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mercoledì 1 novembre 2023




«L’Urbe
è un immenso cimitero
brulicante di vita»
Fellini

Fellini
di Indro Montanelli
Corriere della sera, sabato 2 gennaio 1960
Sere fa, Federico Fellini mi ha invitato a vedere in privato il suo ultimo film La dolce vita. Confesso che ci sono andato con qualche apprensione: e non tanto per i pareri molto discordi che avevo udito da coloro che avevano visto alcune scene isolate, quanto perché, parlando ogni tanto con lui, avevo avuto l’impressione che Fellini avesse perso il senso della misura. L’uomo, di solito pacato e abbastanza staccato dal proprio lavoro, stavolta m’era parso che non sapesse uscirne nemmeno quando veniva a cena con me. Se gli parlavo di altre cose, mi fissava con l’occhio vitreo di chi non ascolta. E gira gira, il discorso tornava sempre lì.
Questa storia andava avanti da un anno, perché è da un anno che Fellini sgobba quattordici o quindici ore al giorno dietro a questa pellicola su cui evidentemente, rischiando grosso, ha puntato tutto. Non la finiva mai. Non la rifiniva mai. Non so quante decine di migliaia di metri ha ammatassato nei rulli. Non so quante volte ha fatto, disfatto e rifatto interi episodi per eliminare o aggiungere una virgola.
Non avrei voluto essere, fino all’altra sera, il suo produttore, a cui credo che questa dolce vita ne abbia procurata una da cane. Ma ora, a cose fatte, non credo che lo rimpiangerà. Non voglio commettere indiscrezioni anticipando, sul piano dell’estetica e della tecnica cinematografica, dei giudizi che spettano in esclusiva al mio collega Lanocita. Non saprei nemmeno farlo, del resto, perché me ne mancano i rudimenti. Ma non c’è dubbio che qui ci si trova di fronte a qualcosa di eccezionale, non perché rappresenti un meglio o un di più di ciò che finora si è fatto sullo schermo, ma perché ne va nettamente al di là, violando tutte le regole e convenzioni, a cominciare da quelle della durata, che supera le tre ore di spettacolo, per finire a quelle della trama, o meglio della non trama, perché non c’è.
Ancora oggi mi chiedo come avrà fatto Fellini a “raccontare” questo suo film al produttore, e non vorrei essere nei panni del critico quando dovrà a sua volta raccontarlo ai lettori.
Non siamo più nel cinematografo, qui. Siamo nel grande affresco. Fellini secondo me non vi tocca vette meno alte di quelle che Goya toccò in pittura, come potenza di requisitoria contro la sua e la nostra società. Ed è di questo che voglio parlare. Fellini, prima di fare il cineasta, è stato giornalista.
E di un giornalista qui si serve per cucire i vari episodi del film, descrivendoli attraverso altrettanti fatti di cronaca, che lo conducono all’esplorazione della società romana in tutti i suoi ceti e quartieri, dal palazzo del Principe, ai covi intellettuali di via Margutta, all’appartamento dei nuovi ricchi dei Parioli, ai caffè di via Veneto, ai tuguri delle passeggiatrici in periferia, ai terreni vaghi delle bidonvilles che ne formano la cintura sottoproletaria.
Ecco, qui siamo dunque nel mio mestiere, ed è sull’esattezza del resoconto che mi sento autorizzato a pronunciarmi. Molti la negheranno, questa esattezza, e speriamo che lo facciano in buona fede, cioè credendo veramente che il ritratto sia arbitrario. Ma io in tutta onestà debbo dire che se Mastroianni, il quale interpreta la parte del protagonista, avesse saputo raccontare con la penna, per un giornale di cui io fossi il direttore, le stesse cose che ha raccontato con la macchina da ripresa di Fellini, e con la stessa evidenza, gli avrei triplicato lo stipendio. Il suo reportage non è una “patacca”. Il poco – oh, molto poco! – che vi luce è proprio oro. E il molto che vi puzza è proprio fogna. Del resto, se così non fosse, il film sarebbe fallito come falliscono i reportages quando eludono la verità o non riescono a centrarla.






Quindi, amici, vi prevengo se domani La dolce vita vi farà inorridire, non confutàtela dicendo: “Non è vero”. Perché per esser vero, tutto ciò che qui è raccontato, lo è. D’altronde Fellini è ricorso al mezzo più spicciativo (e più diabolico) per dimostrarlo. Egli ha fatto incarnare a ciascuno la parte di se stesso, a cominciare da Anita Ekberg, che fa appunto Anita Ekberg, con le follie e le scempiaggini che compie abitualmente Anita Ekberg, e perfino con gli sganassoni che di tanto in tanto riceve dal marito di Anita Ekberg. E fin qui, niente di straordinario, visto che Anita Ekberg fa di mestiere Anita Ekberg ed è pagata appunto per questo. Ma quando poi egli ha voluto rappresentare il mondo aristocratico, non è agli attori che è ricorso per impersonarne i tipi, sibbene alle gentildonne e ai gentiluomini con nomi altisonanti e blasoni a molte palle che lo popolano e che hanno trovato del tutto naturale accettare l’invito mettendo a disposizione le loro ville e se stessi.
E non per una delle solite parodie, che a furia di essere convenzionali e di maniera non mordono più, del solito marchese col solito monocolo e la solita erre moscia. Eh, no. Fellini ha affondato il suo bisturi fino all’osso. E del loro mondo e dei loro costumi, reso più vero dalle facce vere, ha dato un ritratto, anzi un autoritratto, agghiacciante, che del resto la gentile e volontaria collaborazione dei protagonisti convalida. Anche chi non li conosce dovrà pur rendersi conto che, se essi hanno accettato di dipingersi così, vuol dire che non sono meglio. E, badate, non si tratta di libertinaggio. Magari così fosse. La morale non c’entra. C’entra solo il gusto. Ma mi affretto subito ad aggiungere che La dolce vita non è una polemica a sfondo giustizialista, che appunta i suoi strali sulle cosiddette classi alte. Non convincerebbe, in questo caso, o convincerebbe meno. Gli altri ambienti, che si srotolano giù giù negli appunti di questo reporter d’eccezione, sono descritti con la identica spietatezza, convalidata dalla stessa tecnica di rappresentare ciascuno nei propri panni. Lasciatemi testimoniare in tutta onestà che raramente ho visto qualcosa di più vero di quel salotto intellettuale. Esso ha dato perfino a me, che non ne frequento nessuno, un senso profondo di mortificazione, un vago anelito a cambiar mestiere e a iscrivermi, fo’ per dire, ai coltivatori diretti. Dio mio, che tristezza, che miseria, quei discorsi, quelle facce, quel fasullume! Siamo noi, quei tipi?
Sì, siamo noi, Dio ci perdoni. Quelle son le cose che diciamo (e che non pensiamo) quando ci si trova insieme. Quelle son le nostre bugie. Quelle son le nostre vanità. Quelle son le donne che ci ruotano intorno, o intorno a cui noi ruotiamo, che hanno tutto incerto, anche il sesso. No, il ritratto di questa società non migliora, quando si passa dal palazzo del Principe al salotto della poetessa o all’atelier della pittrice. Cambia stile. Ma resta nel meschino, nel dialettale e nel falso. E non migliora nemmeno quando si arriva al fondo della scala, a quello che la retorica proletaria chiama il “sano popolo lavoratore”, nei terreni vaghi delle bidonvilles, dove ogni tanto la Madonna appare. Non la si vede, grazie al Cielo è l’unica che abbia rifiutato l’invito di Fellini a recitare la parte di se stessa. Ma sono dei bambini a dire, istigati dai genitori, che l’hanno vista. Ed ecco montarsi, intorno a questa bugia, una di quelle atmosfere di miracolo italiane in cui la fede e la speculazione, l’ingenuità e il calcolo si attorcigliano sino a comporre un’allucinante e avvilente scena di sacrilegio pagano. È quella la nostra religione? Sì, è quella. Anche qui Fellini ha detto la verità ed è inutile cercare di difendersene negandola e ficcando la testa dentro il cespuglio come lo struzzo.
Si capisce che anche fra noi c’è chi sa pregare davvero, e non ha bisogno di veder la Madonna per crederci. Ma il tono lo danno quelle folle scettiche e idolatre, che per Grazia intendono i numeri del lotto e non conoscono il solitario rapimento della contemplazione di Dio, ma solo le isteriche suggestioni collettive. Non so se il pubblico potrà vedere per intero questo straordinario (e terrificante) documento sul costume italiano, perché mi hanno detto che ci sono delle difficoltà con la censura. Personalmente non ne vedo proprio i motivi, cioè li vedo, ma non li accetto. Forse La dolce vita darà a qualche spettatore la voglia amara di togliersela. Ma, a parte il fatto che il nostro cinema non ha mai prodotto niente di comparabile a questo film, non ravviso in esso nulla di negativo. Intendiamoci: non è che Fellini condanni esplicitamente ciò che rappresenta. Al contrario, la sua macchina da presa non ha un trasalimento. Egli analizza le viscere di Roma con la stessa impassibilità con cui Austoni analizza quelle dei suoi pazienti. Non cerca nemmeno di giustificare le scene piccanti che abbondano nella pellicola, col facile ma logoro alibi della “denunzia”.
Perché specialmente qui in Italia, con la scusa della “denunzia”, da tempo si contrabbanda ogni sorta di scollacciature e di volgarità. No, no, egli lascia parlare i suoi fotogrammi da soli. E se questi fotogrammi, presi uno per uno, ci fanno disperare di noi stessi e di tutto, sommati insieme ottengono l’effetto, che mi sembra tutt’altro che da buttar via, di togliere alla dolce vita ogni fascino e di farla apparire qual è: molto, molto amara. A questo risultato, che ha l’aria di non cercare, Fellini non giunge per vie facili e risapute. Alla dolce vita egli adesca col petto travolgente di Anita Ekberg e con la eccitante canaglieria di Magali Noël. L’aristocrazia la incarna non secondo il solito, in vecchie mummie, ma in giovani, belle creature, che fanno cascar le braccia solo quando aprono bocca, ma per fortuna l’aprono di rado. Le orge sono proprio quelle che sognano i nostri ventenni vitelloni di provincia, e lo spogliarello lo fanno fior di ragazze che da esso non hanno nulla da perdere. Voglio dire insomma che il peccato e il vizio sono presentati su un piatto d’argento, senza verdetti di condanna esteticamente sbagliati e didatticamente inutili, perché, Dio mio, non convincono nessuno.
Eppure, alla resa dei conti, questo ritratto della società romana non ispira che un senso di squallore, di noia, di solitudine, e di pietà per i suoi protagonisti. A Fellini occorrono tre ore per condurre lo spettatore a questo risultato, e anche perciò i tagli sarebbero un grosso sbaglio. Se il censore è intelligente (ma può esserlo, un censore?), lasci che questa sconvolgente “cavalcata” proceda senza intoppi fino al traguardo, che forse Fellini non si proponeva nemmeno, ma che con sicurezza raggiunge: quello di mostrare al pubblico che la dolce vita è una vita opaca e triste, dove più che ricercare il piacere si fugge la disperazione. E inesorabilmente vi si ripiomba. Caso mai, se ne avessi l’autorità, io proporrei che questo film, invece che ai minori di sedici anni come al solito, venisse proibito ai maggiori di sessanta. Perché credo ch’esso metta più in pericolo l’innocenza dei nostri babbi che quella dei nostri figli.
Indro Montanelli



La dolce vita
di Marmidone
L’Europeo, 21 febbraio 1960
Indro Montanelli, dietro lo pseudonimo di Marmidone con cui firmava sull’Europeo, rispose nel 1960 all’ondata perbenista che si era levata contro La dolce vita di Federico Fellini. Dopo un suo pezzo entusiasta sull’opera, un lettore gli scrisse: «Spero che anche lei vorrà levare la voce contro l’infame film di Fellini, La dolce vita, che tanto discredito getta sul nostro Paese». E lui rispose con questo articolo, che ora fa parte di Indro Montanelli. Contro ogni censura”, a cura di Guendalina Sertorio (ed. Rizzoli).

Lei evidentemente è uno di quelli che hanno fischiato il film e il suo autore. È il suo diritto. Ma non la invidio, perché si trova in compagnia di coloro che di questo diritto hanno abusato insultando Fellini, e perfino sputandogli addosso (…). La violenta e scomposta protesta del pubblico milanese (…) testimonia il rifiuto a riconoscere la verità. Prevedo le obbiezioni: qualcuno mi dirà che questa non è la verità. Ed è un punto su cui dobbiamo preventivamente intenderci. È molto probabile che anche i romani di diciotto secoli orsono obbiettassero che Tacito non diceva la verità quando, confrontandoli alle virtù morali e guerriere dei barbari, faceva il ritratto che tutti sanno dei vizi romani (…). Ma ciò non impedisce che la Storia abbia dato ragione a Tacito, e che abbia trovato valido il ritratto suo, non quello dei suoi contraddittori (…).
La verità è sempre composita. Nessuno si è mai sognato di sostenere che tutte le signore di provincia francesi del secolo scorso fossero delle Bovary. Ma nessuno, spero, vorrà negare che quella di Flaubert le riassume tutte e ne costituisce l’esemplare più compiuto. Nessuno ha mai voluto sostenere che tutti i giovani francesi che furono giovani dopo Waterloo erano come i personaggi di Stendhal. Ma nessuno vorrà negare ch’è stato Stendhal a darcene il ritratto più persuasivo. Disturbo a ragion veduta questi grandi personaggi della letteratura, perché Fellini, pur servendosi di un altro e più labile mezzo espressivo, ha raggiunto i loro stessi risultati. L’obbiezione che egli abbia, di proposito, voluta cogliere di Roma soltanto gli aspetti più negativi, è semplicemente idiota. Si capisce, ed è sempre sottinteso, che un artista coglie soltanto certi aspetti, e non certi altri. L’arte, si sa, è scelta.
Ma io sfido tutti quei gentiluomini e quelle gentildonne che lo hanno fischiato e insultato in nome della loro moralità offesa, a dirmi, occhi negli occhi, se è vero o non è vero che esiste una Roma come quella della Dolce vita. E se mi rispondono di no, mi dicano allora che cosa leggono, quando aprono il giornale. È Fellini che ha inventato quegli affari di cocaina in cui sono regolarmente implicati alcuni tra i più bei nomi dell’aristocrazia italiana? (…) O non è, tutta l’Italia, un sussurro sugl’intrallazzi, sui mercimoni, sulle orgette che si perpetrano nella nostra cara Capitale? O non è la via Veneto di Fellini la via Veneto che tutti conosciamo e di cui tutti, un po’ più un po’ meno, ci scandalizziamo: questa fiera delle vanità, questo grande Barnum delle tresche e dei sotterfugi, dello sfacciato e del fasullo? Se è vero quanto riportano i giornali, hanno gridato a Fellini: “Traditore!… Ci getti nelle braccia dei comunisti”. E forse glielo hanno gridato in buona fede, convinti di quello che dicevano. Già, perché noi viviamo in un Paese in cui il delitto consiste non nel farle, ma nel dirle. Ah, come vorrei condividere la ingenua fede di questi poveri sprovveduti, i quali credono che i comunisti stiano aspettando Fellini per misurare fino a che grado di decomposizione è giunta la nostra società borghese. Come se Togliatti e compagni vivessero in Russia o sulla luna. Sono italiani anche loro, amici miei, vivono in mezzo a noi, e ci guardano. Credete che non abbiano la vista abbastanza buona per vedere ciò che noi d’altra parte ci guardiamo bene dal nascondere?
Lungi dal mimetizzarsi fra la gente qualunque, i nostri sceicchi passano sulle “fuori-serie” rombanti, i nomi delle loro amiche sono sulle bocche di tutti, le loro evasioni al fisco sono documentate da sfarzi di ogni genere, i Principi si fanno ritrarre dai fotografi mentre cazzottano o si fanno cazzottare per difendere l’onore delle attrici, le Principesse indicono conferenze stampa per precisare l’anno in cui iniziarono la loro carriera di peccatrici. E noi diamo del traditore a chi? A Fellini. È un vecchio vizio nazionale.
Il fascismo, che non fu un regime politico, ma la caricatura degl’italiani, ne aveva fatto addirittura la sua regola. Esso non eliminava la malaria, anzi lasciava che le zanzare facessero allegramente il comodo loro. Ma proibiva di parlarne. Guadalajara? Si sopprime, imponendo ai giornalisti di trasformarla in una vittoria (il sottoscritto ne sa qualcosa). I furti e i delitti? Incompatibili con l’etica e i costumi littori, sono stati aboliti con l’abolizione della cronaca nera. Allora (Dio mio, com’ero giovane!) credevo che questo spicciativo metodo fosse il sopruso di un pugno d’ipocriti prepotenti. Poi mi sono accorto (…) che non è così: questo tartufismo, questa paura di guardare in faccia la verità perché essa c’imporrebbe per lo meno un esame di coscienza a cui non siamo più da secoli abituati, ce li portiamo nel sangue, e sono quelli a ispirare il nostro sdegno contro chi osa turbare la quiete morta della gran palude in cui noi stessi imputridiamo (…).
Caro amico, creda a me: se noi italiani continuiamo a illuderci che per eliminare i nostri guai basta eliminare o coprire di sputi i Fellini che li denunziano, vuol dire che non ci sono proprio più speranze di salvezza. Queste reazioni sono il documento di una codardia che non trova attenuanti in nulla: nemmeno nel brillante passato militare, nei nastrini e nelle decorazioni di coloro che vi si sono associati, a quanto ho letto, in nome della Patria da essi fedelmente servita. Perché si ricordino bene questi signori che nel nostro Paese ci vuole più coraggio a dire la verità che a difendere una trincea. Questo vezzo di dare del comunista o dell’alleato dei comunisti a chiunque si rifiuti di unire il suo silenzio a quello di coloro i quali hanno un interesse a che le cose continuino ad andare come vanno, cioè a disfarsi nel fango, puzza di ricatto e non vale più dello stratagemma che usavano ai cosiddetti “bei tempi” le nostre soubrette sfiatate per farsi applaudire, quando si presentavano a fare sgambetti, con polpacci coperti di vene varicose, vestite da bersagliere e ammantate dal tricolore. È un secolo che l’Italia cura i suoi malanni, terribili e profondi, con questi pannicelli. È un secolo ch’essa copre di reticenza le sue disfunzioni morali e d’indulgenza i responsabili (…).
E ora vorrei dire qualcosa a coloro (ce ne sono certamente) che hanno protestato non per viltà o per tartufismo, ma perché sinceramente non credono, non vogliono credere che le cose stiano come Fellini le racconta. La diagnosi, amici miei, purtroppo è esatta. Ma non perdete, per l’amor di Dio, la vostra fede nella possibilità di una terapia. La dolce vita porta già in sé la sua condanna, e Fellini stesso ne ha fornito la più esemplare dimostrazione in quel livido e disperato finale. Nel nostro sangue, nel sangue della nostra società, quelle tossine ci sono. Sta a noi isolarle. A noi, voglio dire a ognuno di noi. Non invochiamo, come al solito, la legge e i carabinieri. Essi possono molto contro il delitto, ma non possono nulla contro il malcostume. Non diamo, come al solito, in appalto allo Stato, all’Autorità, al Parroco quelle profilassi che solo noi possiamo esercitare. Risparmiamo il nostro sdegno contro Fellini, e facciamone un po’ più d’uso contro coloro che a Fellini hanno fornito la materia del suo film. Sono squallidi e tristi personaggi. Mettiamoli fuori dai nostri ranghi. Facciamola anche noi un po’ d’epurazione, credetemi, amici miei; è sputando su loro, non su Fellini, che potremo rimediare qualcosa (…).
Marmidone
QUINTA PAGINA
«La follia consiste
nel continuare a fare
la stessa cosa
sperando
che il risultato cambi»
Einstein

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