L'effetto paradosso della "giustizia
ingiusta"
La lentezza è di per sé un'ingiustizia. Non è solo
questione di efficienza giudiziaria, ma riguarda le libertà personali e i beni.
Se volessimo esagerare, diremmo che è un paradosso davvero grande
l'accostamento ormai frequente dell'ingiustizia alla giustizia.
Stiamo parlando della giustizia specificamente
intesa come processo giudiziario. Affermare che la giustizia dev'essere giusta
e che persiste una giustizia ingiusta non costituisce tuttavia un paradosso
vero e proprio, qualcosa di contrario all'opinione o al modo comune di pensare.
Non è una stranezza inaspettata la giustizia
ingiusta, ma una constatazione sulla bocca di tutti, eccetto i magistrati che
certamente rendono giustizia senza intenzioni ingiuste e senza volontà di farne
apparire ingiusti i risultati. Un fatto è che i custodi della legge sono gli
unici irresponsabili della lentezza con la quale l'applicano. Un secondo fatto
è che la lentezza della giustizia è causata soprattutto da chi deve o ricorrevi
o subirla. Un terzo fatto è che son troppi i casi in cui la lentezza della
giustizia fa comodo a molti.
Un quarto fatto è che una giustizia lenta è di per
sé un'ingiustizia, a prescindere da ogn'altra considerazione legale o fattuale,
sebbene agli "utenti" (sic!) danneggiati dai ritardi siano
contrapposti i beneficati, per i quali la disfunzione non esiste.
Pare inutile chiarire e ribadire che la lentezza
della giustizia non è solo questione di efficienza giudiziaria, ma concerne la
libertà individuale e i beni personali. (Efficienza ed efficacia per me pari
sono: chi le vuol distinguere deponendo il rasoio di Ockam, impugni il
vocabolario). Così il problema è sempre stato considerato dalle nazioni civili,
cioè quelle che sanno contemperare il tempo e l'efficacia del processo.
Nel 1215 la "Magna Charta" sanzionò
"quale rimedio definito e pratico", con la forma e la sostanza di un
provvedimento tecnico, la clausola 29 sulla giustizia: "Nessun uomo libero
sarà arrestato, imprigionato, spossessato del suo stato giuridico, delle sue
libertà o libere usanze, messo fuori della legge, esiliato, molestato in nessun
modo e noi non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù
di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese. Noi non
venderemo, né rifiuteremo o differiremo a nessuno il diritto e la
giustizia".
Pure nella Repubblica del Leone vigevano
disposizioni dettate dalla serissima preoccupazione di conformare tempi e
processi, specialmente per garantire la libertà dei cittadini. Infatti gli
antichi dogi di Venezia, all'atto dell'elezione, assumevano una serie
d'impegni, chiamati "promissioni", verso lo Stato e verso il popolo.
Tra queste "promissioni" se ne ricorda una del 1275, dunque quasi
coeva della "Magna Charta", che obbligava personalmente il doge
"a vigilare affinché tutti i detenuti fossero giudicati entro il termine
massimo di un mese dall'arresto".
Nel corso dei secoli, Britannici e Italiani hanno
preso strade diverse. Come prova evidente della loro divaricazione, torna
istruttivo un aneddoto di cui sono protagonisti due grandi processualisti.
Ricordava Salvatore Satta nella prefazione alla quinta edizione del suo
manuale: "Mi raccontava Calamandrei che una volta, recatosi in Inghilterra
e sorpreso dall'empirismo processuale di quei giuristi (e, in perfetta
corrispondenza, della totale ignoranza della nostra scienza) si mise ad esporre
ad un altissimo giudice i nostri sistemi. Il buon uomo stette ad ascoltarlo
interessato, poi gli chiese ingenuamente: ma con tutte queste belle cose, le
vostre sentenze sono migliori delle nostre? Il discorso naturalmente non poté
continuare".
L'aneddoto spinge a concludere sullo spunto
iniziale. Esiste "l'effetto paradosso", il fenomeno per cui oltre una
certa soglia l'intervento ottiene risultati opposti. Capita appunto in Italia,
dove leggi, leggine, provvedimenti, circolari, ordini, emanati dal Parlamento,
dal Ministero, dal Consiglio superiore della magistratura per accelerare la
giustizia, e renderla giusta al meno in questo, finiscono immancabilmente per
rallentarla o, al più, lasciarla com'è.
Fonte: di
Pietro Di Muccio De Quattro/ Il Dubbio, 8 agosto 2020

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