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sabato 17 aprile 2021

 SPECIALE ERGASTOLO OSTATIVO 

Ergastolo ostativo incostituzionale. È un punto di non ritorno ma un anno passerà invano


di Andrea Pugiotto


Il Riformista, 17 aprile 2021

 

Ora la palla è nel campo di un legislatore fino ad oggi riluttante a intervenire e che tale si confermerà anche in futuro, come già accaduto nel "caso Cappato". Toccherà allora ai giudici costituzionali dichiarare formalmente ciò che già oggi avrebbero potuto dichiarare, se solo avessero scelto di anteporre a tutto la funzione contro-maggioritaria cui è chiamato il Giudice delle leggi.

1. Troppo, per alcuni. Non abbastanza, per altri. Si dividono così le reazioni al comunicato stampa di ieri che anticipa la decisione della Consulta sull'ergastolo ostativo alla liberazione condizionale. Ne suggerirei un'analisi sine ira et studio in attesa di leggere, nelle prossime settimane, la sola cosa che conti davvero: il testo dell'ordinanza votata dai giudici costituzionali all'unanimità (stando ai si dice del Corriere della Sera).

2. Il dato di fondo da cui partire è nell'incipit del comunicato: "Ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione". Il fi ne (rieducativo) della pena, infatti, esige la fine della pena. Perché un diritto penale liberale - come recita l'omonimo manifesto redatto dall'Unione delle Camere penali - "non ammette pene perpetue, trattamenti inumani o degradanti, presunzioni di pericolosità ostative della funzione risocializzante della pena". Sono principi scolpiti nella giurisprudenza della Corte costituzionale che, fedele a sé stessa, applica oggi a un ergastolo altrimenti senza scampo. Si riconosce così un diritto alla speranza che non può negarsi a nessun condannato a vita, se non se ne vuole negare la dignità. Il diritto, cioè, di domandare l'accesso alla liberazione condizionale, dopo almeno 26 anni di detenzione, "quando il suo ravvedimento risulti sicuro" (così il comunicato stampa). Si badi: domandare, non è sinonimo di ottenere. La concessione del beneficio, infatti, resterà condizionata ad un'approfondita e prudente valutazione giurisdizionale di tutti i presupposti che la legge richiede (o richiederà). Stracciarsi le vesti come sacerdoti nel sinedrio, perché così si minerebbero le sacrosante esigenze di difesa sociale, equivale a una mozione di sfiducia verso i giudici di sorveglianza, già chiamati quotidianamente a decisioni altrettanto difficili e pericolose. Significa anche ignorare che - dati alla mano - un percorso trattamentale aperto a misure alternative alla detenzione mira, in ultima analisi, ad impedire la recidiva e così a proteggere davvero la società. L'alternativa di un carcere a vita, cioè fino alla morte, può animare indispettiti tweet di politici adusi al bullismo penale. Può abitare il risentimento di alcuni familiari di vittime illustri, che meritano rispetto e comprensione fino a quando non pretendono di farsi fonte normativa. Ma una pena perpetua - ci ricorda oggi la Consulta - non ha cittadinanza in Costituzione.

3. L'incostituzionalità così accertata, però, non si traduce in un "accoglimento immediato". La Corte, infatti, ha pronunciato un'ordinanza interlocutoria, non una sentenza di annullamento delle norme impugnate, preferendo differirne al maggio 2022 la formale dichiarazione. È la tecnica della c.d. incostituzionalità prospettata, forgiata per la prima volta nel noto "caso Cappato": ora come allora, impossibile non acclarare l'illegittimità della normativa in vigore ma, nel contempo, difficile rimettere in equilibrio tutti gli interessi costituzionali in gioco attraverso l'intervento autonomo della Consulta. "Occorre un intervento legislativo". Da qui l'escamotage di rinviare la questione di un anno, chiamando il Parlamento a intervenire nel rispetto della Costituzione. Un Parlamento messo però in mora: se non lo farà nel termine indicato, sarà la Corte a rimuovere l'incostituzionalità cui non è stato posto legislativamente rimedio. Il comunicato riassume - cripticamente - le ragioni che hanno indotto la Consulta a optare per una simile tecnica, riconducibili al timore, esplicitato, che un accoglimento immediato della quaestio rischierebbe di inserirsi "in modo inadeguato nell'attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata".

4. Per quanto solo prospettata, l'incostituzionalità dell'ergastolo ostativo segna, comunque, un punto di non ritorno. La sua disciplina - si legge - "è in contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione e con l'art. 3 della CEDU". L'uso verbale del modo indicativo ("è in contrasto") non lascia adito a dubbi di sorta. Non si equivochi il passaggio successivo, circa la decisione della Consulta di "rinviare la trattazione delle questioni" ad altra udienza da convocarsi nel maggio 2022. Non ci sarà, allora, spazio alcuno per rimettere in discussione quanto ora già accertato e già comunicato. Semmai, in quell'occasione, potranno essere trattate altre questioni rimaste in sospeso. Ad esempio, l'incostituzionalità dell'attuale preclusione alla liberazione condizionale (anche) per tutti gli altri reati ostativi, come pure l'incostituzionalità della preclusione (anche) alle misure extra-murarie del lavoro all'esterno e della semilibertà.

È nei poteri della Corte dichiararne l'incostituzionalità, a seguito dell'accoglimento della questione principale esaminata. Anche questa tecnica ha un nome: incostituzionalità consequenziale. La Corte ne ha fatto uso nella nota sent. n. 253/2019, generalizzando l'accesso ai permessi premio a chiunque abbia subito una condanna (perpetua o temporanea) per uno qualunque dei reati ostativi inclusi nella blacklist dell'art. 4-bis, 1° comma, dell'ordinamento penitenziario. È una tecnica che però presuppone una formale sentenza d'accoglimento, non un'ordinanza interlocutoria come quella odierna. Ma, una volta scaduti inutilmente i tempi supplementari concessi al legislatore, per i giudici costituzionali ne sarà fattibile la "trattazione".

5. Avevo già segnalato su queste pagine (Il Riformista, 20 marzo 2021) perché la Corte avrebbe fatto bene a non cedere alla tentazione di rinviare la decisione richiesta ad altra udienza lontana nel tempo: Salvatore Pezzino, e tutti gli altri ergastolani ostativi in condizione di chiedere (e magari ottenere) la fine di una pena senza fine, sono in galera da decenni. L'anno supplementare concesso a un legislatore accidioso ne allungherà indebitamente la reclusione.

È la contraddizione segnalata da molti: la Consulta tiene in vita, sia pure artificialmente, una disciplina incostituzionale. In termini di principio, il rilievo è di spessore. Inviterei, tuttavia, a non perdere di vista il momento dell'applicazione normativa, dove Pezzino e gli altri - da qui al maggio 2022 - non avrebbero mai riacquistato la libertà. Sulla base della costante giurisprudenza di legittimità, infatti, la liberazione condizionale sarebbe stata comunque in concreto loro negata, in ragione dell'assenza di previe positive esperienze extramurali. Il percorso trattamentale, infatti, ha una sua gradualità che, come in natura, non ammette salti. Il permesso premio è la sua prima tappa, la liberazione condizionale è l'ultima. Non è da escludere che, di ciò, i giudici costituzionali abbiano realisticamente tenuto conto.

6. Resta, invece, il nodo della violazione dell'art. 3 CEDU: come già la Corte di Strasburgo nel 2019, così oggi la Corte costituzionale ne accerta l'incompatibilità con l'ergastolo ostativo. Ma, evitando di rimuoverlo con effetti generali immediati, non vi pone rimedio. Persiste, così, il problema della conformità del comportamento del nostro Stato rispetto alla doverosa esecuzione della sentenza Viola c. Italia n°2, ancora inevasa. Problema grave, perché l'art. 3 CEDU proibisce in termini assoluti e incondizionati pene inumane e degradanti, indipendentemente dalla natura dei reati così sanzionati. Secondo la Corte europea, è vero, la soluzione al problema impone una riforma dell'ergastolo ostativo "di preferenza per iniziativa legislativa". Trattandosi però di un dovere gravante su tutti i poteri statali (Corte costituzionale compresa), la quaestio in esame poteva essere l'occasione giusta per rimediare alla persistente condizione di illegalità. Così non è stato.

7. Ora la palla è nel campo di un legislatore fino ad oggi riluttante a intervenire e che tale si confermerà anche in futuro, come già accaduto nel "caso Cappato". Accetto scommesse. Toccherà allora ai giudici costituzionali dichiarare formalmente ciò che già oggi avrebbero potuto dichiarare, se solo avessero scelto di anteporre a tutto la funzione contromaggioritaria cui è chiamato il Giudice delle leggi, specialmente quando in gioco è la libertà personale.



Io dico: brava Consulta. Ora riduciamo le pene e il numero dei detenuti: non più di 15 mila


di Guido Neppi Modona


Il Riformista, 17 aprile 2021

 

La Corte ha dichiarato che il Fine Pena Mai non è costituzionale e giustamente ha lasciato al legislatore un anno di tempo per realizzare tutte le modifiche di legge che sono necessarie.

Con un comunicato stampa del 15 aprile la Corte costituzionale ci ha messo al corrente che sta esaminando una delicatissima questione relativa ai condannati all'ergastolo per reati di mafia; in particolare quei condannati che, non avendo collaborato con la giustizia, non possono usufruire della liberazione condizionale, cioè della possibilità di essere messi in libertà dopo avere scontato 26 anni di pena. Più in generale il divieto vale anche per l'ammissione agli altri benefici penitenziari, quali semilibertà, lavoro all'esterno, liberazione anticipata.

Quanto ai permessi premio, il divieto era già stato dichiarato illegittimo dalla sentenza della Corte n. 253 del 2019, nel caso in cui, sia pure in assenza della collaborazione con la giustizia, fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata. Come si vede, la disciplina in materia è tutt'altro che semplice, anzi direi che è piuttosto contorta. Il tema è quello del cosiddetto ergastolo "ostativo", frutto velenoso delle varie stagioni dell'emergenza vissute dal diritto penale a partire dai primi anni Novanta.

Frutto velenoso perché, in assenza di collaborazione con la giustizia, impediva ai condannati all'ergastolo di accedere ai benefici penitenziari, anche se avevano dato prova di sicuro ravvedimento. Ma soprattutto per la ragione di fondo che i divieti di accesso ai benefici penitenziari erano collegati alla pericolosità astratta di reati particolarmente gravi, senza prendere in considerazione la situazione personale dei condannati.

Poteva cioè accadere che l'accesso ai benefici penitenziari venisse rifiutato a un condannato all'ergastolo che aveva già scontato 20 o 30 anni di pena sulla sola base della astratta pericolosità dei reati commessi, anche se ormai era persona completamente diversa rispetto al momento in cui aveva commesso il reato, se non era più socialmente pericoloso, se era più che meritevole di essere riammesso nella società libera. L'ergastolo "ostativo" era dunque l'unica pena perpetua, "a vita", esistente nel sistema penale, mentre il condannato all'ergastolo "ordinario" dopo avere scontato almeno 26 anni di pena può esser ammesso alla liberazione condizionale quando abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento.

Ebbene, nel suo comunicato la Corte preannuncia che la disciplina dell'ergastolo ostativo è costituzionalmente illegittima, perché in contrasto, tra l'altro, con i principi costituzionali secondo cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbono tendere alla rieducazione del condannato", e con l'art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, che pone il divieto di "pene o trattamenti inumani o degradanti".

L'abolizione dell'ergastolo, propugnata e attesa da decenni dalla stragrande maggioranza degli studiosi e degli operatori di diritto penale e di diritto penitenziario, è una svolta di grande rilievo, che comporta incisive ricadute sull'intero sistema delle pene e sulla stessa organizzazione penitenziaria. La Corte ha opportunamente avvertito l'esigenza di rinviare per un anno, sino a maggio 2022, la decisione ufficiale sulla incostituzionalità dell'ergastolo, per consentire al legislatore di predisporre i necessari interventi legislativi che tengano conto "della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso e delle relative regole penitenziarie", ed anche per "preservare" gli eccezionali vantaggi processuali in tema di contrasto e di repressione della criminalità organizzata conseguiti grazie ai collaboratori di giustizia.

Vari commentatori hanno sollevato critiche e manifestato insoddisfazione per la dilazione della decisione della Corte, rilevando che in altre occasioni la stessa Corte aveva insistito sugli ampi poteri del magistrato di sorveglianza di valutare in concreto il percorso di rieducazione e risocializzazione dei condannati all'ergastolo ai fini della concessione dei benefici penitenziari. Ritengo che la Corte abbia agito saggiamente manifestando il proposito di coinvolgere il Parlamento negli interventi legislativi conseguenti all'abolizione dell'ergastolo, senza scaricare unicamente sui magistrati di sorveglianza la responsabilità di concedere o rifiutare l'accesso ai benefici penitenziari.

Al riguardo si deve tenere presente che i condannati all'ergastolo sono attualmente circa 1.750, concentrati in pochi istituti penitenziari, per cui la competenza a esaminare le loro posizioni risulterebbe concentrata su un numero ristretto di sedi della magistratura di sorveglianza, insufficienti per valutare in tempi brevi la situazione giuridica di centinaia di ex ergastolani.

Ma i motivi della dilazione della Corte non si esauriscono in questi tutt'altro che marginali profili organizzativi. L'abolizione dell'ergastolo avrà ricadute sull'intero sistema sanzionatorio, che dovrà essere sottoposto ad una profonda revisione per rendere l'attuale misura delle pene dei singoli reati proporzionata ad un tetto massimo che per i reati più gravi non sarà più l'ergastolo, ma trenta anni di reclusione.

Lavoro di revisione di grande complessità, che spetta necessariamente al potere legislativo e che potrebbe essere l'occasione per riservare la pena carceraria ad una ristretta categoria di reati di particolare gravità e di condannati socialmente molto pericolosi, prevedendo nella legge penale una vasta gamma di sanzioni alternative alla pena detentiva. Nello stesso tempo si conseguirebbe l'obiettivo, che i cultori di diritto penale invano predicano da decenni, di un carcere popolato da non più di 10-15.000 detenuti, destinatari di programmi e percorsi di effettivo recupero e risocializzazione.


Sull'ergastolo la Corte ha letto la Costituzione, ora non si perda tempo


di Adriano Sofri


Il Foglio, 17 aprile 2021

 

Nessuno poteva dubitare che l'ergastolo cosiddetto ostativo fosse incostituzionale. Nessuno che sia capace di leggere l'articolo 27 della Costituzione, nella frase che dice: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". (La Corte costituzionale le ha aggiunto l'art. 3, dove dichiara tutti i cittadini uguali davanti alla legge). Pronunciamenti precedenti della stessa Corte, sui permessi agli ergastolani "ostativi", e della Corte europea dei diritti dell'uomo avevano già segnato la strada.

Alla vigilia - lunga, protratta - della decisione della Corte, si erano accanitamente spese fame meritate o usurpate di nemici della mafia, forti soprattutto dell'argomento che fa dei fedeli alla Costituzione, e soprattutto alla concezione che la ispira, altrettanti complici della mafia.

Piuttosto spiritosamente, un giurista di peculiare competenza aveva segnalato, giorni fa, lo zelo che attribuiva una "disinvolta inconsapevolezza dell'estrema insidiosità del fenomeno mafioso, da cui sarebbero affette, secondo una certa vulgata, Corte europea dei diritti dell'uomo, Corte di cassazione, Corte costituzionale, Avvocatura dello stato, nonché magistratura di sorveglianza e accademia".

Dunque la Corte costituzionale, dichiarando incostituzionale l'ergastolo detto ostativo, non ha fatto che leggere la Costituzione. Il cuore della sua pronuncia investe la condizione esclusiva che la legislazione di emergenza fissa alla inesorabilità dell'ergastolo: la "collaborazione". La "collaborazione", anche se la memoria dei suoi significati sembra essersi perduta, può essere uno strumento sporco e prezioso per combattere e punire il crimine, ma non è affatto il criterio del "ravvedimento" né della "rieducazione" né della "risocializzazione".

L'eredità sciagurata della categoria del "pentimento" pesa su questa norma che si vuole tassativa. Il "collaboratore" può avere un'anima di criminale ancora più falso e indurito, e il non collaboratore può avere oltre che motivazioni esteriori cogenti - la difesa dei propri dalle rappresaglie, o la mancanza di cose da svelare e così via - il rifiuto di accusare quando non ci sia più una minaccia da sventare. La "collaborazione" obbligatoria è una lusinga e un abuso della coscienza. Sono altri, e ben più impegnativi, i modi di valutare il cambiamento delle persone, e i ripari dagli inganni.

Ed ecco che, nel momento in cui dichiara ciò che era evidente, l'incostituzionalità dell'ergastolo senza scampo, la Corte proroga di un altro anno la pratica incostituzionale e passa la mano al Parlamento. Voglio immaginare che non si tratti di pusillanimità, di una concessione fatta agli anatemi dei professionisti e all'opinione incattivita. Né alla dolorosa sensibilità dei prossimi delle vittime dei reati implicati (non sempre e solo di mafia), consacrata e stravolta nella frase: "L'hanno ucciso un'altra volta". Penso che nella Corte abbia prevalso, a differenza che nel "caso Cappato", del suicidio assistito, solo apparentemente simile, una scelta filosofica, per così dire, di filosofia morale: il gradualismo.

L'attenzione, cioè, a raggiungere un traguardo, che pure si è fissato senza incertezze, dolcemente, così da evitare il contraccolpo di una rottura brusca. Di temporeggiare e accompagnare l'attuazione, come si fa in una premurosa e paziente riabilitazione dopo una frattura. Magnanima scelta, non vile. Adeguata, efficace? La Corte è fatta di persone che conoscono il mondo, basta vedere con quale libertà e saggezza si esprimono quando emeritamente ne escono.

Non cade dalle nuvole. Non quando il partito maggioritario nei sondaggi commenta la sua ordinanza proclamando che non se ne parla nemmeno, "di mafiosi e assassini" (sic!), così proclamando nullo e destituito il massimo organo di controllo della legittimità democratica. La stessa svelta decisione di ignorare la raccomandazione della Corte esprimono i notabili del primo partito del parlamento vigente, con la competenza che è loro peculiare e che ha messo nelle loro mani destre e sinistre il governo della giustizia negli ultimi anni.

Quanto al principale partito d'opposizione del vigente governo, non occorre dire. La Corte ha passato a un Parlamento affollato alla rinfusa sui ponti di un naufragio una patata bollente, una bomba a orologeria, o qualunque altra formula convenga al gergo corrente, sapendo che il parlamento: o non ne farà niente, e l'anno che sarà trascorso non avrà anestetizzato l'operazione da completare; o ne farà qualcosa di grottescamente cavilloso, ridicolizzando sé e la Corte; o semplicemente si scioglierà prima che l'anno scada.

In tutto ciò, l'attenzione è stata ancora una volta deviata sull'eccezione italiana, la criminalità organizzata, le mafie, la mafia. In Italia la legge è uguale per tutti, tranne i mafiosi. La Costituzione, ha detto ieri un notorio magistrato, non poteva prevedere che si sarebbe dovuto fronteggiare la mafia. I padri e le madri costituenti, infatti, erano reduci da una vacanza al mare di una ventina d'anni, genocidi guerra mondiale e guerra civile compresi. La questione vera, l'insopportabilità di una pena legale che pretende di dire l'ultima parola, è semplicemente elusa. Perfino nella situazione paradossale italiana in cui gli ergastoli detti ostativi sono la maggioranza, dunque la norma e non l'eccezione.

Ci sono paesi dall'orribile pratica penale e penitenziaria, come gli Stati Uniti, in cui è in vigore la pena di morte, e un ergastolo che esclude ogni attenuazione - tombale. Là, la degradazione all'ergastolo senza condizionale può essere un passo verso la riduzione o la moratoria o il ripudio della pena di morte: tutto è prezioso sulla soglia della camera della morte.

Questo non può impedire di vedere l'affinità fra la pena capitale e l'ergastolo senza scampo, la pena di morte differita e distillata. Quando un ergastolano implora per sé la morte piuttosto che l'agonia interminabile - il fine pena mai, il fine vita protratto, la tortura perpetua - sta testimoniando di una spietatezza che contagia i suoi simili che si sono voluti così irreparabilmente dissimili. Di questo si tratta, non di "mettere in libertà i boss stragisti" (un titolo di ieri).



La Consulta decide di non decidere e gli ergastolani "ostativi" finiscono in un buco nero



di Tiziana Maiolo


Il Riformista, 17 aprile 2021

 

L'ergastolo ostativo, cioè l'unica forma vera di carcere a vita esistente nel nostro ordinamento, è sicuramente in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, oltre che con l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Lo afferma senza ombra di dubbio la Corte Costituzionale, riunita ieri per decidere su stimolo della cassazione. Un'incostituzionalità palese di cui sono convinti i giudici dell'Alta Corte e quelli della Corte suprema, cioè i vertici massimi della giustizia. Ne sono convinti però non emettono una sentenza, ma rimbalzano al Parlamento, dando un anno di tempo per decidere di sbloccare con una legge la situazione di 1.271 detenuti che stanno scontando nel frattempo la pena di morte sociale.

Cacciati come sono in fondo a un buco nero da cui non possono uscire, benché abbiano spesso scontato la pena massima, se non si trasformano in "pentiti". Non pentiti nel senso letterale, cioè prigionieri di quel moto dell'animo che induce a prendere le distanze da un comportamento del passato, ma delatori sui comportamenti altrui. Succede così che molti di questi detenuti non siano in grado di raccontare niente di nuovo al magistrato, magari perché sono innocenti (capita persino questo) o perché degli episodi di cui sono stati protagonisti gli inquirenti sanno già tutto, o semplicemente perché nel percorso di cambiamento che hanno vissuto in tanti anni di carcere non rientrano la delazione e magari la calunnia.

Ma ai magistrati pare non interessare molto dei progressi fatti dal detenuto attraverso il famoso "trattamento" individuale in carcere, vogliono solo la collaborazione processuale. E questo benché la storia di qualche decennio, da Contorno a Scarantino, mostri quanto poco attendibili siano spesso i famosi "pentiti". Ma il problema è che chi non collabora è sempre considerato mafioso, tutta la vita, anche quando il cambiamento lo ha dimostrato giorno dopo giorno.

Il punto è che, come ha ben ricordato nei giorni scorsi Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, è proprio il concetto stesso di ergastolo, cioè di pena a vita, a essere contrario ai principi costituzionali. È vero che ci sono state due importanti riforme, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, quella del 1975 e la legge Gozzini del 1986, che avevano demolito il principio del "fine pena mai", aprendo numerosi spiragli su permessi premio, semilibertà, lavoro esterno, liberazione anticipata e libertà condizionale, prevista per tutti i detenuti che avessero scontato 26 anni di pena. L'introduzione del "trattamento penitenziario" con al centro la personalità e il progetto di cambiamento del detenuto condannato (riforma del 1975), e la conquista delle misure alternative al carcere (legge Gozzini), avevano portato l'Italia a un clima culturale di grande civiltà giuridica.

Dopo essersi liberato per la seconda volta dopo il fascismo della pena di morte (che nell'ordinamento militare rimase però fino al 1994), il nostro Paese eliminava nei fatti anche la condanna alla morte sociale. Consentendo a chiunque avesse spezzato il patto con la comunità, di attuare in seguito un percorso diverso, con la speranza di poter ricostruire il patto sociale. Saranno poi l'aggressione feroce della mafia e in particolare l'assassinio di Giovanni Falcone (e subito dopo quello di Paolo Borsellino) a far perdere il lume della ragione e i principi dello stato di diritto a governi imbelli ormai agli sgoccioli della prima repubblica.

L'ergastolo ostativo, insieme all'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario, l'inversione dell'onere della prova sulla persistenza dei rapporti tra il detenuto e la criminalità organizzata, nascono di lì. Non dalla mente di Falcone, ma dopo la morte del magistrato. La legge numero 306 del 1992 ebbe un'accelerazione improvvisa dopo il 19 luglio, quando la mafia fece saltare in aria l'auto di Paolo Borsellino. Sono passati trent'anni, e almeno se ne discute. Ma ci saremmo aspettati più coraggio dalla Corte Costituzionale. Si tratta di sanare un'ingiustizia.


 

Perché è anacronistico il "fine pena mai" nato durante l'emergenza mafiosa


di Damiano Aliprandi


Il Dubbio, 17 aprile 2021

 

Dopo la strage di Capaci è stato inasprito il 4 bis, mettendo la preclusione ai benefici per chi non collabora con la giustizia. L'ergastolo, pena perpetua, fu introdotto nell'ordinamento italiano con il Codice Zanardelli nel 1890 che, all'art. 12, prevedeva per i condannati a tale sanzione, la segregazione cellulare continua con obbligo di lavoro per i primi 7 anni, successivamente l'ammissione al lavoro insieme ad altri condannati, con obbligo del silenzio, pur sussistendo la misura della segregazione cellulare notturna.

In seguito, con il Codice Rocco, venne riformata la disciplina dell'ergastolo che fu spogliato del carattere intensamente afflittivo previsto dal precedente Codice mediante l'abolizione della segregazione cellulare continua. Prevedeva che i condannati scontassero la pena in uno stabilimento ad hoc, l'obbligo del lavoro, l'isolamento notturno e solo dopo l'espiazione di almeno 3 anni di pena l'accesso al lavoro all'aperto.

Con la legge n. 1634/1962 venne introdotta una modifica mediante l'inclusione dei condannati all'ergastolo tra i soggetti ammissibili alla liberazione condizionale, qualora avessero effettivamente scontato 28 anni di pena, in seguito ridotti a 26 anni con la legge n. 663/1986, nota come legge Gozzini. La stessa legge ha introdotto delle ipotesi in cui il detenuto potesse uscire temporaneamente dal carcere, tenuto conto dell'andamento del percorso rieducativo, per lo svolgimento di lavoro all'esterno e per permessi premio dopo aver espiato 10 anni di pena mentre, trascorsi 20 anni, poteva essere disposto l'accesso alla semilibertà.

Sempre la Legge Gozzini ha ammesso che l'ergastolano che avesse dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione potesse fruire, come riconoscimento di detta partecipazione, di una detrazione di pena di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata con conseguente riduzione dei termini per l'ammissione ai benefici penitenziari. Ma poi arriva l'emergenza mafiosa che oggi non esiste più. I corleonesi trucidarono carabinieri, magistrati, gente comune, figli piccoli dei mafiosi per vendetta.

Grazie a Falcone, nel 1991 il legislatore ha introdotto l'art. 4 bis, norma che detta la disciplina di accesso ai benefici penitenziari, con la quale si sono individuate due categorie di detenuti: quelli di prima fascia, condannati per delitti particolarmente gravi quali quelli di associazione di tipo mafioso, terrorismo ed eversione; quelli di seconda fascia, invece, rientravano gli autori di delitti che facevano presumere una minore pericolosità sociale del condannato, per i quali era richiesta l'assenza di elementi che facessero ritenere ancora sussistente il collegamento con la criminalità organizzata. Per entrambi le fasce, non c'era alcuna preclusione assoluta ai benefici penitenziari. A seguito della strage di Capaci, hanno inasprito il 4 bis, mettendo la preclusione ai benefici per chi non collabora con la giustizia. Venne fato in nome dell'emergenza stragista. Lo Stato vinse, l'emergenza finì, ma la legge è rimasta. C'è voluto l'intervento della Consulta affinché si ritorni sui binari dettati dalla Costituzione.

 

 

 

  













 

 

"Nessuna pena abbia il termine finale 'mai', perché altrimenti è inutile cercare di rieducare"


di Giulio Meazzini


Città Nuova, 17 aprile 2021

 

Elvio Fassone è stato magistrato e senatore della Repubblica. Nel corso della sua carriera di giudice, un giorno ha incontrato Salvatore, mafioso, autore di 15 omicidi. Dopo averlo condannato all'ergastolo, ha iniziato con lui uno scambio epistolare durato oltre 30 anni, grazie al quale Salvatore ha iniziato in carcere un lento ma progressivo cammino per cambiare vita. Nel momento in cui finalmente aveva la possibilità di essere ammesso alla semi-libertà, però, una banale infrazione lo ha ricacciato nella pena senza fine, nell'eternità senza sbocco. Per cui a un certo punto ha tentato il suicidio. Un agente è intervenuto in tempo e lo ha salvato, ma la porta del carcere potrebbe non riaprirsi più per lui. La corrispondenza tra il magistrato e l'ergastolano è descritta nel libro "Fine pena: ora" (Sellerio).

 

Come è iniziato questo rapporto con Salvatore?

Nel 1985 a Torino si celebrava un maxi-processo alla mafia catanese. Un processo particolare, perché per il numero degli imputati è durato quasi due anni. Di solito, in un processo normale il giudice vede e parla con gli imputati per un'ora, due ore, un giorno, non di più, per cui non c'è tempo per instaurare un rapporto. Invece in quel caso siamo stati di fronte per 20 mesi. In più, essendo io responsabile della gestione di ben 242 persone e relativi familiari, mi sentivo responsabile anche sul piano delle relazioni umane: ero una specie di sindaco di un piccolo paese. Per esempio se un detenuto doveva farsi estrarre un dente e non sapeva come fare perché il carcere non gli procurava l'intervento, o se una convivente, arrivata da lontano proprio nel giorno in cui non c'erano colloqui, chiedeva di non tornare a casa a mani vuote, ero io che dovevo cercare di rimediare. Piccole cose che però costituivano lo sfondo umano della piccola comunità che si era venuta a costituire.

 

Il momento storico non era dei più sereni...

Esatto. C'era un fortissimo clima di antagonismo. Il processo riguardava la più sanguinaria delinquenza della Sicilia orientale, quindi Catania e dintorni. C'era il gotha della criminalità e si giudicava qualcosa come 60 omicidi. Il clima era di guerra dichiarata, soprattutto agli "infami" che collaboravano con la giustizia e alle loro famiglie: infatti nel corso del processo si verificarono 7 episodi di sangue. Sia per svelenire questa atmosfera, sia per una qualche empatia con queste persone che mi erano affidate, introdussi una prassi anomala: dichiarai in pubblica udienza che dopo la fine dell'udienza mi sarei trattenuto 15 o 20 minuti, insieme al giudice togato, per eventuali problemi e istanze di quel genere, purché non avessero nulla a che vedere col processo.

 

Un gesto distensivo...

Questo svelenì moltissimo l'atmosfera e indusse in particolare Salvatore, che era il capo dei capi, a instaurare un rapporto non più antagonista con la Corte, in particolare con me. Rapporto che culminò, in una delle ultime udienze, nella sua richiesta di venirmi a parlare proprio in quei 15 minuti. Tra le altre cose mi chiese: "Presidente, lei ce l'ha un figlio?". Risposi che ne avevo tre, e che il più grande aveva più o meno la sua età. "Lo so. Volevo dirle che se suo figlio nasceva dove sono nato io, magari a quest'ora lui era nella gabbia al posto mio, e se io ero nato dove è nato suo figlio a quest'ora facevo l'avvocato". In questa frase lessi quasi una nostalgia di non essere mio figlio.

 

A quel punto prese l'iniziativa?

La corte lo condannò, come era inevitabile in base agli atti, all'ergastolo. Ma mi rimase dentro una domanda: come farà un giovane di 27 anni come lui a passare tutta la vita in una cella, come potrà resistere? D'impulso gli mandai una lettera facendogli coraggio. Fu un gesto un poco temerario, perché avrebbe potuto mandarmi a quel paese, invece mi rispose con affetto e di lì nacque la corrispondenza descritta nel libro.

 

Una corrispondenza durata 30 anni. Come l'ha vissuta?

Non posso dire di essere cambiato radicalmente lungo gli anni della corrispondenza, ma mi ha cambiato la stesura e poi l'uscita del libro. Da tempo avevo una sensazione di solidarietà umana, chiamiamola pietà, verso i condannati, e soprattutto i condannati a pene molto lunghe. Intuivo che doveva essere una sofferenza terribile, soprattutto perché con l'ergastolo ti è tolta la speranza. Dieci anni di carcere sono lunghi, ma sai che ogni giorno togli un pezzettino di pena, per cui prima o poi uscirai. Ma quando sulla tua cartella c'è scritto "fine pena: mai", sei portato alla disperazione.

 

Si diventa pazzi?

Gli studiosi di psicologia affermano che la sofferenza senza speranza innesca una sorta di processo di autodifesa che toglie la ragione ai cervelli più vulnerabili. Diventa una vera e propria patologia. Infatti sono molti i detenuti che si tolgono la vita o tentano di togliersela. Se togli la speranza a un carcerato, gli togli la ragione di vivere.

 

Ritorniamo all'uscita del libro...

Il libro è uscito nel 2015 e ha avuto un'accoglienza incredibile: 13 edizioni. Ho girato l'Italia perché mi chiamavano da tutte le parti, università, associazioni, scuole. Sono passati tre anni e ancora ricevo inviti ad andare, non tanto a presentare il libro, quanto ad illustrare la situazione carceraria, soprattutto quella degli ergastolani. Questo mi ha cambiato, mi ha coinvolto enormemente nel problema. Sono diventato, in qualche modo, un punto di riferimento per questa problematica.

 

C'è anche gente che la accusa di non essere obiettivo perché si lascia prendere dall'empatia per il detenuto?

È accaduto molto raramente e non con atteggiamento polemico. Mi hanno detto soprattutto questo: nessuno uccida Caino, va bene, ma ricordiamoci anche di Abele, cioè delle vittime. Ho risposto che nel processo la Corte ha condannato gli imputati all'ergastolo, non si è limitata a pochi anni per pietà. Abbiamo applicato la legge senza sconti. Poi però subentra un altro campo di azione, in cui si può moderare la durezza della legge con un accompagnamento di tipo umano. Nessuno mi ha potuto rimproverare per aver fatto questo.

 

Nel libro lei ricorda che anni fa è stato bocciato un referendum sull'ergastolo.

È stato bocciato fragorosamente, con il 78% di "no". Ma il referendum era più radicale di quel che sostengo io, che sono contrario al solo ergastolo "ostativo", perché la domanda era: "Volete abolire l'ergastolo?". Io stesso ho votato "no". Secondo me, di fronte a casi di estrema gravità, come una strage o l'omicidio di un bambino, non possiamo subito dire: "Beh, siamo buoni, anche lui è un uomo, chissà quali condizionamenti ha subìto". Oltre alla vittima e ai familiari della vittima, tutta la comunità è profondamente ferita dal crimine nei suoi sentimenti più profondi e deve avere il tempo di elaborare il lutto. Una sentenza di condanna "giusta" aiuta a elaborare il lutto, perché conferma la comunità nella fiducia in certi valori: non si ammazza, non si stupra, non si deruba, non si spaccia. Ecco perché ritengo che a caldo sia sbagliato andare dai parenti della vittima e chiedere: "Lei è disposto a perdonare?". Lasciamo che elaborino il loro lutto.

 

C'è un tempo per tutto...

C'è il tempo del delitto, che esige una elaborazione da parte di tutti, del reo e della comunità. E poi c'è il tempo dell'espiazione, quello che comincia dopo che le luci si sono spente. Purtroppo il processo interessa solo fino alla sentenza, poi l'attenzione dei media finisce. Invece lì comincia il vero dramma. È lì che la comunità deve, con equilibrio e prudenza, ma anche con generosità, accompagnare il detenuto. Accompagnare non vuol dire metterlo fuori dalla prigione, ma aiutarlo nel percorso di maturazione.

 

Quindi esattamente cosa propone?

Propongo che nessuna pena abbia il termine finale "mai", perché altrimenti è inutile cercare di rieducare. Cosa mi rieduco a fare se tanto marcirò qui per sempre?

 

Quindi lei dice: diamo l'ergastolo, ma durante il tempo della detenzione controlliamo se la rieducazione sta funzionando. È così?

È già così, a parte l'ergastolo ostativo. Il nostro ordinamento non è sordo e non è reazionario. Ha recepito, a partire dalla legge Gozzini dell'86, l'istanza del cosiddetto "regime progressivo": tu condannato mi dai qualcosa in termini di maturazione nel modo di guardare il mondo e rapportarti con gli altri, e io-Stato, io-ordinamento dopo un certo numero di anni ti concedo dei permessi, se li hai guadagnati. Dopo un numero ulteriore di anni, se continua la rieducazione, ti do la semilibertà: esci durante il giorno per lavorare e poi rientri. Dopo altro tempo ti do i benefici ancora più estesi: la liberazione condizionale, una sorta di libertà vigilata. Infine, ti do la libertà piena, se hai sempre camminato nella stessa direzione.

 

Per Salvatore questo progresso si è interrotto...

Purtroppo Salvatore ha avuto qualche deviazione di percorso: i permessi li aveva avuti, il lavoro all'esterno l'aveva avuto, era stato dichiarato idoneo per la semilibertà, poi ha fatto una sciocchezza e ha dovuto rinunciarvi.

 

Ma gli psicologi sono in grado di capire se effettivamente il detenuto si è rieducato?

Leggere nell'anima non è possibile. Ma la competenza, la sequenza dei rapporti periodici sulla personalità, e l'esperienza offrono una buona probabilità di capire.

 

Con la rieducazione migliora la sicurezza della società?

Sì, perché il detenuto che esce, poi raramente delinque. Il 97% dei detenuti rientra migliore, perché ha visto la compagna o la moglie, i figli, il mondo. La semilibertà è preziosa perché esci per lavorare, cioè esci per assumere in pieno la qualità di cittadino. Il cittadino è tale proprio perché è immerso in una serie di relazioni sociali positive, tra le quali primeggia il lavoro. Poi se ci sono degli abusi bisogna sanzionarli. L'importante è non sbarrare mai la porta in modo definitivo.

 

Invece l'ergastolo ostativo?

Questo è il problema che rimane da affrontare. È stato introdotto nel '92, dopo gli assassini Falcone e Borsellino. Lo Stato non poteva non dare un giro di vite alla criminalità di tipo mafioso. Per i condannati a causa di delitti di questo tipo i benefici non sono più ammissibili, a meno che i detenuti accettino di diventare collaboratori di giustizia. Questo ha permesso formalmente alla Corte costituzionale, quando fu investita della questione sulla base dell'articolo 27 della Costituzione (che recita che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato), di dire che anche nel caso di "ergastolo ostativo" il condannato ha comunque una via di uscita, quella di diventare un collaborante con lo Stato. La Corte ritenne allora di non poter smantellare quello che lo Stato aveva fatto sotto l'onda dell'emozione di quei due episodi tragici del '92. E quindi sentenziò: una via di uscita c'è ed è la collaborazione. Sta al detenuto guadagnarsela.

 

Funziona?

No. Quasi nessuno dei condannati ha accettato di farsi "pentito", quindi gli ergastolani in larga parte sono di nuovo diventati "fine pena: mai". Al momento gli ergastolani ostativi in Italia sono circa 1600. Queste persone vivono con il "fine pena: mai". La mia riserva sulla legislazione attuale è solo su questo punto, ma su questo è forte e netta.

 

Cosa mi dice delle vittime?

Quando vado in giro a raccontare la mia esperienza, incontro molte persone che manifestano solidarietà con Salvatore, il quale ha raggiunto il livello di 35 anni in carcere, credo sia un record in Italia. Ne trovo anche qualcuna, però, che mi ricorda che pure i parenti delle vittime hanno il "fine pena: mai", in compagnia del proprio dolore. Allora rispondo che mi è ben chiaro il problema di Abele, infatti nel mio libro una delle ultime frasi è: "Nessuno tocchi Caino e nessuno dimentichi Abele". Un'eventuale riforma sarà tanto più accettata se si farà carico anche di Abele, ad esempio con provvidenze a favore dei congiunti delle vittime, a favore di quelli che soffrono a causa del delitto in generale. Non deve trattarsi necessariamente di un omicidio, anche una coppia di anziani depredata in casa andrebbe risarcita. Ci dovrebbe essere un fondo di solidarietà per queste persone. Questo le aiuterebbe ad accettare che nessuno uccida definitivamente Caino. Se una riforma metterà insieme entrambi questi obiettivi, sarà molto più facile farla accettare.

 

 

 


 


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