarla mentre lei cercava di ripararsi dai colpi. Dopo la sua morte, ha
fatto di tutto perché venisse cremata con urgenza, ma non ci è riuscito. E la
testimonianza dello zio, che era presente in casa, seppure in un altro piano,
la sera dell’aggressione, ha rivelato che Viviana non era certo morta per una
caduta accidentale. Come pure aveva tentato di far credere sua madre.
Maria Angela Corona. Due killer
stranieri pagati dalla nipote
Ha pagato due stranieri per
assassinare sua zia. Maria Angela Corona, 47 anni di Bagheria, l’hanno trovata
strangolata,fatta a pezzi e avvolta in un sacco dell’immondizia; era stata
gettata in un dirupo nelle campagne della Sicilia.
Un terribile delitto per vendetta
ordinato dalla nipote, Maria Francesca Castronovo, 39 anni, che da quella zia
dice oggi di aver sempre subito violenza. Per ultima un’aggressione con una
pentola di acqua bollente, che le avrebbe provocato ustioni tanto gravi da
farla ricoverare in ospedale. L’ultima lite sarebbe avvenuta il giorno di
Pasquetta, il 13 aprile scorso. Ventiquattro ore dopo, Maria Angela Corona non
ha fatto più ritorno a casa.
Ai carabinieri, la nipote ha detto
che, pur di farla finita con anni di angherie e maltrattamenti che avrebbe
subito da parte della zia, avrebbe pagato 100 mila euro in contanti ai due
extracomunitari (anche loro arrestati) per convincerli a commettere il delitto.
«Erano soldi con cui avrei dovuto comprarmi una casa».
Alessandra Cità. Ospitava il
partner durante il lockdown
Alessandra Cità, siciliana
d’origine, 47 anni, guidava il tram a Milano.La sua linea era la 27 e la
conoscevano tutti. A casa sua, a Trucazzano, ospitava per la quarantena il
compagno che l’ha uccisa. Con Antonio Vena, suo coetaneo e originario anche lui
di Ganci, sulle Madonie, aveva una relazione che durava da nove anni, ma si
vedevano solo per il weekend. Lui viveva e lavorava a Bressanone, ma durante il
lockdown, visto che il lavoro nell’azienda in cui prestava servizio si era
fermato, Alessandra aveva deciso di farlo stare da lei. Il 19 aprile l’uomo ha
preso un fucile a pompa che Alessandra deteneva legalmente e le ha sparato dopo
una violenta lite. Poi si è presentato ai carabinieri e ha detto: «L’ho uccisa
per motivi di gelosia». E non era la prima volta che maltrattava una donna.
Aveva precedenti per violenza a carico della ex moglie, dalla quale aveva avuto
un figlio. La donna lo aveva denunciato due volte. Recentemente l’aveva seguita
in auto tamponandola e facendola uscire fuori strada.
Marisa Pireddu. L’arma del delitto
costruita dal marito
Sembra che suo marito, Giovanni
Murtas,57 anni, falegname, abbia realizzato con le sue mani l’arma del delitto,
una lama sottile a affilata con cui martedì scorso, il 5 maggio, l’ha colpita
una quarantina di volte. Marisa Pireddu, 51 anni, ha tentato in modo disperato
di difendersi dalla furia del marito che ha poi tentato il suicidio.
Il delitto è avvenuto in casa a
Serramanna, nel Sud Sardegna. L’uomo era psicologicamente molto provato dalla
quarantena, tanto che era stato multato un paio di volte per essere stato
trovato fuori casa senza nessuna valida giustificazione. A diversi amici aveva
manifestato la sua intolleranza per le limitazioni dovute al coronavirus e
probabilmente aveva anche litigato con la moglie, che cercava di trattenerlo a
casa. «Il Covid è un complotto del governo per far stare la gente a casa»,
gridava. I vicini, negli ultimi tempi, li avevano sentiti litigare
violentemente, ma sembra che prima l’uomo non avesse mai avuto comportamenti
violenti con la moglie. La coppia viveva con un figlio di 29 anni.
Zsuzsanna Mailat. Colpita alla gola
davanti ai bambini
«Ho ucciso Susy». Così Gianluca
Lupi, 41 anni, ha risposto al sindaco di Milzano (Brescia) Massimo Giustiziero,
che il 9 maggio, allarmato da urla più alte del solito, è andato a suonare alla
porta dell’appartamento dove l’uomo, commerciante di surgelati, viveva insieme
alla moglie, Zsuzsanna Mailat, 39 anni, di origine romena, casalinga, e ai loro
tre figli, il più piccolo di tre anni, disabile, una bambina di otto e la più
grande di 15. Un delitto atroce, una coltellata alla gola, commesso sotto gli
occhi della ragazzina che è stata trovata dai carabinieri con gli abiti pieni
di sangue mentre cercava invano di soccorrere la madre. «È il sangue di mamma»,
le strazianti parole della figlia.
Un rapporto compromesso. Susy aveva
deciso di andarsene e sembra avesse trovato una nuova casa. «Domani dobbiamo
andare dall’avvocato per la separazione, ricordati», gli avrebbe detto
scatenando l’ennesima violenta lite sotto gli occhi atterriti dei tre bambini.
«Ci stavamo separando e litigavamo, mi ha insultato e ho perso la testa»,
Fonte:
La Repubblica 12 maggio 2020 / articolo di
MARIA NOVELLA DE LUCA e ALESSANDRA ZINITI
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