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sabato 24 agosto 2024

 


Antonio Piccirillo: «Io scelgo il mare fuori»

Poteva seguire le orme del padre Rosario e diventare un boss della camorra. Invece Antonio Piccirillo vuole un’altra vita. Ha superato traumi e paure grazie all’amore, sta prendendo la patente nautica e sogna di diventare attore
Antonio Piccirillo 27 anni sulla barca di un pescatore al molo SantAntonio a Mergellina Napoli.nbsp
Antonio Piccirillo, 27 anni, sulla barca di un pescatore al molo Sant’Antonio a Mergellina, Napoli. Paolo Manzo

Questo articolo su Antonio Piccirillo è pubblicato sul numero 12 di Vanity Fair in edicola fino al 21 marzo 2023

«A 17 anni sono stato attratto dalla camorra. Ero lì lì per finirci dentro. Quando gli amici malavitosi di papà venivano a casa e discutevano dei loro “affari”, volevano sentire anche la mia. Mi dicevano: “Anto’ tu si’ ’nu guaglione intelligente. Se solo volessi…”. Presto, però, ho messo a tacere quelle sirene: “Non voglio”».
Antonio Piccirillo, 27 anni, napoletano del quartiere Mergellina, figlio del boss della camorra Rosario detto O’ Biondo, il suo «no» alla mafia l’ha dovuto ribadire più volte: ai clan che lo blandivano, alle forze dell’ordine che lo guardavano con sospetto, ai genitori della fidanzata a cui la sua provenienza lasciava perplessi. Nel 2019 lo urla al mondo intero. Durante una manifestazione contro le vittime innocenti di mafia, prende un megafono in mano e dichiara: «Mio papà ha fatto scelte sbagliate nella vita. È un camorrista. E io voglio lanciare un messaggio ai figli di queste persone: amate sempre i vostri padri, ma dissociatevi dal loro stile di vita. La camorra è ignobile, ha sempre fatto schifo e non ha mai ripagato».
Seguono mesi intensi, di gloria e maldicenze, di disprezzo e popolarità. I vicini di casa lo evitano, la politica lo corteggia: Alessandra Clemente, allora candidata sindaca a Napoli, lo vuole nella sua lista civica, gli propone un ruolo in Consiglio Comunale. Ma perde le elezioni. «Quando le ho chiesto una mano per trovare lavoro, mi ha presentato a un suo amico ristoratore per un posto da cameriere. Ho ringraziato, ma non era quello che volevo dalla vita».

Che cosa vuole dalla vita?
«La pace interiore. Ho sofferto di gravi forme di ansia e depressione e due sole cose mi hanno aiutato: il mare e il teatro».

Quindi?
«Quindi sto prendendo la patente nautica, mi piacerebbe comprare dei gozzi e portare in giro i turisti. E poi coltivo il sogno della recitazione. Ho iniziato a collaborare con il Nest, il teatro che Adriano Pantaleo ha fondato recuperando una palestra abbandonata a San Giovanni, dove coinvolge i giovani del quartiere. La cosa strana è che tutti temono l’ansia da palcoscenico, per me invece è bella».

Cioè?
«Ho paragonato quel friccicorìo all’angoscia che ho provato per strada, quando avevo paura che una passeggiata con mio padre si trasformasse in tragedia, perché magari all’improvviso spuntava fuori qualcuno e lo ammazzava. La prima è un’ansia positiva, creativa. La seconda, invece, è solo distruttiva. Infatti mi ha distrutto».

In che senso?
«Nomini un disturbo, io l’ho avuto: claustrofobia, agorafobia, mania ossessivo-compulsiva, depressione, depersonalizzazione. Io le capisco le persone che si tolgono la vita».

Quando è cominciato tutto questo?
«Da bambino subivo attacchi d’ansia, però urlavo e mi passavano. A 16 anni mi sono svegliato una mattina e non riuscivo a respirare,  la gola si stringeva. Pensavo fossero placche, era panico. Sono andato peggiorando finché un giorno ho sentito una voce nella mia testa che mi sussurrava: “Ammazza tuo fratello”. Mi sono spaventato e sono corso alla Asl».

Come si è curato?
«Ci ho messo un po’: avevo paura che mi facessero un Tso. Ma stavo troppo male e, alla fine, mi sono affidato a un dottore, che poi è diventato il mio terapeuta. Gli sarò grato per sempre».

Ora come sta?
«Meglio: ero arrivato a 10 pastiglie al giorno, ora ne prendo solo una la sera per dormire e vado in terapia una volta ogni due settimane».

La causa del suo malessere?
«Tutto parte dai conflitti irrisolti in famiglia. Quando ho visto la figlia di Totò Riina dire: “Mio padre sarà stato un mostro fuori di casa, ma con noi era diverso”, io la capisco. Poi ha sbagliato a non prendere le distanze da lui. Io da mio padre le ho prese, ma non posso non volergli bene: è sempre stato molto affettuoso».

Quanto l’ha vissuto?
«Da piccolo, pochissimo: stava più dentro che fuori. Per me era normale andare a trovarlo in carcere, cercare di scavalcare il muro che ci 
divideva, essere ripreso dal poliziotto che mi diceva di tornare a posto. Era normale vederlo emozionarsi e trattenere le lacrime. Mi ricordo tutto: gli odori, i rumori, i pianti degli altri bambini. I miei pianti: non volevo mai staccarmi da lui, facevamo a braccio di ferro».

Dal 2010 al 2015 suo padre Rosario è stato un uomo libero.
«Non sei mai libero. Esempio: io ero una promessa del calcio, avevo ottenuto un provino al Catania. Lui voleva accompagnarmi ma non poteva muoversi da casa. Ha dovuto combattere con gli avvocati per due giorni di permesso».

Com’è andato il provino?
«Benissimo. Ho giocato una bella partita e ho persino fatto goal. Quando sono tornato in camera mi ha chiamato mio padre: aveva parlato con il dirigente sportivo, mi davano una chance, ma dovevo rimanere in Sicilia ad allenarmi con la squadra. Gli chiedo: “Papà, tu resti con me?”. Lui era già sulla nave per Napoli. Il giorno 
dopo, sono tornato a casa pure io».

Fine del sogno del calcio.
«Non volevo stargli lontano. Mi sentivo abbandonato».

Si era già sentito così?
«Alle recite, alle partite... Ero sempre l’unico senza papà. Guardavo gli spalti e per me non c’era mai nessuno».

A 12 anni ha capito il perché: un’amica le ha mostrato la pagina del giornale con la foto di suo padre arrestato. 
«E io me la sono presa con mia mamma che mi aveva mentito sul lavoro di papà: un giorno faceva il costruttore, un giorno l’avvocato. Siamo figli di madri bugiarde».

La sua che tipo è?
«Una vittima. Nasce poverissima in una famiglia di otto fratelli, di cui sei tossicodipendenti, due sono morti per overdose. Vivevano stipati in un monolocale. Sentiva i genitori fare l’amore. A 18 anni scappa da quella situazione e incontra mio padre. Pensa di essersi salvata. Invece è uscita da un inferno ed è entrata in un altro».

Com’è la vita di inferno accanto a suo padre?
«Un’esistenza sulle spine. Se lui ritarda di dieci minuti, il primo pensiero è che l’abbiano ammazzato. E in quella situazione pensi che “ci sta”: i malavitosi con la morte fanno i conti. Anzi, non escludo che, a volte, la desiderino pure, come unico modo per trovare un po’ di pace».

Perché loro non lo sono, in pace?
«Nemmeno i più cinici. Magari cominciano come killer a 17 anni, ammazzano come altri pettinano le bambole. Poi, quando la coscienza bussa sono finiti. Ma non lo possono dire a nessuno. E allora scappano, scappano, scappano, fino a che non riescono a scappare più, perché puoi fuggire da tutti, meno che da te stesso. Questa è una cosa poco risaputa: le serie tv sulla camorra mostrano gli inizi sgargianti – con orologi, motorini, donne, macchine, pistole – e gli epiloghi tragici. Ma del malessere che sta nel mezzo nessuno parla».

Parafrasando Tomasi di Lampedusa: «La camorra. Certo, la camorra. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta».
«Un anno è troppo. La gloria dura al massimo cinque minuti».

Poi che succede?
«Poi finisce. Sai che domani arriverà l’elicottero che ti arresta o il nemico che ti ammazza. Sai che la tua libertà ha i giorni contati. Per questo i camorristi devono continuamente fare soldi, perché con i soldi la libertà te la compri. Non quella vera, piuttosto un surrogato: la possibilità di stare con dieci donne assieme, di farti un viaggio con una dose. Tutte cose che rendono l’inferno sopportabile, ancora per un po’. Paradossalmente, secondo me stanno meglio in carcere».

Prego?
«In galera ritrovano la libertà di leggere, di scrivere, di piangere su una poesia. La prima volta che mio padre ha preso in mano una penna è stato in cella, e si è sentito benissimo».

È ancora in carcere, giusto?
«Sì, a Sulmona. L’ultima volta è stato arrestato il 23 dicembre 2022. Imputazione: estorsione, usura e associazione. Pena: dieci anni e mezzo».

Crede che, quando suo padre uscirà,  andrà «in pensione»?
«Ma che pensione! Se tiri i remi in barca diventi una preda facile. Magari 30 anni fa hai dato uno schiaffo a uno che oggi ha figli e nipoti. L’unico modo per dare un taglio netto è pentirsi e collaborare».

Suo padre non l’ha fatto.
«Non ha collaborato. Se mandi un boss in carcere metti nei guai la sua famiglia, e lui questo non lo vuole». 

Però si è pentito?
«Molto. Per il male che ci ha fatto, per quello che non ha vissuto».

Quindi sarà orgoglioso di un figlio come lei.
«Lo è».

Prima diceva che per un istante è stato sedotto dalla camorra. Quando ha preso le distanze?
«Più che dalla camorra ero sedotto dall’idea romantica che me ne ero fatto: per me era un’associazione che, sì, compiva illeciti, finalizzati però a far star bene il quartiere. Poi ho capito che potevo fare del bene senza diventare un criminale. Avrei lavorato, guadagnato e aiutato chi ne aveva bisogno. In questa presa di coscienza è stata fondamentale la mia ex fidanzata».

In che modo?
«Imma veniva da una famiglia normale, papà impiegato, mamma casalinga. Quando mi sentiva parlare di rapine e ammazzamenti mi diceva: “Lascia stare tutti”. Peccato che per me quella fosse la normalità, anche se io non partecipavo. Alla fine le nostre differenze ci hanno separati, ma il suo amore mi ha salvato».

Non poteva immaginare una vita tranquilla al suo fianco?
«Non posso immaginare una vita tranquilla in generale. Se mi barrichi in un ufficio mi uccidi. L’unico posto in cui posso pensare di essere rinchiuso è il carcere».

Come, una vita dedicata a inseguire l’onestà e poi contempla l’idea della galera?
«In quanto figlio di mio padre, so che posso finirci. Anche da innocente. È già successo».

Le va di raccontare?
«A 17 anni faccio una bravata: con alcuni amici ci fingiamo carabinieri e importuniamo un venditore di rose chiedendogli i documenti. Passa una volante, i miei amici in motorino senza casco e assicurazione si dileguano. Il venditore di rose urla: “Rapina, coltello!”. I poliziotti scendono dall’auto, mi ammanettano e mi sbattono in macchina. Cerco di spiegare come stanno le cose, mi coprono di insulti. Non gli pareva vero di aver beccato “il figlio del boss”. Mi portano in questura. Insisto perché chiamino i miei amici che avrebbero confermato la mia versione. Alla fine li convocano, versione confermata».

Liberato con scuse?
«Sbattuto dentro per giorni e in comunità per mesi, per oltraggio. Quando poi ho incontrato il poliziotto che mi ha arrestato piangeva. Gli ho chiesto: “Perché mi avete fatto questo? Mi avete fatto male”. La comunità è stata un inferno».

Perché?
«Ho lasciato la scuola, il calcio, tutto. Mi sentivo continuamente incolpato per una cosa che non ho commesso. Bruciavo dall’ingiustizia. E poi lì dentro ho visto ragazzi che tentano il suicidio, madri che portano la droga ai figli per calmarli. Io mi sono salvato con i libri. Forse la mia passione per la recitazione è nata lì».

Se vuole recitare dovrebbe considerare l’idea di lasciare il quartiere.
«Lo so, ma sono come dentro le sabbie mobili: più mi dimeno, più vengo risucchiato. La verità: se me ne vado, mio fratello è perduto».

In che senso?
«Se non ci fossi stato io sarebbe già in carcere. Raffaele ha 22 anni ed è più buono di me, ma se io ho l’ansia, lui manifesta il disagio con l’aggressività: ha partecipato a risse, spaccato teste...».

Si droga?
«Quello nessuno di noi. Ci è bastato l’esempio di nostro padre, che ha sempre cercato di nascondersi, ma non c’è riuscito tanto bene».

Lei l’ha visto?
«Conoscevo i suoi movimenti. Per un po’ ho fatto finta di niente, poi una sera ho aperto la porta. È stato brutto: il mio mito si stava facendo del male da solo».

Lui come ha reagito?
«Era distrutto. Non piange da una vita, le ha fernute le lacrime, come si dice in napoletano. Ma quel giorno l’ho visto quasi piangere. Aveva gli occhi lucidissimi».

Antonio Piccirillo 27 anni tiene in mano una foto di lui da piccolo in braccio al papà Rosario Piccirillo.

Antonio Piccirillo, 27 anni, tiene in mano una foto di lui da piccolo in braccio al papà Rosario Piccirillo. (FOTO PAOLO MANZO)

In una foto di tanti anni fa il padre tiene in braccio Antonio e la sorella Imma oggi 28 anni.

In una foto di tanti anni fa, il padre tiene in braccio Antonio e la sorella Imma, oggi 28 anni. (FOTO PAOLO MANZO)


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25 Agosto 2024

C’è chi a bottega dal padre mafioso ci è andato fin da piccolo, e come il genitore è finito arrestato e poi condannato, altri sono stati concepiti direttamente al 41 bis. C’è poi chi invece sceglie di sprofondare nell’anonimato per tagliare con le illustri parentele criminali, o altri che denunciano l’impossibilità di intraprendere studi universitari a causa di un padre ex ‘ndranghetista oggi collaboratore di giustizia. E poi c’è chi, pur figlio del mondo criminale, segue la strada della denuncia esplicita contro le cosche. E ancora figli che cresciuti mafiosi all’ombra di genitori capimafia si pentono, collaborano e incastrano la famiglia. Altri che, invischiati, scelgono il pentimento e convincono il padre a fare lo stesso. E infine ci sono coloro che con il nome del padre boss o con il nome del paese del clan fanno pubblicità a investimenti imprenditoriali.

Insomma il destino dei rampolli dei boss è vario e mai banale. Un fenomeno che coinvolge non solo le tre principali mafie (Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta) ma anche quel mondo della malavita, in particolare romana, che se pur non storicamente mafiosa con le cosche fa affari.

Il rampollo di Riina e i due badalamenti
Il caso dei figli della nobiltà mafiosa è tornato di attualità dopo il recente post di Salvuccio Riina, il più giovane dei figli maschi del capo dei capi, Totò Riina, morto all’ospedale di Parma nel 2017. Pochi giorni fa, dopo essersi sposato in gran segreto con una ragazza spagnola, è tornato a Corleone per la festa di nozze (200 invitati in Contrada Piano Scala) e qui ha postato una frase: “Buon Ferragosto a tutti voi da via Scorsone 24, 90034”, indirizzo storico della famiglia Riina. La strada però dal 2018 ha cambiato nome e ora si chiama via Cesare Terranova, in memoria del giudice palermitano ucciso da Cosa nostra il 25 settembre 1979.

I figli dei boss, dunque. Vito e Leonardo, ad esempio, figli non più giovanissimi di don Tano Badalamenti, boss di Cinisi morto nel 2004 e condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio dell’attivista Peppino Impastato. Con Vito e Leonardo, don Tano fuggì in Brasile sul finire degli anni Ottanta. Per 17 anni, dal 1995, Vito Badalamenti fu inserito nella lista dei più pericolosi latitanti, salvo uscirne nel 2012 per prescrizione della pena. Leonardo, invece, quattro anni fa è finito in carcere. Arrestato a Trapani su ordine della magistratura brasiliana per traffico di droga.

Gli eredi di Graviano concepiti in carcere
Ci sono poi quelli che la leggenda vuole concepiti direttamente al 41 bis. Come il caso dei figli (entrambi di nome Michele e incensurati) dei boss di Brancaccio Filippo e Giuseppe Graviano, condannati all’ergastolo per le stragi del 1993. Le mogli dei boss daranno alla luce i bambini il 26 giugno e il 13 agosto 1997, mentre i padri sono detenuti dal 1994. Un bel mistero sul quale la Procura di Palermo ha indagato senza però fare luce sul presunto “postino del seme” che avrebbe eluso le rigide ristrettezze del 41 bis. Insomma più leggenda che realtà.

I due Michele sono incensurati e, anzi, hanno studiato con profitto e ora sono due professionisti: il figlio di Giuseppe ha frequentato a Milano la facoltà di ingegneria industriale e ora lavora in una multinazionale che ha sede nel nord Italia, mentre il figlio di Filippo ha frequentato la Luiss di Roma e ora lavora nel campo della finanza.

Tutto vero invece il caso che anni fa coinvolse Angelo Provenzano, uno dei due figli del capo di Cosa nostra, Bernardo Provenzano, morto nel 2016 e arrestato nel 2006 dopo ben 43 anni di latitanza. Nel 2015, Provenzano jr, che fu anche indagato per mafia e quasi subito archiviato, diventa lui stesso meta turistica. Esattamente così. L’idea di allora è di un tour operator di Boston che nel pacchetto del viaggio in Sicilia comprese lo stesso figlio di Binnu al quale i facoltosi viaggiatori potevano rivolgere domande su Cosa nostra e sul padre mafioso. In generale, va detto che Angelo ha sempre vissuto nella legalità.

E questo anche perché il padre fin da piccolo lo ha tenuto lontano da ambienti mafiosi. Angelo non lo ha mai rinnegato come genitore, tanto che nel 2005 a dieci mesi dalla cattura, intercettato, diceva: “Mio padre non lo voglio toccato, tinto, buono… è stato un buon padre, è stato un padre meno buono, è stato sempre mio padre e non lo voglio toccato”.

Molte meno sono le notizie relative al figlio minore di Provenzano, così come quelle del primo boss corleonese Luciano Liggio, arrestato a Milano nel 1974. Nel 2011 finì al centro di una polemica locale Roberta Bontate figlia di Giovanni e nipote di Stefano, il principe di Villagrazia ucciso nella guerra di mafia contro i corleonesi. Il suo nome divenne pubblico perché la signora lavorava presso una cooperativa legata alla Regione che allora si occupava di beni confiscati. In una intervista al Giornale spiegò: “È vero mio padre era un boss, ma io ho diritto di vivere in pace”.

I Giuliano e il “profumo” della figlia nunzia
In altri casi, poi, il nome della famiglia mafiosa o anche del luogo di residenza del clan è stato utilizzato dai figli per lanciare prodotti commerciali o attività imprenditoriali. È il caso recentissimo di Nunzia Giuliano, figlia di Carmine Giuliano ex boss di Forcella grande amico di Maradona e morto nel 2004. Sul suo profilo TikTok, Nunzia, del tutto estranea a contesti criminali, ha lanciato un profumo in omaggio del padre e che porta il suo soprannome: “’O Liò”, con il muso stilizzato di un leone sulla boccetta. In uno dei suoi tanti messaggi su TikTok, dove è seguita da circa 14 mila persone, Nunzia spiega che acquistando il profumo “state dimostrando tanto rispetto e stima nei confronti di mio padre, perché voi avete ricevuto rispetto da lui. Leggo bei messaggi, belle parole, frutto di quello che mio padre ha seminato. È scontato che io parli di un grande uomo, un grande papà, sono la figlia. Ma voi? Voi siete il popolo, la bocca della verità e leggere questi commenti per me è un onore”.

Nel 2019 finì sulle prime pagine dei giornali il caso di Lucia Riina, sorella di Salvuccio e figlia di Totò Riina, che nel 2018 ha aperto a Parigi un bistrot chiamato Corleone by Lucia Riina. L’avventura si chiuse però solo un anno dopo. La più giovane della famiglia Riina si giustificò così: “Non ho cercato di provocare né di offendere nessuno, volevo soltanto valorizzare la mia identità di artista-pittrice. E anche mettere in risalto la cucina siciliana”.

Sul fronte trapanese, Francesco Guttadauro, pur non essendo il figlio ma solo il nipote, è sempre stato il pupillo prediletto di Matteo Messina Denaro. Guttaduaro è infatti il figlio della sorella dell’ex primula rossa, Rosalia Messina Denaro e di Filippo Guttadauro. Nobiltà mafiosa, dunque. Il rampollo viene arrestato nel 2013 per mafia provocando lo sfogo del potente zio che in un pizzino diventato famoso scrisse: “Essere incriminati di mafiosità, arrivati a questo punto, lo ritengo un onore”. Lorenza, invece, classe 1996 è figlia del boss di Castelvetrano. Fino al suo arresto portava il cognome della madre. Tra i due il rapporto è sempre stato conflittuale. E solo dopo l’arresto, Lorenza ha chiesto e ottenuto di poter portare il cognome Messina Denaro.

C’è chi dice no e si dissocia dalle proprie famiglie
Ci sono poi quei figli della mafia che hanno scelto di combatterla e di dichiararlo pubblicamente. Veri eroi, come Antonio Piccirillo, quasi 30 anni, figlio di Rosario Piccirillo, boss della camorra con diverse condanne. Anni fa al Corriere della Sera aveva spiegato: “Sono figlio di un camorrista, ma mi fa schifo quella subcultura. La camorra è da buttare e schiacciare, anche se mio padre è stato uno di loro, è stato quello che si chiama un boss. E ora è in carcere, da anni. Io gli voglio bene, ma non lo stimo. Non sarà mai un amore totale. Lui lo sa. Ha capito. Dice anzi che solo questa mia svolta ha dato un senso alla sua vita buttata”.

E poi ci sono i figli dei boss che scelgono la via del pentimento e della collaborazione con la giustizia. Due su tutti, Emanuele Mancuso, figlio di una delle cosche più potenti della ‘ndrangheta, e Domenico Agresta, detto Micu McDonald. Quest’ultimo appartiene al cartello delle cosche della Locride insediate nel Nord Italia tra Milano e Torino. Nel 2022 deciderà di collaborare. Ai magistrati spiegherà: “Ho la sfortuna, dottore, di non aver scelto il mio destino. Sono nato in una famiglia in cui non c’è una persona, ma dico non una di numero, che da bambino avrebbe potuto portarmi via da quell’ambiente (…). Noi siamo tutta una famiglia, da Torino a Buccinasco a Platì. E tutta la mia famiglia è ‘ndranghetista. Per loro la ‘ndrangheta è vita (…). La scuola mi ha dato la conoscenza. La conoscenza mi ha fatto maturare delle consapevolezze, ho acquisito degli strumenti tali da fare delle scelte, non credere più nella violenza”. Micu deve fare i conti con la propria coscienza ma soprattutto con la propria famiglia. Il padre, Saverio Agresta, è nome noto alle cronache giudiziarie milanesi. Intercettato a proposito del figlio pentito dirà senza mezzi termini: “’Sto bastardo di merda ha voluto rovinarci”. Figli che si pentono, ma anche figli che convincono i padri boss a pentirsi. È il caso di Emanuele e Salvatore De Castro, padre e figlio. Entrambi siciliani, per anni sono stati legati alla ‘ndrangheta lombarda che si trova in provincia di Varese. Saranno indagati. Ma, spiegherà Salvatore in uno dei suoi primi verbali: “Sono stanco di questo stile di vita, soprattutto di quella di mio padre. Io stesso l’ho indotto a fare questa scelta”.

E così da qualche anno i due stanno guidando i magistrati milanesi all’interno del vero potere della ‘ndrangheta al Nord. Lo studio è spesso una salvezza per i figli della mafia. In Italia però capita che al figlio di un pentito venga preclusa la carriera universitaria. Lo scrive in una lettera nel 2020 il figlio dell’ex boss della ‘ndrangheta Luigi Bonaventura: “Vengo bollato come un mafioso pur non avendo mai avuto alcun coinvolgimento con le ormai passate azioni di mio padre”. Dirà poi il padre: “Il Servizio Centrale di Protezione (tramite il Nop) ci ha comunicato che la normativa impedisce a mio figlio di andare all’università della località protetta perché non possono oscurare i dati. Ma se va ad esempio in una località fuori provincia è rintracciabile e potrebbero ammazzarlo”.

La nuova magliana e i figli di Senese e nicoletti
Infine, fuori dalle mafie tradizionali, nel mondo violento della malavita, sono sempre più i casi di figli che, noncuranti dei destini carcerari dei padri, seguono le loro orme. Gli ultimi casi riguardano la criminalità romana. L’indagine Assedio ha ricostruito le dinamiche di un consorzio mafioso composto da elementi di camorra e ‘ndrangheta al cui vertice c’erano Vincenzo Senese e Antonio Nicoletti. Il primo è figlio di Michele Senese detto ’O Pazzo. Emissario della camorra a Roma, già in rapporti di affari con Massimo Carminati è ritenuto ancora oggi il vero re di Roma. Il secondo porta un cognome che arriva dagli anni Ottanta. Antonio Nicoletti, infatti, è figlio di Enrico Nicoletti, lo storico cassiere della banda della Maglian
a.

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