Una
giusta vendetta. L’autopsia. La perizia
‘ginecologica’ sulla ragazza.
L’incriminazione del padre di concorso.
La
sera del 17 ottobre del 1956, poco dopo le ore 20, i carabinieri di Villa
Literno vennero informati che presso il corso Umberto I un uomo era stato
ucciso ed una donna era rimasta ferita a seguito dell’esplosione di alcuni
colpi di fucile. Tre giorni dopo nel
cimitero di Villa Literno il Dr. Clemente Enselmi, nominato perito dal Pretore
di Trentola, con l’assistenza dell’infermiere Emilio Caterino, eseguiva
l’autopsia sul cadavere di Ulderico
Guadagno, di anni 33, guardiano privato da Villa Literno. Il movente del delitto era da ricercarsi sul
fatto che la vittima aveva approfittato della ragazza Maria Andreozzi di 16
anni che aveva imbracciato il fucile del padre Tommaso ed aveva ucciso il suo
seduttore. Quindi la prima cosa da accertare da parte degli inquirenti era se
la ragazza fosse stata effettivamente deflorata dalla vittima. Il Dr. Michele
Sanvitale, sottopose la ragazza alla visita di rito E puntualizzò: ‘Maria Andreozzi fu deflorata
in epoca lontana dalla nostra osservazione; non vi sono tracce di subita
violenza; non è possibile stabilire se vi sia stato uno o più coiti, essa, non
è adusa al coito’. Il 14 gennaio del
1957 – tre mesi dopo il delitto – uscì fuori uno scritto rinvenuta strappato in
4 pezzi nella tasca della giacca della
vittima dalla mogie dello stesso e il
perito giudiziario Tommaso Fontana esaminò per conto del G.I. Risultato: “La
grafia vergata nel biglietto esibito dalla parte civile è la medesima di quella
prelevata con scrittura di comparazione con l’assassina”.
Il
10 luglio del 1958 – Vincenzo Adami, S. Procuratore della Repubblica del
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere chiese al G.I. Bernardino De Luca di
emettere un mandato di cattura contro Tommaso Andreozzi contestandogli il
delitto di concorso nell’omicidio commesso dalla figlia. Tratta in arresto la ragazza raccontò che
circa un anno prima, pregata da Ulderico
Guadagno, amico di famiglia e del proprio fratello Ulderico di fare la ‘madrina
di cresima’ di una bambina residente a Capua. Ma nel pomeriggio, ella venne
raggiunta in cucina dal guadagno che la costrinse a bere una ‘cosa bianca in un
bicchiere’, dopo di ché perdette i sensi ed al risveglio si ritrovò la gonna
sporca di sangue. Il Guadagno che era
ancora presso di lei disse che l’aveva posseduta e che non doveva rivelare
l’accaduto a nessuno, altrimenti ‘l’avrebbe uccisa’.
Sua
madre le chiese spiegazioni è appreso da lei che quando si diceva sul suo conto
era vero ed avuto conferma della ‘deflorazione’ da una ostetrica di Aversa –
dalla quale l’aveva fatta visitare nel febbraio del 1956 – le disse di
continuare a tacere perché col tempo ‘la
cosa sarebbe stata dimenticata’. Il
Guadagno, intanto, continuava ad
infastidirla è quella sera appunto verso le 20 affacciatosi sul muro che divide
il cortile di lei da quello contiguo di tale Vincenzo Iorio la invitò a fuggire
con lui. Alla proposta di fuga disse che pronta e che subito avrebbe preso la
sua roba per scappare, ma poi, mentre il
seduttore usciva dal cortile nella strada per raggiungerla, prese il fucile da
caccia del padre ed armatolo si appostò sull’ingresso della stalla sita nel proprio cortile. Il Guadagno le si
avvicinò, ed essa sparò un primo colpo al suo indirizzo colpendolo al petto;
subito dopo il Guadagno si voltò indietro e tentò di darsi alla fuga, ed allora
essa, fatti due tre passi, esplose un secondo colpo, ferendo casualmente Italia
Fabozzi che abitava in un cortile vicino.
La ‘lettera’ d’amore stracciata in 4
pezzi che accusava la ragazza di voler
continuare la tresca. Il tentativo di farla rapire
I genitori della ragazza Giulia Di Puorto e Tommaso Andreozzi,
confermarono di aver saputo da circa 6 mesi che la figlia era stata
‘deflorata’ dal Guadagno mentre la prima assumeva che quando avvenne l’omicidio
si trova fuori casa (per una visita di condoglianze) il secondo ammetteva
invece, la propria presenza in casa.
Avuto poi conferma dal vicino Pasquale Ucciero della uccisione del Guadagno
(per evitare che i parenti del morto potessero fargli del male) era fuggito presso una famiglia amica di
Villa Literno. Nel rapporto inoltrato all’A.G. sulle fasi del delitto i
carabinieri avevano anche precisato che la bambina che doveva essere cresimata
dalla Maria Andreozzi era la figlia di tale Maria Zappone da Capua e che gli
Andreozzi erano persone pacifiche e dedite al lavoro mentre il Guadagno
risultava essere individuo capace di commettere qualsiasi azione e, benché
coniugato, era aduso a molestare fanciulle. Infatti il 21 settembre del 1956
era stato denunziato per atti di libidine compiuti su due bambine di sei e
sette anni. Le minacce quindi vennero dopo – quando ella si rifiutò di aderire
alle voglie del seduttore che voleva
possederla ancora e indurla a fuggire con lui. E si trattò di minacce gravi di
violenza e di farla addirittura rapire. Anzi come le avevano riferito Giuseppe
Di Dona e Antonio De Luca, il Guadagno,
tre o quattro mesi dopo lo stupro aveva smesso di frequentare la sua
abitazione, aveva tentato, ma invano, di indurre i predetti ad aiutarlo a
rapirla dietro compenso di 200 mila lire.
Interrogato, Tommaso Andreozzi – al quale nel corso dell’istruttoria fu
contestato con mandato di cattura anche il concorso nell’omicidio premeditato
per avere con un’altra persona rimasta
sconosciuta - organizzato e diretto
l’attività criminosa della figliola, si riportava all’interrogatorio dei
Carabinieri ed escludeva di aver partecipato all’omicidio riporlo. La vedova di Guadagno, Giuseppina Tavoletta esibiva una lettera
anonima vergata su di un foglietto ridotta in 4 pezzi assumendo di aver
rinvenuto la lettera guardando nelle tasche degli abiti del marito dopo la sua
morte. L’imputata negava di avere scritto lei la lettera. Il giudice istruttore
dopo aver acquisito uno scritto della prevenuta compilato sotto dettatura alla sua presenza disponeva una perizia
calligrafica sul documento esibito. Il
perito calligrafico esprimeva la convinzione che la grafia del biglietto fosse
la medesima di quella prelevata con la scrittura di comparazione. Nel corso
delle numerose udienze dibattimentali vennero escussi altri testimoni. Maria
Zappone e Luisa Berlucchi confermarono che Ulderico Guadagno con il fratello di
Maria frequentavano la casa di Capua e che vi condussero alcune volte la Maria.
Virginia Battiniello, confermò la
querela contro il Guadagno per atti di libidine commessi su due sue bambine e
Nicola Tavoletta che confermò di aver sorpreso in campagna più volte il
Guadagno con la Maria. Mario Noviello, già fidanzato con la Maria Andreozzi
negò che era stato il Guadagno ad informarlo della ‘deflorazione’ della sua
fidanzata. Giuseppe Di Dona e Antonio De Luca +i due incaricati dal Guadagno di
rapire la ragazza confermarono la circostanza. Il De Luca rimarcò anche il
fatto che Ulderico Andreozzi gli aveva confidato che i familiari lo istigavano
ad uccidere il seduttore della sorella ma lui – essendo amico intimo del
Guadagno non se la sentiva. Vero invece è che i due frequentavano la casa di
Capua dove incontravano entrambi donne di malaffare.
I giudici della Corte di Assise non ebbero dubbi sul fatto
che a determinare l’omicidio era stata la deflorazione avvenuta in Capua ma
espressero le loro perplessità sul fatto che la ragazza non fosse stata
consenziente. Ma quello che inchiodò alle proprie responsabilità la ragazza e
che la proiettò in una luce divera furono gli spezzoni della lettera ( poi
ricostruita) rinvenuta dalla vedova della vittima. Nella zona l’esigenza della tutela dell’onore
sessuale della donna, che è tanta parte dell’onore familiare, è fortemente
sentita, ed il costume impone che l’onta della seduzione, non riparata o non
riparabile con il matrimonio, venga lavata nel sangue.
Verso
il processo , la condanna a 16 anni con
la diminuente della minore età. Il padre, invece a 2 anni di reclusione per omicidio colposo a
causa del fucile di sua proprietà.
I difensori della
Maria Andreozzi avanzarono la richiesta di ‘legittima difesa’ o dell’eccesso
colposo di legittima difesa (la vittima era armata e la pistola fu trovata
accanto al cadavere) ma gli inquirenti ipotizzarono una alterazione della scena
del crimine proprio per poter avvalorare - nella sede giudiziaria - una ipotesi
di legittima difesa. Infatti la Corte rigettò la richiesta. “Il delitto - ipotizzarono i giudici - fu quindi studiato da attuato
tutto in un piano per attirare il Guadagno in una trappola ed aggredirlo
all’improvviso e ciò porta a concludere dell’aggressione - sicuramente compiuta
a scopo omicida come rilevano la reiterazione degli spari e il fatto che il
primo colpo fu indirizzato, per ammissione dell’imputata, verso il cuore della
vittima - dovette essere decisa e organizzata parecchio tempo prima della sua
esecuzione cioè fu premeditata. La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere
(Presidente, Prisco Palmiero; giudice a latere, Guido Tavassi; giudici popolari: Giovanni Ferraiuolo, Ida Micillo, Maria Vincenza Pesce, Gennaro Merola,
Wanda Vitolo e Secondino Graziano) così decise:
“Tenuto conto che la ragazza è di buoni
precedenti e fu tratta al delitto
soprattutto dall’influenza esercitata su di lei dall’ambiente familiare
stimasi equo concedere, oltre alla attenuante della minore età anche le
attenuanti generiche. Non possono invece trovare applicazione le attenuanti
della provocazione e del motivo particolare del valore morale e sociale
parimenti richieste dalla difesa. “Stimasi
infliggere alla Maria Andreozzi, per
l’omicidio premeditato, in applicazione della diminuente della minore età, la
pena di anni 22 di reclusione in luogo di quella dell’ergastolo. Detta pena va
poi ridotta ad anni 15 di reclusione per le attenuanti generiche aumentata ad
anni 16 per le lesioni prodotte per aberratio
ictus”; mentre a Tommaso Andreozzi,
accusato di omicidio colposo, la condanna
ad anni 2 di reclusione”.
Il 3 febbraio del 1962 – sette anni dopo il
delitto – la seconda sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli (
Presidente, Nicola Mazzocca; giudice
a latere, Antonio Tullio Capaldo;
Pubblico Ministero, Ignazio Custo,
Procuratore Generale) emise la sentenza riducendo la pena ad anni 14 di
reclusione. Seguì il ricorso per Cassazione per ottenere l’esclusione
dell’aggravante della premeditazione. La Prima sezione penale della Corte
Suprema, con sentenza del 16 luglio del 1963, annullò la sentenza della Corte
di Assise di Appello relativamente alla provocazione e rinviò ad altra sezione
di appello. La successiva Corte di Assise di Appello confermò la condanna. Nel
processo furono impegnati gli avvocati: Alfonso
Tesauro, Mario Catapane, Alfredo De Marsico, Giuseppe Garofalo, Ciro Maffuccini, e Alfonso Martucci.
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