1957,
Vincenzo De Falco tentò di uccidere Nicola Ucciero sparandogli contro alcuni
colpi di pistola andati a vuoto. Mezzogiorno di fuoco alla rotonda di Villa
Literno per un furto di cocomeri – Due pessimi sparatori si affrontarono
sparando all’impazzata ma rimanendo entrambi illesi di Ferdinando Terlizzi
Nel 1960 il 26 aprile, il
Presidente della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, Dr. Prisco Palmiero, ebbe il suo bel da
fare in quanto, nel giorno fissato per la celebrazione del processo per tentato
omicidio, nel quale erano coinvolti gli imputati Ucciero e De Falco, era già stato fissato un altro importante
processo. Tant’è che quella mattina si erano presentati in cancelleria 9
giudici popolari assegnati alla III sessione che erano stati estratti per la
costituzione della giuria di quella sezione.
E il cancelliere Domenico Aniello dovette annotare “…
poiché è ancora in funzione la Corte di Assise costituita per la seconda
sessione, non essendo stato ancora definito il processo a carico di Antonio Mangiafridda ed altri 3
imputati di omicidio aggravato in persona di Salvatore Carnevale; in conformità dell’autorizzazione della
Presidenza della Corte di Appello di Napoli
differisce l’inizio della III
sessione con il seguente ruolo”.
E’ un inciso che mi è piaciuto
evidenziare perché il processo per l’assassinio del sindacalista siciliano
Salvatore Carnevale, celebratosi appunto nella nostra città per legittima
suspicione, fu il primo processo di mafia tenutosi nel continente ed assurto
agli onore della cronaca per la grande rilevanza di alcuni personaggi. Eccone
alcuni, da Carlo Levi (autore di Cristo
si è fermato a Eboli), che scrisse un libro sul processo: “Le
parole sono pietre”; a Sandro
Pertini, futuro presidente della Repubblica, che difese la Francesca Serio, madre del sindacalista
della Cgl assassinato dai campieri siciliani; per arrivare poi a Giuseppe Garofalo, che su esortazione
di Pietro Nenni fu incaricato di
rappresentare la parte civile. Se si considera poi che la fase istruttoria a
Palermo era stato curata dal procuratore della Repubblica Pietro Scaglione, ucciso poi nel 1971 da Luciano Liggio, si arriva a capire l’importanza storica di questo
processo culminato con il clamoroso verdetto.
la Corte di assise di Santa Maria presieduta da Prisco Palmiero, infatti, condannò i 4 campieri di Sciacca
all’ergastolo); mentre la Corte di assise di Appello, con l’aggiunta della
difesa di Giovanni Leone, altro
futuro presidente della Repubblica, per gli imputati (ma c’erano anche Pompeo Rendina e Alfredo De Marsico ) assolse tutti con formula dubitativa. Ma
ritorniamo al processo di cui oggi trattiamo i risvolti.
Nel 1957, in Villa Literno – Vincenzo De Falco tentò di uccidere Nicola Ucciero, sparandogli
contro alcuni colpi di pistola andati a vuoto. L’Ucciero a sua volta fece la
stessa cosa… ma erano, evidentemente,
pessimi tiratori. Infatti il giudice istruttore Bernardino De Luca fu costretto ad affidare al colonnello
dell’esercito Sebastiano Vicinanza,
una perizia balistica per dipanare il bandolo della sparatoria. Furono proposti
al perito i seguenti quesiti: …”Eseguire sopralluogo ove si svolsero i fatti,
procedere a perizia balistica sulle scalfitture rilevate su di un muro di
abitazioni dai carabinieri e accertare se la scalfittura sul muro di
un’abitazione di fronte alla cunetta stradale nella quale trovavasi appiattato
il De Falco, se sia stata prodotta di recente ed in particolare se sia stata
cagionata dall’urto di un colpo di arma da fuoco. Nell’affermativa dite di chi arma trattasi da
quale direzione ed a quale distanza sia stato sparato il colpo. Nel caso vi sia
stata ritenzione di colpi procedete al prelievo ed ai reperti degli stessi. È
interessante considerare che un eventuale tiro effettuato dal fosso antistante
l’abitazione di Nicola Paone contro un individuo sulla strada di saggio di
sette 8 m. e sopraelevata rispetto al territorio di almeno metri uno e 50 non
potrà mai procurare una traiettoria parallela al piano stradale, ma certamente
sarà inclinata verso l’alto rispetto a questa di almeno 10°. Conseguentemente
una traiettoria relativa ad un bersaglio distante sette 8 m. ed alto rispetto
all’origine metri 1,50 (altezza media degli organi vitali) alla distanza di 20 25 metri non può che avere un’altezza di almeno m.
3 rispetto all’origine ( piano stradale)
e mai più può procurare a tale distanza
un impatto alto m.1,72 da tale piano di
riferimento. Si può pertanto concludere e rispondere al quesito, affermando che
le scalfitture a suo tempo rilevate dei carabinieri di Villa Literno sul muro
dell’abitazione di Pasquale Paone e che sono state mostrate dagli stessi
militi: comunque in considerazione dell’altezza del suolo troppo basso rispetto
a quello che avrebbe dovuto essere e sia per le osservazioni fatte in sede di
esame delle scalfitture e di confronto con le prove sperimentali, è da
escludere che esse possono essere state cagionate dall’impatto o da striscia di
proiettili lanciati da pistola”.
La ricostruzione dell’antefatto e l’istruttoria giudiziaria. Ucciero
pronunciando la frase: “carogna devi morire”, aveva estratto una pistola ed
aveva fatto fuoco quattro volte contro l’avversario
Verso le ore 18:00 del 26 settembre del
1957 Antonio De Falco denunciava i
carabinieri di Villa Literno che poco prima suo fratello Vincenzo, mentre transitava e in sua compagnia in bicicletta e per
la via Vittorio Emanuele del Comune di Villa Literno all’altezza del mulino,
era stato improvvisamente fatto segno di alcuni colpi di pistola,
fortunatamente andati a vuoto da parte di un certo Nicola Ucciero. Accorsi immediatamente sul luogo della sparatoria i
verbalizzanti rinvenivano nell’abitazione di tale Vincenzo Diana il Vincenzo
De Falco. Questi, che era in stato di notevole eccitazione, raccontò che
circa un mese prima aveva sorpreso in un suo fondo in località ”Quarto di Mezzo”, Nicola
Ucciero che rubava dei cocomeri e pertanto era venuto con lo stesso a via
di fatto cagionandogli delle graffiature al viso. E si era, comunque, astenuto
di denunciare il furto; se non che l’Ucciero
più volte l’aveva seguito con l’evidente intenzione di vendicarsi ed
allora egli si era recato in caserma dei carabinieri per farlo diffidare a non
più molestarlo; che alle 17:15 quel giorno egli suo fratello si erano diretti
in bicicletta dal proprio potere verso l’abitato di Villa Literno e in località
“Schiavone” aveva scorto l’Ucciero
che era seduto sul ciglio della strada con una bicicletta a fianco; che
l’Ucciero poco dopo essere stati da loro sorpassato, li aveva raggiunti presso
il mulino, e, pronunciando la frase: “carogna
devi morire”, aveva estratto una pistola ed aveva fatto fuoco circa quattro volte alla sua
direzione, alla distanza di circa 6 metri;
che gli aveva abbandonato la bicicletta e si era gettato nel canale che
fiancheggiava la strada dopo di che suo fratello era corso in caserma e
l’aggressore si era allontanato. Tale versione fu confermata da Antonio De Fuoco. Secondo i testi Francesco Uccciero, Nicola Paone, e Giuseppe Falcone, interrogati subito topo, invece anche il Vincenzo
De Falco aveva fatto fuoco con una pistola dal fosso in cui si era riparato, ed
i colpi erano stati in tutto cinque o sei. I carabinieri non riuscirono a trovare sul
luogo della sparatoria nè armi nè bossoli nè proiettili bensì notare
nell’intonaco di un muro di un’abitazione, sita ti rimpetto al fosso ove si era
riparato il Vincenzo De Falco, una scapolatura
che ritennero prodotta da colpi di pistola. A seguito di tali risultati,
oggetto del rapporto, si procedeva con il rito formale e con mandato di cattura a carico del Nicola Ucciero, resosi irreperibile e
del Vincenzo De Falco denunziato
invece in stato di fermo, per reciproco tentato omicidio, e per le contravvenzioni di detenzione e
porto abusivo di pistola e spari luogo abitato. Innanzi all’istruttore Vincenzo De Falco ripeteva la versione
fornita ai carabinieri. Venivano escussi i testi già sentiti durante le prime
indagini i quali confermavano le deposizioni già rese, con alcune precisazioni
(il De Falco Antonio riferiva che
prima di giungere presso il mulino egli e suo fratello e Nicola Ucciero si erano sorpassati più volte a vicenda), nonché Vincenzo Diana e la moglie Maria
Bocchino e tale Aurelio Mantovanelli,
i quali, però, non seppero fornire precisi elementi per la ricostruzione del
fatto in quanto – a loro dire – si erano rifugiati nelle abitazioni circostanti
non appena sentirono sparare. Indi il giudice istruttore, ritenendo
che l’Ucciero dovesse rispondere anziché di tentato omicidio di tentate di
lesioni con arma, revocava il mandato di cattura emesso nei suoi confronti e rimasto ineseguito e egli contestava con mandato di comparizione
i reati di tentata omicidio lesione con l’arma. L’Ucciero si presentava a
rendere l’interrogatorio ed affermava di aver fatto fuoco in risposta agli
spari del Vincenzo De Falco, senza
intenzione di uccidere il medesimo e che il litigio si era verificato per avere
dei suoi operai sottratto i cocomeri nel fondo del De Falco.
Il giudice istruttore
disponeva la scarcerazione di Vincenzo
De Falco, e ordinava il rinvio dell’Ucciero al giudizio del pretore di Trentola per
rispondere del delitto di tentata lesione con arma così degradato l’imputazione di tentato
omicidio. Il pretore di Trentola, con ordinanza dibattimentale del 24 aprile
del 1958, ritenuto che in base al materiale probatorio valutato dall’istruttore
la imputazione di tentato omicidio originariamente contestata all’Ucciero fosse
esatta sollevava conflitto di competenza. La suprema Corte di Cassazione, con
sentenza del 10 luglio del 59 risolvendo il conflitto, affermava che l’Ucciero
doveva effettivamente rispondere di tentato omicidio. Infine il giudice
istruttore con nuova sentenza dichiarava non doversi procedere a carico dell’Ucciero
per le contravvenzioni nel frattempo era stata concessa (con decreto presidenziale l’11
luglio del 1959 con il numero 460) amnistia. Ed in conformità della
statuazione della corte di Cassazione il
rinvio dello stesso innanzi la Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere per
rispondere di tentato omicidio e ordinava la cattura dell’Ucciero che veniva
arrestato il 13 novembre del 1959. Nel dibattimento l’Ucciero, al quale veniva
contestata la recidiva specifica infra quinquennale, il Vincenzo De Falco e gli
altri testi confermavano quanto già dichiarato. Il De Falco aggiungeva di
essere stato interamente risarcito dall’Ucciero per i danni subiti. Sostengono
i De Falco che l’Ucciero, che era in quel momento alle loro spalle,
all’improvviso pronunciò le parole “carognone
devi morire” ed esplose da pochi metri con la sua pistola circa quattro
colpi in direzione di De Falco Vincenzo,
il quale si gettò in un fosso che fiancheggia la strada è rimase incolume e non rispose al fuoco essendo del
tutto inerme; afferma invece lo Ucciero che fu il De Falco a sparare per primo
con una pistola e che egli, facendo fuoco a sua volta, non si propose affatto
di uccidere l’avversario. È però logico ritenere che sia stato l’Ucciero ad
aggredire il De Falco Vincenzo e non viceversa. A tale conclusione deve pervenirsi
ove si consideri che mentre l’Ucciero aveva, come si è visto, motivi di
vendetta nei confronti del De Falco, ed aveva manifestato di avvertire le
esigenze della vendetta, al contrario il De Falco dopo la lite per il furto dei
cocomeri conclusasi in suo favore non aveva alcun interesse a riaccendere la
questione, ed infatti benché seguito in strada dallo avversario non aveva dato esca a nuovi
incidenti bensì si era limitato a farlo diffidare dai carabinieri. E’ agevole rispondere che il De Falco si riparò
sì nel fosso ma da questo faceva capolino per sparare, onde difendersi, verso
l’Ucciero che era pochi metri da lui sulla strada - come
si arguisce dalla deposizione dei testimoni - per il modo che egli rimase pur
sempre risposto ai tiri dell’aggressore che costituirono dunque atti idonei a
cagionare la morte la quale non ci verificò solo per una fortunata
combinazione. E circa l’argomento difensivo esso induce a ritenere che il
prevenuto, pur pensando come si è visto da tempo alla vendetta, dovette decidersi
a compiere l’aggressione solo all’ultimo momento non già che sia più probabile
che il medesimo abbia avuto l’idea di
minacciare anziché quella di colpire l’avversario: evidente infatti che anche
per compiere una semplice minaccia conveniva all’Ucciero carpire il momento più
adatto, quando l’avversario era solo, e non esporsi inutilmente percorrendo
presso di lui o avanti a lui il lungo tratto di strada tra la località “Schiavone” ed il luogo del delitto. Comparso,
infine, innanzi la Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere (Prisco Palmiero, presidente; Guido Tavassi, giudice a latere; Rosa Avella, Elisabetta Serra, Vincenzo
Diana, Giulia Della Villa, Ernesto Andreucci, Antonio Salzillo, Tarcisio Greso,
Mario Massarotti, Olindo De Filippo, giudici popolari) Nicola Ucciero di anni 27, con sentenza del 13 novembre del
1959, fu condannato per tentato
omicidio, con le attenuanti del risarcimento del danno e con la concessione
delle attenuanti generiche e con l’aggravante della recidiva specifica
infraquinquennale ad anni 4 e mesi 3 di
reclusione. Giuseppe Garofalo, difensore di Nicola Ucciero in seguito alla
condanna propose appello motivando lo stesso con i seguenti argomenti: “andava riconosciuta la legittima difesa o
quantomeno eccesso colposo di legittima difesa; doveva escludersi la volontà
omicida e doveva, data le modalità del
fatto che diedero origine al delitto la
pena andava ridotta al minimo essendo sproporzionata. In sostanza
- concluse l’avvocato Garofalo, l’Ucciero e De Falco ciascuno
preoccupato delle intenzioni dell’altro, diedero luogo ad una smargiassata che
si esaurì in molto rumore senza conseguenze”. La Corte di assise di appello
con sentenza del 16 gennaio 1961 confermò la predetta condanna. Nei processi furono impegnati gli avvocati Mario Zarrelli, Giuseppe Garofalo e Antonio
Simoncelli.
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