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domenica 23 ottobre 2022

 

1958, in Sant’ Andrea del Pizzone,  Giuseppe Nacca uccise a coltellate per una partita a briscola  Antonio Ciccarelli e ferì gravemente il padre Felice. – di Ferdinando Terlizzi  

     

1958, in Sant’ Andrea del Pizzone,  Giuseppe Nacca uccise a coltellate per una partita a briscola  Antonio Ciccarelli e ferì gravemente il padre Felice. – di Ferdinando Terlizzi

 

 

La sera del 7 novembre del 1958, verso le ore 21:30 nella via Roma di Sant’Andrea del Pizzone, all’altezza del bar di Anna Buggiano, il giovane Antonio Ciccarelli venne accoltellato da Giuseppe Nacca  riportando gravi lesioni per le quali decedette di li a poco. I carabinieri, iniziate immediatamente le indagini, ricostruirono  l’accaduto in base alle dichiarazioni rese da Andrea  Giuliano,  Domenico Di ChiaraAntonio Sorvillo,   Antonio Diana, gestore del bar  della Bucciano, e Felice Ciccarelli, padre dell’ucciso. Quella sera, nel bar, il Giuliano, il Di Chiara, il Sorvillo, ed il Felice Ciccarelli, si erano  accinti ad  iniziare una partita a briscola con la posta di 2 birre.  Se  non che intervenne il Nacca  esprimendo il desiderio di partecipare anche lui al gioco e Felice Ciccarelli  gli cedette  subito di buon grado il proprio posto e si sedette dietro di lui.  Quando la partita ebbe termine, risultò vincitrice la coppia Giuliano-Sorvillo, il Nacca prese a redarguire Felice Ciccarelli  accusandolo, ma ingiustamente,  di aver fatto segni ai suoi avversari determinando così la sua sconfitta. Tra i due si accese una discussione che degenerò in colluttazione (a detta del Giuliano e del Diana fu il Nacca ad aggredire il Ciccarelli). Tuttavia i presenti fecero da paciere e riuscirono  a separare i contendenti. Il Felice Ciccarelli  (che grondava sangue dal viso per escoriazioni multiple successivamente constatate anche dal Dottor Silvio Marandola), fu accompagnato fuori dal Giuliano, mentre il Nacca venne trattenuto all’interno del locale dal Ciccarelli. Successivamente il Diana, poiché sembrava ormai tornata la calma, consigliò il Nacca di andarsene. E subito dopo avvenne l’omicidio.  Circa le modalità di questo, però, nonostante fossero stati presente numerose persone poco i verbalizzanti riuscirono ad apprendere. Secondo alcuni accenni fatti dal Felice Ciccarelli e dal Giuliano, il Nacca, uscito dal bar, era stato avvicinato dal figlio del CiccarelliAntonio, ed aveva accoltellato lo stesso, pochi metri oltre la porta del bar, di via Brezza. L’Antonio era fuggito verso la casa della propria nonna – sita nella on vicinanza, ed era  precipitato a terra privo di forze proprio innanzi l’uscio di detta abitazione. Intanto anche Felice Ciccarelli aveva tentato di avvicinarsi al Nacca, ma si era tratto indietro nel vedere il figlio a terra. Infine il Nacca era fuggito in direzione di via Chiesa. Alcune settimane dopo il fatto i carabinieri interrogarono anche tali  Giuseppe Guardiano e Luca Ventre. Costoro confermarono quanto già emerso circa la lite verificatasi nell’interno del bar vallo (il Ventre confermò pure il particolare che era stato il Nacca ad aggredire Felice Ciccarelli). Quanto alla seconda fase dell’incidente precisarono  che Antonio Ciccarelli, sopraggiunto nei pressi del bar poco dopo che il padre, ferito al viso, ne era uscito, aveva rivolto al Nacca – che era ancora nel locale, la frase – :  “mi dovrai dare conto di quello che hai fatto a mio padre“, ma non era riuscito ad entrare perché trattenuto fuori dai presenti.  Poi, quando la questione appariva ormai chiusa, il Nacca era uscito tenendo, a detta del Guardiano,  a che ora uscite, detta del guardiano, la mano destra nella tasca destra della giacca e si era fermato a due metri circa dal bar di via Brezza. Antonio Ciccarelli gli si era  avvicinato ma prima ancora che potesse  toccarlo era stato accoltellato al petto e pertanto era fuggito in direzione della casa della nonna. Il Nacca  si costituì in data 10 novembre 58 nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere ove gli  furono riscontrate lievi escoriazioni al viso ed una contusione al ginocchio destro. Nel corso dell’istruttoria, espletata con il rito formale gli vennero contestati, con mandato di cattura il reato di omicidio volontario gravato per motivi futili ed oralmente quelli di lesioni personali volontarie in danno di Felice Ciccarelli.  Egli sostenne di essersi limitato a protestare garbatamente durante la partita a carte per avere Felice Ciccarelli indicato con segni le sue carta ai suoi avversari, e di essere stato subito aggredito dal predetto con uno schiaffo, anzi con uno schiaffo immediatamente dopo sempre nel locale anche da Antonio  Ciccarelli  il quale gli tirò due pugni.

Che i presenti condussero fuori i Ciccarelli i quali continuarono ad inveire contro di lui minacciandolo;  che dopo circa 10 minuti anche egli uscì sollecitato dal Diana che doveva chiudere il bar e subito venne aggredito  ancora dai due Ciccarelli che lo avevano atteso; che i Ciccarelli – benchè i presenti tentassero di trattenerli – per ben  due volte gli avevano graffiato la guancia sinistra e colpendolo con un calcio; che allora egli estrasse di tasca un coltello, di cui si serviva per la caccia, ma subito dopo l’Antonio Ciccarelli si lanciò per la per la terza volta contro di lui e pertanto il coltello andò a conficcare nel petto del predetto. Una ricostruzione che i magistrati ritennero non veritiera perché il coltello non era da solo andato a conficcarsi nel petto dell’avversario, questo era naturale e logico. Inoltre precisò che si era disfatto del coltello nella fuga, di non avere avuto intenzione di uccidere il Ciccarelli essendo amici.  Le indagini autopsiche misero in evidenza  che il Ciccarelli era stato attinto alla regione anteriore dell’emitorace sinistro, immediatamente al di sotto dell’ areala mammaria, ed alla natica sinistra, sul prolungamento dell’ascella posteriore, 3 cm circa al di sotto della cresta iliaca, da due colpi di coltello; il colpo al petto aveva seguito una  direzione del basso in alto, da sinistra verso destra, dall’avanti all’indietro; che tale  colpo aveva leso il polmone del cuore e cagionato anemia acuta e indi il decesso. Venne pure accertato, attraverso perizia medico-legale che il Felice Ciccarelli era guarito in giorni dieci dalle lesioni riportate, in ordine alle quali produceva querela. Fu altresì espletata l’ispezione della località ove si era verificato l’omicidio, con rilievi fotografici e planimetrici.

Le versioni contrastanti – La complessa istruttoria – La provocazione  – Adombrata la legittima difesa respinta, però, dai giudici –  L’accertamento della verità nel corso del dibattimento –

 

 

Dalle concordi deposizioni rese fin dalle  prime indagini da Felice Ciccarelli e dagli altri testi Antonio Diana,  Andrea Giuliano,  Domenico Di Chiara e Antonio Sorvillo è rimasto pienamente provato che la sera del fatto, nel bar gestito dal Diana, il Felice Ciccarelli, il Giuliano, il Diana e il Sorvillo stavano per iniziare una partita a carte quando intervenne Giuseppe Nacca il quale manifestò il desiderio di prendere anche lui parte al gioco e venne immediatamente accontentato in quanto Felice Ciccarelli cortesemente gli cedette il proprio posto. Felice Ciccarelli uscì dalla lotta con il volto sanguinante per molteplici escoriazioni, come constatato da tutti i presenti e successivamente dal dottor Marandola.  Ma anche il Nacca riportò delle graffiature al volto, come fu constatato dopo l’arresto, graffiature che però erano di ben lieve entità tanto è vero che, tranne il Guardiano, nessun altro ebbe annotarle. Sopraggiunge poi Antonio Ciccarelli, figlio di Felice che, visto il padre in strada con il volto sanguinante ed appreso l’accaduto, minacciò il Nacca e lo invitò a vedersela solo con lui. Ciò risulta dalle deposizioni di Luca VentreGiuseppe GuardianoAndrea Giuliano, e Domenico Di Chiara i quali però escludono che Antonio Ciccarelli sia entrato nel bar e si sia  avventato addosso a Nacca come questi assume. Dopo una pausa di alcuni minuti il Diana, poiché era ora di chiudere il locale, sollecitò il Nacca e gli altri avventori ad  uscire. Ma il prevenuto, non appena fu in strada, ove erano ancora molte persone, tra cui Antonio Ciccarelli  e Felice Ciccarelli, quest’ultimo a qualche decina di metri di distanza, presso il campanile, in compagnia del Giugliano, che gli asciugava il sangue che gli colava dalle ferite, si scontrò, come è pacifico, con Antonio Ciccarelli e lo accoltellò al cuore e alla natica sinistra cagionandogli le ferite gravi che lo condussero a morte di li a poco.

 

Ed in dibattimento precisò che l’ultima volta che Antonio Ciccarelli lo assalì si verificò una colluttazione e che durante quella colluttazione il Ciccarelli dovette essere colpito sia al petto che alla natica. Tali versioni sono state ritenute dagli inquirenti in contrasto tra loro ed in taluni punti addirittura assurde, come per esempio li ove si accenna un quasi suicidio di Antonio Ciccarelli, ma del tutto smentito dalle risultanze processuali le quali inducono ad escludere che dopo l’uscita del Nacca dal bar vi sia stata una colluttazione. Invero Felice Ciccarelli afferma di essersi limitato a fare il gesto di avvicinarsi al Nacca quando questi gli passò vicino, armato di coltello, e ciò dopo l’omicidio. E questa affermazione trova conferma in quella concorde del Giuliano. E le parole di minaccia e di sfida pronunziante dal Ciccarelli intervenuto in difesa del genitore, verso il Nacca, che era ancora trattenuto nel locale; la sosta dei due Ciccarelli nei pressi del bar; il fatto che quando il Nacca, di lì a qualche tempo uscì dal locale, mossero verso di lui, per colluttare ancora, prima il Ciccarelli Antonio, e poi, dopo che il giovane era caduto ferito, il Felice Ciccarelli, non consentono di attribuire ai due Ceccarelli il ruolo di provocatori neppure nella seconda fase del delittuoso episodio. La reazione verbale di Antonio Ciccarelli, la attesa e l’avvicinarsi, sia pure con l’intento di colluttare, dello stesso e del padre, che erano entrambi del tutto inermi, non furono che una risposta; non certo sproporzionata, all’iniziale provocazione compiuto dal Nacca nel bar, una risposta quindi da questi accettata come logica reazione. E pertanto anche nella fase terminale dell’episodio, nella quale si verificò l’uccisione dell’Antonio Ciccarelli, al Nacca, originario provocatore, deve negarsi lo stato di legittima difesa, ed ovviamente anche quello di eccesso colposo in legittima difesa, come pure l’attenuante della provocazione.

 

Fu condannato a 19 anni per la sua incensuratezza – In appello la pena fu ridotta ad anni 14. Ritenuta non veritiera la ricostruzione dell’accaduto da parte dell’imputato  – La Cassazione rigettò il ricorso –

 

Il Nacca fu accusato di omicidio volontario aggravato perché aveva cagionato la morte di Antonio Ciccarelli, colpendolo in pieno petto con una coltellata e ferendolo alla regione glutea e ciò – secondo l’accusa – per motivo futile e ciò a seguito di un litigio avvenuto in precedenza per un gioco di carte con il padre del suddetto Ciccarelli. Per avere, inoltre, procuratore lesioni volontarie al viso, con la stessa arma di punta e taglio a  Felice Ciccarelli. “Il suo coltello colpì la vittima al petto trapassando il cuore ed il polmone, ed alla natica sinistra, non lontano dalla regione lombare. Pertanto egli facendo uso di un mezzo idoneo ad uccidere, chiarì  il pubblico ministero nel corso della sua requisitoria –  colpì, e volle colpire, (“il coltello è guidato sempre dalla mano che affonda lì ove si vuole che affondi“. N.d.A.), parti vitali del corpo ripetutamente, con estrema violenza. E dal concorso di tali circostanza emerge una volontà diretta non a ferire, a produrre soltanto delle lesioni, ma diretta invece a produrre la morte della vittima”. La Corte, tuttavia, nella motivazione della condanna (19 anni) chiarì che aveva ritenuto di escludere l’aggravante del motivo futile. Chiarendo che…”Se è vero che alla scaturigine del fatto non vi fu una banale questione di gioco, e altrettanto vero però che quell’incidente degenerò in una colluttazione tra l’imputato e il Felice Ciccarelli; che nel corso della colluttazione entrambi i contendenti riportarono lesioni; che seguirono parole di minacce di sfida da parte di Antonio Ciccarelli; di guisa che venissero ad aggiungersi, anzi a sovrapporsi, all’iniziale, trascurabile motivi di risentimento reciproco, oltre, e ben più consistenti ragioni di astio, idonee di per se  ad eccitare vivamente gli animi, e quindi non assolutamente sproporzionate al delitto verificatosi. Specialmente poi per chi conosce la impulsività, la bellicosità, il culto del proprio prestigio degli abitanti dei nostri paesi, non può destare meraviglia che è una lite, sia pure solo sorta per un episodio trascurabile, ma conclusasi con reciproche lesioni e con espressioni di minaccia e di sfida da parte di taluno dei contendenti, possa condurre ad uno scontro mortale”. La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Prisco Palmieri; giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero, Vittorio Ferone), con sentenza del 30 settembre 1960, con la concessione per tutti i reati delle attenuanti generiche in considerazione della sua condotta precedente al fatto che è immune da ogni censura e pertanto rivelatrice di una personalità non ancora traviata nonché della circostanza che i delitti di lesioni e di omicidio furono da  lui per un improvviso impulso – nella convinzione – sia pure infondata, di essere lui il provocato. Tenuto conto dei criteri tutti indicati ed in particolare delle modalità del fatto e della personalità del reo – stimò fissare la pena per l’omicidio ad anni 22, da ridursi per le attenuanti generiche ad anni 19 di reclusione. La Corte di Assise di Appello di Napoli con sentenza dell’11 dicembre del 1962 ridusse la pena ad anni 14 di reclusione. La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza dell’ 11 ottobre del 1963 rigettò il ricorso. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Antonio SchettinoCiro MaffucciniGiuseppe IraceAlfonso Martucci e Guido Cortese.

 

 

 

lunedì 17 ottobre 2022

 LUNEDÌ, 17 OTTOBRE 2022

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1957, in Santa Maria la Fossa, Dino Quamini, fu accusato di duplice tanto omicidio per aver cercato uccidere il padre Michele e il fratello  Ottorino perché voleva in donazione 50 mila lire e altro terreno in occasione della sue nozze- Fu condannato a 10 anni di reclusione – di Ferdinando Terlizzi  

     

1957, in Santa Maria la Fossa, Dino Quamini, fu accusato di duplice tanto omicidio per aver cercato uccidere il padre Michele e il fratello  Ottorino perché voleva in donazione 50 mila lire e altro terreno in occasione della sue nozze- Fu condannato a 10 anni di reclusione – di Ferdinando Terlizzi

 

Il  1 marzo del 1957,  Michele e Ottorino Quamini  denunciavano ai carabinieri di Santa Maria la Fossa Dino Quamini, figlio del primo e fratello del secondo, per il reato di minaccia grave, assumendo il Michele che il figlio,  verso le 14 del 28 febbraio in via Camino, gli  aveva rivolto la frase: “Se non la smettete, certamente vi ammazzerò”. Ottorino, a sua volta, assumeva che il fratello, verso le ore 18:00 del giorno 1 marzo del 1957, con la pistola in pugno, l’aveva minacciato di morte, rivolgendogli le parole: “Se entro domani  non mi date dell’altro terreno, uno di voi  devo ammazzare”. Michele Quamini faceva presente che il figlio pretendeva altro terreno in aggiunta a sei moggia cioè concessigli piccola  e,  pertanto,  tra loro non intercorrevano buoni rapporti. Il giorno 2 marzo si presentavano spontaneamente dai suddetti carabinieri le sorelle Assunta ed Ernesta Spagnuolo le quali dichiaravano che nel giorno precedente Dino Quimini mostrò loro una pistola e disse contemporaneamente: “Se mi padre e mio fratello Ottorino non mi danno lire 50mila e 2 moggia di terreno  e la quota delle bestie entro domani li ammazzerò con questa pistola”. Dino Quamini, interrogare dai carabinieri, si professava innocente, pur ammettendo di avere incontrato il padre ed i fratelli.  Egli affermava di non avere neppure rivolto la parola al padre e di essere stato percosso dai fratelli Oreste ed Ottorino i quali lo avrebbero invitato a lasciare la terra.  I carabinieri di Santa Maria la Fossa denunciavano il 6 marzo del 57 Dino Quamini per il delitto di minaccia, facendo presente che era risultata negativa la perquisizione eseguita allo scopo di rinvenire la pistola citata da Ottorino e dalle sorelle Spagnuolo.  Con successivo rapporto i carabinieri riferivano all’A.G. che nella mattinata del 10 marzo Michele Ottorino Quamini, mentre transitavano, in motocicletta, il località “Stradella” del Comune di Santa Maria la Fossa, erano stati fatti segno a vari colpi di pistola esplosa da Dino Quamini. Ottorino Quamini, che stava alla guida del veicolo era stato attinto alla regione scapolare-omerale destra da uno dei proiettili e, pertanto, era stato ricoverato presso l’ospedale civile di Caserta. Michele Quamini, interrogato in merito al fatto, aveva dichiarato che egli ed il figlio Ottorino percorrevano in motocicletta la via cammino diretti a Santa Maria Capua Vetere. Nei pressi dell’azienda “Cirio”. zuccherificio di Capua, il figlio Dino era sbucato da sotto al ponte ivi esistente ed, appena essi erano giunti alla sua altezza, aveva cominciato a far fuoco con una pistola nella loro direzione ed aveva continuato a sparare anche dopo che era stato sorpassato. Complessivamente erano stati esplosi 6/7 colpi ed uno di essi aveva attinto Ottorino alla spalla destra.  Essi Michele e Ottorino che si trovavano l’uno sul sedile posteriore del mezzo e l’altro alla guida, dopo una ventina di metri erano caduti a terra, mentre il Dino, prelevata una bicicletta da sotto il ponte, si era allontanato verso Casal di Principe. I carabinieri col suddetto rapporto facevano presente che il Quamini si era reso irreperibile e che, tra lo stesso i familiari da tempo non intercorrevano buoni rapporti,  in quanto egli pretendeva dal padre altra estensione di terreno oltre quella in precedenza concessa di 2 ettari.  Ottorino e Michele rendevano al drappello della pubblica sicurezza dell’ospedale civile di Aversa dichiarazioni nelle quali riferivano il fatto verificatosi la mattina del 10 marzo di 57 negli stessi termini in cui venne narrato ai carabinieri di Santa Maria la Fossa dal Michele Quanimi.

L’istruttoria – Le indagini – il mandato di cattura la costituzione del fratello contro il fratello – Le versioni contrastanti – La legittima difesa precisando che il fratello, istigato dal padre, gli aveva esploso contro ben tre colpi di pistola. 

 

Veniva iniziato il procedimento penale con il rito formale nei confronti di Dino Quamini per i reati di tentato omicidio, lesioni, violenza privata e minacce con arma e fu emesso nella circostanza un mandato di cattura contro lo stesso.  In giudizio il fratello si costituì parte civile. L’imputato arrestato il 6 ottobre del 57 sosteneva nel suo interrogatorio di essere stato costretto ad agire in stato di legittima difesa precisando che il fratello, istigato dal padre gli aveva esploso contro ben tre colpi di pistola.  Solo allora, e dopo il terzo colpo, egli si era deciso a rispondere al fuoco, esplodendo a sua volta  un sul colpo di pistola e gettandosi contemporaneamente a terra lasciando credere di essere rimasto ferito. Infatti fu questa l’impressione che riportarono i suoi aggressori i quali si allontanarono in opposte direzioni. Prima, però, che andassero via, il fratello si lamentava di essere rimasto ferito e il padre gli disse di andare a denunciare il fatto ai carabinieri tacendo, naturalmente, sull’esplosione dei colpi da parte sua.    Oreste Quimini e la moglie Assunta Spagnuolo affermavano concordemente che mentre si recavano all’ospedale ove era stato trasportato Ottorino, avevano notato in bicicletta Dino Quamini e, nel sorpassarlo l’Oreste gli aveva rivolto l’epiteto “vigliacco” e l’altro aveva estratto di tasca una pistola. Oreste aveva avuto paura, aveva accellerato la marcia ed avendo incontrato una pattuglia di polizia stradale, aveva riferito il fatto, ma il fratello si era sottratto all’inseguimento degli agenti dandosi alla fuga.  La Spagnuolo a sua volta riferiva che nella sera del 1 marzo del 1957 il cognato Dino le mostrò una pistola a rotazione ed alcune cartucce e disse che “doveva ammazzare il marito, il suocero e la suocera”. Successivamente affrontò il fratello minacciandolo per cui essa era in continua preoccupazione. Ella precisava che il suocero, all’atto del matrimonio dei figli aveva diviso le 28 moggia di terreno che aveva in concessione, fra i cinque figli, in modo che ad ognuno di essi ne toccavano 6. Nella parte di terreno di pertinenza del marito costui costruì con i suoi risparmi dei pozzi artesiani per meglio coltivare la terra. Ciò non piacque a Dino che avrebbe preteso che il marito avessi fatto altrettanto sul suo terreno. Inoltre Dino reclamava altre moggia di terreno di qui il suo rancore ed il suo comportamento nei confronti di familiari. Ernesta Spagnuolo riferiva anche sulle pretese avanzate dal Dino nonché sul fatto che costui,  nella sera del 1 marzo di 57, disse alla Assunta  Spagnuolo che se il marito non gli avesse fatto dare altre moggia di terreno e noi gli  avesse portato 50.000 lire, sarebbe stato ammazzato. Quando pronunciò tali parole egli, però, non mise fuori alcuna pistola. Dall’Ottorino apprese poi la stessa sera che il fratello lo aveva minacciato.  Giuseppe Raimondo, indicato dall’imputato nel suo interrogatorio, dichiarava che in un giorno del mese di marzo, mentre percorreva via Camino con il proprio automezzo, superò Dino Quamini che era in bicicletta. Dopo aver percorso un 200 metri  vide sulla strada Michele Quimini  ed il figlio Ottorino  e sentì che costoro pronunciavano le parole “quella carogna sta arrivando”. Dopo un minuto  di marcia, fatti a velocità non troppo elevata date le condizioni della strada, sentì  esplodere tre colpi,  uno appresso all’altro e poi, dopo un  intervallato,  un altro l’altro.  Luigi Di Puorto  deponeva che il Dino Quamini  si era lamentato con lui perché il padre lo maltrattava, lasciandolo anche senza mangiare. Egli una volta si recò dal Michele Quamini per fare cessare tale situazione ma fu cacciato fuori. L’Ottorino al quale si rivolse per fare tornare l’accordo in famiglia, gli risposi che portava addosso la pistola e, se avesse visto per la strada il fratello lo avrebbe ammazzato.  Vincenzo Di Bello, a sua volta, dichiarava che Dino Quimini , dopo i fatti per cui il processo gli chiese di andare dal padre per mettere pace, ma “egli  non volle spiegare il suo intervento perché con il Michele Quamini non si poteva discutere”. Il Dino in tale occasione gli disse che aveva sparato contro il padre per ragioni di interesse che in precedenza il padre lo aveva maltrattato.

Condannato ad anni 10 e mesi 6 di reclusione. In appello furono invocate varie circostanze (il pubblico ministero: “inasprimento della pena”; gli avvocati: “legittima difesa”)  e la condanna venne ridotta ad anni 7.

Con sentenza del 30 settembre del 1958 il giudice istruttore dichiarava chiusa la formale istruttoria ordinando il rinvio a giudizio innanzi la Corte di assise. Negli atti preliminari si costituivano parte civile Michele e Ottorino Quamini. L’imputato, al quale fu contestata la recidiva generica per il delitto e quella specifica infraquinquennale per le contravvenzioni, nel rendere dichiarazioni uniforme a quelle dei precedenti interrogatori, precisò, circa le modalità del delitto che gli sparò contro il fratello che si trovava di fronte a 20 m. circa,  quanto riguarda i precedenti rapporti con i familiari che costoro per allontanarlo dal fondo avuto dal padre gli facevano dispetti tanto che egli più volte ricorse ai carabinieri. Il  padre ed il fratello più volte gli avevano chiesto la restituzione del terreno e, non avendolo ottenuto con le buone, trascesero alla  violenza, percuotendolo e sparandogli contro.  Terminata l’assunzione delle prove, la parte civile chiese la condanna dell’imputato e il risarcimento dei danni, mentre il pubblico ministero chiese la condanna per i reati di cui era stato accusato contestando anche  la continuazione (per il tentato omicidio) e i difensori l’assoluzione per insufficienza di prove dal delitto di minaccia,  per la degradazione della rubrica di tentato omicidio in quella di lesioni in concorso con il delitto di tentata estorsione, con le circostanze attenuanti generiche, con quelle della provocazione in subordine con l’esclusione della premeditazione.  Che nei fatti accertati ricorrono gli estremi dei reati ascritti a Dino Quamini non può essere messo in dubbio. E’  appena il caso di rilevare in ordine  ai reati contestati che la detenzione di pistola, non denunciata, il porto abusivo della stessa e la minaccia di morte in danno di più persone compiuti in esecuzione di un medesimo disegno criminoso è la prova provata della sua volontà di uccidere;  per quanto concerne i delitti nessun dubbio, sussiste solo la volontà omicida, sia in base a quanto esplicitamente e per le varie proposte fatte molto tempo prima dall’imputato, sia in base, alla reiterazione, direzione dei colpi, alle modalità dell’aggressione. Gli atti compiuti devono ritenersi senz’altro idonei a produrre la morte, e, se tale evento non si verificò si deve attribuire a circostanze indipendenti alla volontà del colpevole.  “Sussistono le aggravanti del rapporto di parentela e quello della premeditazione. Invero  – stigmatizzarono  infine i giudici della Corte di assise – quest’ultima consiste nel  proponimento di delinquere accompagnato da una riflessione per la quale tale proponimento si protrae permanentemente. Essa richiede il concorso simultaneo di due elementi quello ideologico e quello cronologico. Il primo ricorre quando il proponimento criminoso sia costantemente perdurante il reo, l’altro quando l’attuazione del proposito segue dopo un apprezzabile intervallo di tempo. Nell’affermare la responsabilità dell’imputato in ordine al delitto di tentato omicidio continuato – così unificati  i capi di imputazione  relativi al duplice tentato omicidio con le attenuanti generiche. Arrestato e tratto al giudizio con sentenza della Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Eduardo Cilento; giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero, Nicola Damiani), venne condannato ad anni 10 e mesi 6 di reclusione. In appello furono invocate varie circostanze (il pubblico ministero: “inasprimento della pena”; gli avvocati: “legittima difesa”)  e la condanna venne ridotta ad anni 7. Il Procuratore Generale Ignazio Gusto, nei suoi motivi di appello evidenziò il fatto che…”Non può essere assolutamente posta in dubbio la gravità dei delitti commessi da Dino Quamini la cui gravità, del resto è stata ampiamente  riconosciuta dagli stessi giudici di primo grado, anche in relazione alla natura della causale, che assume rilievo di dolo per lo speciale ambiente nel quale maturò e la retriva mentalità del turpe protagonista, il quale non esitò ad impugnare un’arma particolarmente micidiale contro l’autore dei suoi giorni e contro il fratello Ottorino, sol  perché non si riteneva soddisfatto di quanto aveva ricevuto, sulla proprietà paterna. Alla luce di tutti i precedenti delle gravissime modalità con le quali il  bieco disegno fu posto in essere e della particolare intensità del dolo che presidiò l’azione violenta del Quamini, la pena che i giudici hanno ritenuto di comminare in concreto allo stesso – sia pure tenendo nel debito conto le concesse attenuanti generiche –  doveva essere maggiormente proporzionata all’entità  dei delitti contestati, che furono commessi dal Quimini con fredda determinazione e senza che la vittima avesse comunque fatto alcunché per darvi causa, come è stato ampiamente riconosciuto della sentenza impugnata. Si chiede, pertanto, alla Corte di assise di Appello in accoglimento del presente che elevi adeguatamente la pena inflitta al Quimini dai primi giudici, relativamente ai delitti allo stesso contestati nella misura che sarà richiesto dal sostituto di udienza”. La difesa, invece prospettò che: “… Doveva la Corte assolvere l’imputato del reato di minaccia quantomeno per insufficienza di prove. Invero a suo carico vi è solo la parola della parte lesa e non può costituire, secondo l’insegnamento costante del Supremo Collegio, valido e sufficiente elemento di accusa. In linea  del tutto subordinato e per tale reato  il minimo della pena. Per il reato di detenzione e porto abusivo di pistola si chiede il minimo della pena e la concessione delle attenuanti generiche. Per le gravi contraddizioni in cui sono cadute le parti lese, la cui parola, fra l’altro è priva di ogni controllo, doveva la Corte ricostruire i fatti seguendo la versione che ne ha dato l’imputato e di conseguenza assolverlo per aver agito “in stato di legittima difesa”. Inoltre la Corte doveva degradare la contestazione di tentato  omicidio in quella di minacce e lesioni aggravate;  di tentata estorsione aggravata ed escludere l’aggravante della premeditazione e considerare l’attenuante della provocazione  del tutto subordinata sempre in ogni caso il minimo della pena. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Carlo CipulloMario ZarrelliRenato Sansone, e Antonio Simoncelli.           

 

 

 

lunedì 10 ottobre 2022

 

1956, in Calvi Risorta Angelo Caparco tentò di uccidere la moglie e 2 sue amiche –  La donna andava dicendo in giro che il marito “non pagava” il debito coniugale di Ferdinando Terlizzi

     

1956, in Calvi Risorta Angelo Caparco tentò di uccidere la moglie e 2 sue amiche –  La donna andava dicendo in giro che il marito “non pagava” il debito coniugale di Ferdinando Terlizzi

I carabinieri con  loro rapporto dell’11 giugno del 1956, denunciarono in stato di arresto Angelo Caparco, cantoniere stradale, incensurato,  responsabile di lesioni personali aggravate in danno di Assunta Zona,  Maria Caparco Ippolita e Antonietta Fuoco. Ma diamo la parola a Ippolito Cozzolino, maresciallo comandante la Stazione dei carabinieri di Calvi Risorta…”… Verso le ore 7:30 del giorno 9 del mese di giugno 1956 lo scrivente in bicicletta si recava verso il centro della frazione Visciano per motivi di servizio. Giunto all’altezza della via Orticelle di detta frazione, notava che una donna si trovava per terra e grondava sangue da una gamba. Si avvicinò alla donna  e dopo aver provveduto perché la stessa fosse stata accompagnata in casa del dottore Giovanni Marrocco, per il pronto soccorso, accertò  che responsabile del fatto era tale Angelo Caparco, il quale si era diretto verso la piazza Garibaldi, armato di una falce, ove seconda voce pubblica avrebbe dovuto  commettere altri crimini. Il sottoscritto si avviò quindi verso il luogo indicato e giunto all’ingresso giù dell’Istituto Pietro Izzo,  dove abita la famiglia dell’esercente Guido Armando Fuoco, constatò che il Caparco – il quale era già stato disarmato della falce dal vice brigadiere Pasquale Ventriglia, occasionalmente ivi di passaggio, colluttava con un gruppo di persone che cercava di mantenerlo,  perché in quel momento lo stesso avevo aggredito tale Fusco Antonietta, perché costei aveva opposto della resistenza allo scopo di evitare che il Caparco avesse potuto raggiungere l’abitazione di Armando Fuoco, che nella circostanza veniva minacciato di morte, in quanto il Caparco aveva sospettato che il predetto giovane avesse avuto una relazioni con la moglie. Angelo Caparco  nel momento in cui si veniva raggiunto dallo scrivente, in un primo momento opponeva resistenza  e insisteva nell’affermazione che egli dovevo completare il suo programma criminoso e nello stesso tempo diceva: “Voglio sapere se mia moglie è morta – se non è morta la debbo ammazzare – debbo poi tagliare la testa a Ninetta Fuoco e poi il fratello Armando che non ho ancora trovato”…. Dimenandosi nella programmazione di queste minacce, il Caparco presentava una ferita da taglio al palmo della mano destra, veniva accompagnato dallo scrivente prima presso il Dottor Giovanni Marrocco, il quale provvedeva per le cure del caso e poi veniva condotto in questa caserma, per le ulteriori indagini in merito allo svolgimento dei fatti. Nello stesso momento si potè stabilire che la lesione riportata alla palmo della mano destra del Caparco, la si produsse con la stessa falce, con la quale egli doveva compiere i delitti in questione.  Proseguendo nell’indagine, fu possibile stabilire che  Angelo Caparco la mattina, verso le sei, dopo una notte senza riposo ed in preda ad agitazione nervosa, era uscito di casa per radersi la barba. Ritornata poco dopo in famiglia, lo stesso aveva cominciato ad inveire  contro la moglie dichiarando  il suo sospetti sul conto della consorte in merito alla fedeltà coniugale. Dopo tale affermazione mentre la moglie era andata ad attingere dell’acqua dal pozzo, rientrando in casa fu aggredita alle spalle dal Caparco, il quale dopo averla buttata per terra, gli si era lanciato addosso e con la falce, tentava di tagliargli la testa, producendole una profonda lesione al collo e  altra profonda lesiona alla tempie sinistra.  Il Caparco, convinto di aver soddisfatto a quello che erano stati i suoi proponimenti nei riguardi della consorte, che secondo lui l’aveva tradito, andò a cercare tale Anna Fuoco, la quale, secondo l’interpretazione date da Angelo Caparco e dalle affermazioni fatti da Anna Fuoco, quest’ultima doveva essere a conoscenza dell’infedeltà della propria consorte. Mentre il suddetto Caparco si prodicava per portare a compimento il suo piano, intravide, lungo la via Garibaldi, una donna somigliante ad Anna Fuoco e scambiatola per quest’ultima le vibrò un violento colpo di falce alla coscia sinistra, producendole una profonda lesione. Sempre proseguendo nei suoi proponimenti, il Caparco si diresse  successivamente verso l’abitazione del giovane Armando Fuoco, per cercare di colpire anche quest’ultimo, ritenuto per colui  il quale spesse volte era  stato notato entrare in casa sua e quindi, sospettato per amante della Maria Ippolita Caparco.  Infatti,  si dice che Anna Fuoco parlando con Angelo Caparco gli avrebbe  detto “che questi non soddisfaceva la consorte” e lo stimolava naturalmente a dubitare come mai la moglie avesse potuto fare delle confidenze intime e nello stesso tempo perché la Fuoco  intendeva divertissi adoperando tale frasario. Il Caparco per la frase che qualche volta aveva pronunciato la Fuoco, sospettava che costei fosse anche a conoscenza di nominativi di persona con la quale si potesse dire che la di lui moglie lo avesse tradito. Tale alternativa sospettosa, veniva orientata dal Caparco verso Armando Fuoco, fratello di Anna Fuoco. Il Caparco fa anche cenno ad una relazione che secondo lui la Anna Fuoco avrebbe coltivato con tale Antonio Leone, del luogo, con la connivenza della propria moglie.

La perizia psichiatrica: “Il Caparco non era nelle sue capacità di intendere e di volere  nel momento in cui commise i fatti ed è socialmente pericoloso”.

 Il giudice istruttore sulla scorta della segnalazione dei carabinieri ordinò una perizia psichiatrica che venne affidata al prof. Giuseppe Maria, noto psichiatra di Santa Maria Capua Vetere, il quale precisò, tra l’altro… “Ci siamo recati presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere ove il  Caparco era detenuto per dare inizio alle indagini peritali e raccogliere il fatto secondo l’imputato. Il Caparco il racconta che la mattina in cui ha aggredito la moglie, aveva avuto una questione con lei a riguardo di alcuni pioppi di sua proprietà. Ma la questione era finita ed era ritornata la calma in casa, tanto che egli aveva anche portato fuori casa il “Motom”, veicolo di cui ci serviva per il suo lavoro, ed il falcetto, onde recarsi a prendere servizio. Fu preso però da un improvviso furore per cui corse dentro a casa e trovata la moglie la colpì col falcetto. La cosa avvenne anche perché gli era stato detto che la moglie lo tradiva,  e gli era stato detto anche che il nome dell’amante della moglie, in questo mentre vennero altre due donne ed egli  sempre col falcetto colpì anche queste. Aggiunge a mia domanda che egli aveva saputo queste cose riguardanti la moglie da alcuni paesani “che abusavano della confidenza e mi prendevano  in giro”, e inoltre egli aveva bevuto molto liquore la sera precedente al fatto, per una festa in famiglia. Ma ora egli è pentito e vuole tornare a casa sua con i suoi figli, e la moglie, la quale è una brava donna, ed egli non sa perdonarsi di aver creduto a tante calunnie sul suo conto. Afferma di non ricordare tutto di quanto gli capitò quella mattina, molte cose non le può dire proprio perché non le sa”.  Prima di trarre le conclusioni sotto il profilo psichiatrico il Dr. Maria accertò che: Maria Caparco Ippolito dichiarava  da parte sua di non conoscere Silvano D’Onofrio ma di conoscere Armando Fuoco nel cui esercizio andava spendere ed inoltre disse : “mio marito sin dal 1956 e affetto da malattia nervosa e spesso in questo periodo è soggetto ad attacchi“. Il Fuoco dal canto suo dichiarava di non aver mai avuto contatti con la moglie di Angelo Caparco e di non essere mai entrato nell’abitazione di quest’ultimo.  Aggiungendo: “Qualche volta mi sono recato nei pressi della sua abitazione perché ivi tengo in fitto uno scantinato per conservare il vino”.

Antonietta Fuoco dal canto suo dichiarava di non avere amicizie con la famiglia Caparco e addirittura di ignorare dove era situata la di lui abitazione. Amelia Capuano precisava che conosceva il Caparco perché questi frequentava il suo esercizio per bere vino, ma di non avere affermato la frase che le viene contestata. Infine Silvano D’Onofrio  precisava che non era mai stato in casa di Angelo Caparco  e di non sapere  neppure l’indirizzo della abitazione. Ed inoltre di non aver mai conosciuto la moglie e di non saperla neppure additare qualora l’avesse vista.

 

I processi, la condanna a 6 anni e l’influenza della decisione sulla salute mentale.   

 

“Tutte le nostre considerazioni –  precisò in udienza lo psichiatra  Dottor Giuseppe Maria  – debbano prendere le mosse, dal contrasto, dalla mancanza di conformità, dall’assoluta diversità esistenti nelle  due deposizioni  rese ai carabinieri e al  giudice. Sono  così diverse queste di posizioni da far pensare all’intervento di un fattore estraneo, capace di modificare il comportamento del soggetto, il suo modo di vedere, di  giudicare le cose. Il fattore estraneo che ha agito fortemente sulla personalità del Caparco: è l’ambiente carcerario. Non è che questi abbia agito per le restrizioni che impone, e per le limitazioni necessarie, ma solo perché il Caparco sa che finché sarà in carcere, o in un manicomio giudiziario, non potrà continuare a sorvegliare la moglie e i suoi complici ed intervenire al momento, maturato nella sua mente malata, che egli riterrà  opportuno, per la difesa del suo onore e di quello della sua famiglia, anche mancandogli le prove necessarie”. “Il Caparco non ha agito così come ha agito, per un dubbio improvviso che determinò in lui uno scoppio altrettanto improvviso di furore, per cui le azioni da lui compiute non erano predisposti nella sua mente, né da lui volute. Il Caparco invece ha cercato, ha trovato l’occasione per aggredire la moglie e dei suoi complici, in un banale incidente, una discussione tra lui e la moglie sulla convenienza o meno di abbattere alcuni pioppi di loro proprietà. Il periziando da tempo sospettava della moglie, che questa lo tradisse, ora con l’uno ora con l’altro, cioè tanto è vero che egli la spiava, la sorvegliava, ne studiava l’atteggiamento nei suoi confronti e nei confronti della famiglia. E’ il Caparco  stesso che lo dice: “non ho trovato niente di specifico, solo una certa freddezza”, e questo nella  sua mente malata ha assunto l’importanza di prova”. “Così e certo che il Caparco sia un delirante di gelosia, sospettoso, guardingo che elabora la coscienza della realtà secondo il suo errore di critica e di giudizio. Forse l’insorgenza del delirio in Caparco  può essere spiegata, per il fatto che gli poteva avere solo raramente contatti con la moglie per l’astenia che lo affliggeva dovuta ad un esaurimento nervoso da cui era affetto da tempo. Certo e che  Caparco si comportava classicamente come tutti  i deliranti di gelosia, che appena tolti dall’ambiente abituale, si ricredono meglio fanno finta di ricredersi, di aver corretto il loro errore, il riconosciuto, facendo confessioni di colpa. Il Caparco – dopo sei mesi di detenzione – viene interrogato dal giudice ed a questi così risponde: ”Non è vero che mia moglie mi abbia tradito ed io abbia avuto mai sospetti su di lei in tal senso”. Capalco come tutti i deliranti dell’idea di gelosia dissimula. Si potrebbe dubitare che il Caparco è stato un alcolista per cui una volta in regime di astinenza, finiscono i disturbi dell’alcol provocando anche il delirio di gelosia che frequentemente si riscontra proprie negli alcolisti. Per concludere, rispondiamo ai quesiti posti dal signor giudice istruttore, affermando che il Caparco non era nella sua capacità di intendere di volere nel momento in cui commise i fatti di cui è processo, considerando non solo la condizione delirante di cui era affetto, ma anche l’intervento di un probabile fattore tossico occasionale ( alcool). Il Caparco, almeno per il momento, si deve ritenere, dissimuli il delirio per cui è elemento  potenzialmente pericoloso anche socialmente”. La  Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere ( Eduardo Cilento, presidente; Guido Tavassi, giudice a latere; Gennaro Calabrese, pubblico ministero) con sentenza del 22 gennaio 1958  fu condannato ad anni 6 e mesi 4 di reclusione per il tentato omicidio continuato e mesi 2 di reclusione per minaccia grave con arma. La sentenza fu appellata sia dall’imputato che dal pubblico ministero. E l’avvocato Antonio Simoncelli  in difesa di Angelo Caparco, nei motivi di appello chiese, tra l’altro, “di escludere la volontà omicida  in quanto la Corte doveva ritenere il reato di lesioni non già del tentativo di omicidio in quanto non rimase affatto provato che l’imputato colpì per uccidere, mentre al contrario l’avere disordinatamente inferto i colpi, senza una direzione precisa e senza servirsi del mezzo con la violenza necessaria a farlo penetrare in profondità, stava a dimostrare che egli voleva soltanto dare sfogo alla sua ira. A lui, inoltre, dovevano essere concesse le attenuanti dello stato d’ira e del particolare valore morale e sociale. La stessa sentenza della Corte infatti precisa che il comportamento della moglie era contraria ad ogni buon regola morale, lo andare affermando che il marito non la soddisfaceva, dare ricetto nella sua casa alla sorella del suo amante per agevolare la tresca, senz’altro provocò nell’imputato una giusta reazione tale da provocare la sua azione, diretta soprattutto a salvaguardare la moralità della sua famiglia della quale facevano parte anche delle giovani figlie. La pena inflitta è eccessiva – stante la modalità del fatto – , la personalità dell’imputato e gli ottimi precedenti penali e il suo stato di esaurimento nervoso la pena poteva essere ancora contenuta in più modesta misura a seguito della concessione delle attenuanti  generiche”.  La Corte di assise di Appello di Napoli (Presidente, Enrico Avitabile; giudice a latere, Filippo Michelotti; pubblico ministero, procuratore generale Vittorio Valentino),  con sentenza del febbraio 1960, in parziale riforma della sentenza della corte di assise  di Santa Maria Capua Vetere, dichiarava inammissibile, per rinuncia l’appello del pubblico ministero, dichiara non doversi procedere per i reati di minacce con arma perché esclusi per amnistia e dichiara condonati anni 2 dalla pena inflitta.  Nei processi furono impegnati gli avvocati: Ciro Maffuccini e Antonio Simoncelli.