1958, in Sant’ Andrea del Pizzone,  Giuseppe Nacca uccise a coltellate per una partita a briscola  Antonio Ciccarelli e ferì gravemente il padre Felice. – di Ferdinando Terlizzi

 

 

La sera del 7 novembre del 1958, verso le ore 21:30 nella via Roma di Sant’Andrea del Pizzone, all’altezza del bar di Anna Buggiano, il giovane Antonio Ciccarelli venne accoltellato da Giuseppe Nacca  riportando gravi lesioni per le quali decedette di li a poco. I carabinieri, iniziate immediatamente le indagini, ricostruirono  l’accaduto in base alle dichiarazioni rese da Andrea  Giuliano,  Domenico Di ChiaraAntonio Sorvillo,   Antonio Diana, gestore del bar  della Bucciano, e Felice Ciccarelli, padre dell’ucciso. Quella sera, nel bar, il Giuliano, il Di Chiara, il Sorvillo, ed il Felice Ciccarelli, si erano  accinti ad  iniziare una partita a briscola con la posta di 2 birre.  Se  non che intervenne il Nacca  esprimendo il desiderio di partecipare anche lui al gioco e Felice Ciccarelli  gli cedette  subito di buon grado il proprio posto e si sedette dietro di lui.  Quando la partita ebbe termine, risultò vincitrice la coppia Giuliano-Sorvillo, il Nacca prese a redarguire Felice Ciccarelli  accusandolo, ma ingiustamente,  di aver fatto segni ai suoi avversari determinando così la sua sconfitta. Tra i due si accese una discussione che degenerò in colluttazione (a detta del Giuliano e del Diana fu il Nacca ad aggredire il Ciccarelli). Tuttavia i presenti fecero da paciere e riuscirono  a separare i contendenti. Il Felice Ciccarelli  (che grondava sangue dal viso per escoriazioni multiple successivamente constatate anche dal Dottor Silvio Marandola), fu accompagnato fuori dal Giuliano, mentre il Nacca venne trattenuto all’interno del locale dal Ciccarelli. Successivamente il Diana, poiché sembrava ormai tornata la calma, consigliò il Nacca di andarsene. E subito dopo avvenne l’omicidio.  Circa le modalità di questo, però, nonostante fossero stati presente numerose persone poco i verbalizzanti riuscirono ad apprendere. Secondo alcuni accenni fatti dal Felice Ciccarelli e dal Giuliano, il Nacca, uscito dal bar, era stato avvicinato dal figlio del CiccarelliAntonio, ed aveva accoltellato lo stesso, pochi metri oltre la porta del bar, di via Brezza. L’Antonio era fuggito verso la casa della propria nonna – sita nella on vicinanza, ed era  precipitato a terra privo di forze proprio innanzi l’uscio di detta abitazione. Intanto anche Felice Ciccarelli aveva tentato di avvicinarsi al Nacca, ma si era tratto indietro nel vedere il figlio a terra. Infine il Nacca era fuggito in direzione di via Chiesa. Alcune settimane dopo il fatto i carabinieri interrogarono anche tali  Giuseppe Guardiano e Luca Ventre. Costoro confermarono quanto già emerso circa la lite verificatasi nell’interno del bar vallo (il Ventre confermò pure il particolare che era stato il Nacca ad aggredire Felice Ciccarelli). Quanto alla seconda fase dell’incidente precisarono  che Antonio Ciccarelli, sopraggiunto nei pressi del bar poco dopo che il padre, ferito al viso, ne era uscito, aveva rivolto al Nacca – che era ancora nel locale, la frase – :  “mi dovrai dare conto di quello che hai fatto a mio padre“, ma non era riuscito ad entrare perché trattenuto fuori dai presenti.  Poi, quando la questione appariva ormai chiusa, il Nacca era uscito tenendo, a detta del Guardiano,  a che ora uscite, detta del guardiano, la mano destra nella tasca destra della giacca e si era fermato a due metri circa dal bar di via Brezza. Antonio Ciccarelli gli si era  avvicinato ma prima ancora che potesse  toccarlo era stato accoltellato al petto e pertanto era fuggito in direzione della casa della nonna. Il Nacca  si costituì in data 10 novembre 58 nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere ove gli  furono riscontrate lievi escoriazioni al viso ed una contusione al ginocchio destro. Nel corso dell’istruttoria, espletata con il rito formale gli vennero contestati, con mandato di cattura il reato di omicidio volontario gravato per motivi futili ed oralmente quelli di lesioni personali volontarie in danno di Felice Ciccarelli.  Egli sostenne di essersi limitato a protestare garbatamente durante la partita a carte per avere Felice Ciccarelli indicato con segni le sue carta ai suoi avversari, e di essere stato subito aggredito dal predetto con uno schiaffo, anzi con uno schiaffo immediatamente dopo sempre nel locale anche da Antonio  Ciccarelli  il quale gli tirò due pugni.

Che i presenti condussero fuori i Ciccarelli i quali continuarono ad inveire contro di lui minacciandolo;  che dopo circa 10 minuti anche egli uscì sollecitato dal Diana che doveva chiudere il bar e subito venne aggredito  ancora dai due Ciccarelli che lo avevano atteso; che i Ciccarelli – benchè i presenti tentassero di trattenerli – per ben  due volte gli avevano graffiato la guancia sinistra e colpendolo con un calcio; che allora egli estrasse di tasca un coltello, di cui si serviva per la caccia, ma subito dopo l’Antonio Ciccarelli si lanciò per la per la terza volta contro di lui e pertanto il coltello andò a conficcare nel petto del predetto. Una ricostruzione che i magistrati ritennero non veritiera perché il coltello non era da solo andato a conficcarsi nel petto dell’avversario, questo era naturale e logico. Inoltre precisò che si era disfatto del coltello nella fuga, di non avere avuto intenzione di uccidere il Ciccarelli essendo amici.  Le indagini autopsiche misero in evidenza  che il Ciccarelli era stato attinto alla regione anteriore dell’emitorace sinistro, immediatamente al di sotto dell’ areala mammaria, ed alla natica sinistra, sul prolungamento dell’ascella posteriore, 3 cm circa al di sotto della cresta iliaca, da due colpi di coltello; il colpo al petto aveva seguito una  direzione del basso in alto, da sinistra verso destra, dall’avanti all’indietro; che tale  colpo aveva leso il polmone del cuore e cagionato anemia acuta e indi il decesso. Venne pure accertato, attraverso perizia medico-legale che il Felice Ciccarelli era guarito in giorni dieci dalle lesioni riportate, in ordine alle quali produceva querela. Fu altresì espletata l’ispezione della località ove si era verificato l’omicidio, con rilievi fotografici e planimetrici.

Le versioni contrastanti – La complessa istruttoria – La provocazione  – Adombrata la legittima difesa respinta, però, dai giudici –  L’accertamento della verità nel corso del dibattimento –

 

 

Dalle concordi deposizioni rese fin dalle  prime indagini da Felice Ciccarelli e dagli altri testi Antonio Diana,  Andrea Giuliano,  Domenico Di Chiara e Antonio Sorvillo è rimasto pienamente provato che la sera del fatto, nel bar gestito dal Diana, il Felice Ciccarelli, il Giuliano, il Diana e il Sorvillo stavano per iniziare una partita a carte quando intervenne Giuseppe Nacca il quale manifestò il desiderio di prendere anche lui parte al gioco e venne immediatamente accontentato in quanto Felice Ciccarelli cortesemente gli cedette il proprio posto. Felice Ciccarelli uscì dalla lotta con il volto sanguinante per molteplici escoriazioni, come constatato da tutti i presenti e successivamente dal dottor Marandola.  Ma anche il Nacca riportò delle graffiature al volto, come fu constatato dopo l’arresto, graffiature che però erano di ben lieve entità tanto è vero che, tranne il Guardiano, nessun altro ebbe annotarle. Sopraggiunge poi Antonio Ciccarelli, figlio di Felice che, visto il padre in strada con il volto sanguinante ed appreso l’accaduto, minacciò il Nacca e lo invitò a vedersela solo con lui. Ciò risulta dalle deposizioni di Luca VentreGiuseppe GuardianoAndrea Giuliano, e Domenico Di Chiara i quali però escludono che Antonio Ciccarelli sia entrato nel bar e si sia  avventato addosso a Nacca come questi assume. Dopo una pausa di alcuni minuti il Diana, poiché era ora di chiudere il locale, sollecitò il Nacca e gli altri avventori ad  uscire. Ma il prevenuto, non appena fu in strada, ove erano ancora molte persone, tra cui Antonio Ciccarelli  e Felice Ciccarelli, quest’ultimo a qualche decina di metri di distanza, presso il campanile, in compagnia del Giugliano, che gli asciugava il sangue che gli colava dalle ferite, si scontrò, come è pacifico, con Antonio Ciccarelli e lo accoltellò al cuore e alla natica sinistra cagionandogli le ferite gravi che lo condussero a morte di li a poco.

 

Ed in dibattimento precisò che l’ultima volta che Antonio Ciccarelli lo assalì si verificò una colluttazione e che durante quella colluttazione il Ciccarelli dovette essere colpito sia al petto che alla natica. Tali versioni sono state ritenute dagli inquirenti in contrasto tra loro ed in taluni punti addirittura assurde, come per esempio li ove si accenna un quasi suicidio di Antonio Ciccarelli, ma del tutto smentito dalle risultanze processuali le quali inducono ad escludere che dopo l’uscita del Nacca dal bar vi sia stata una colluttazione. Invero Felice Ciccarelli afferma di essersi limitato a fare il gesto di avvicinarsi al Nacca quando questi gli passò vicino, armato di coltello, e ciò dopo l’omicidio. E questa affermazione trova conferma in quella concorde del Giuliano. E le parole di minaccia e di sfida pronunziante dal Ciccarelli intervenuto in difesa del genitore, verso il Nacca, che era ancora trattenuto nel locale; la sosta dei due Ciccarelli nei pressi del bar; il fatto che quando il Nacca, di lì a qualche tempo uscì dal locale, mossero verso di lui, per colluttare ancora, prima il Ciccarelli Antonio, e poi, dopo che il giovane era caduto ferito, il Felice Ciccarelli, non consentono di attribuire ai due Ceccarelli il ruolo di provocatori neppure nella seconda fase del delittuoso episodio. La reazione verbale di Antonio Ciccarelli, la attesa e l’avvicinarsi, sia pure con l’intento di colluttare, dello stesso e del padre, che erano entrambi del tutto inermi, non furono che una risposta; non certo sproporzionata, all’iniziale provocazione compiuto dal Nacca nel bar, una risposta quindi da questi accettata come logica reazione. E pertanto anche nella fase terminale dell’episodio, nella quale si verificò l’uccisione dell’Antonio Ciccarelli, al Nacca, originario provocatore, deve negarsi lo stato di legittima difesa, ed ovviamente anche quello di eccesso colposo in legittima difesa, come pure l’attenuante della provocazione.

 

Fu condannato a 19 anni per la sua incensuratezza – In appello la pena fu ridotta ad anni 14. Ritenuta non veritiera la ricostruzione dell’accaduto da parte dell’imputato  – La Cassazione rigettò il ricorso –

 

Il Nacca fu accusato di omicidio volontario aggravato perché aveva cagionato la morte di Antonio Ciccarelli, colpendolo in pieno petto con una coltellata e ferendolo alla regione glutea e ciò – secondo l’accusa – per motivo futile e ciò a seguito di un litigio avvenuto in precedenza per un gioco di carte con il padre del suddetto Ciccarelli. Per avere, inoltre, procuratore lesioni volontarie al viso, con la stessa arma di punta e taglio a  Felice Ciccarelli. “Il suo coltello colpì la vittima al petto trapassando il cuore ed il polmone, ed alla natica sinistra, non lontano dalla regione lombare. Pertanto egli facendo uso di un mezzo idoneo ad uccidere, chiarì  il pubblico ministero nel corso della sua requisitoria –  colpì, e volle colpire, (“il coltello è guidato sempre dalla mano che affonda lì ove si vuole che affondi“. N.d.A.), parti vitali del corpo ripetutamente, con estrema violenza. E dal concorso di tali circostanza emerge una volontà diretta non a ferire, a produrre soltanto delle lesioni, ma diretta invece a produrre la morte della vittima”. La Corte, tuttavia, nella motivazione della condanna (19 anni) chiarì che aveva ritenuto di escludere l’aggravante del motivo futile. Chiarendo che…”Se è vero che alla scaturigine del fatto non vi fu una banale questione di gioco, e altrettanto vero però che quell’incidente degenerò in una colluttazione tra l’imputato e il Felice Ciccarelli; che nel corso della colluttazione entrambi i contendenti riportarono lesioni; che seguirono parole di minacce di sfida da parte di Antonio Ciccarelli; di guisa che venissero ad aggiungersi, anzi a sovrapporsi, all’iniziale, trascurabile motivi di risentimento reciproco, oltre, e ben più consistenti ragioni di astio, idonee di per se  ad eccitare vivamente gli animi, e quindi non assolutamente sproporzionate al delitto verificatosi. Specialmente poi per chi conosce la impulsività, la bellicosità, il culto del proprio prestigio degli abitanti dei nostri paesi, non può destare meraviglia che è una lite, sia pure solo sorta per un episodio trascurabile, ma conclusasi con reciproche lesioni e con espressioni di minaccia e di sfida da parte di taluno dei contendenti, possa condurre ad uno scontro mortale”. La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Prisco Palmieri; giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero, Vittorio Ferone), con sentenza del 30 settembre 1960, con la concessione per tutti i reati delle attenuanti generiche in considerazione della sua condotta precedente al fatto che è immune da ogni censura e pertanto rivelatrice di una personalità non ancora traviata nonché della circostanza che i delitti di lesioni e di omicidio furono da  lui per un improvviso impulso – nella convinzione – sia pure infondata, di essere lui il provocato. Tenuto conto dei criteri tutti indicati ed in particolare delle modalità del fatto e della personalità del reo – stimò fissare la pena per l’omicidio ad anni 22, da ridursi per le attenuanti generiche ad anni 19 di reclusione. La Corte di Assise di Appello di Napoli con sentenza dell’11 dicembre del 1962 ridusse la pena ad anni 14 di reclusione. La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza dell’ 11 ottobre del 1963 rigettò il ricorso. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Antonio SchettinoCiro MaffucciniGiuseppe IraceAlfonso Martucci e Guido Cortese.