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venerdì 6 settembre 2024


Giuli
di Flavia Amabile
La Stampa
Stavolta non è andata come due anni fa, quando il governo Meloni si era appena insediato e Alessandro Giuli veniva considerato fra i possibili portavoce ma lui non ne sapeva nulla. Della nomina a ministro della Cultura Giuli era stato informato ed era pronto a salvare l’esecutivo dell’amica Giorgia Meloni dalla pessima figura che ha valicato i confini diventando materia da prima pagina dei quotidiani di mezzo mondo alla viglia del G7 della Cultura. Perché lui di Giorgia Meloni è amico da anni. In molti lo considerano il giornalista più meloniano d’Italia e lui, come ha sottolineato ai microfoni di Un giorno da pecora nell’ottobre di due anni fa, non prova fastidio di fronte a questa definizione anche se di Giorgia Meloni si considera soprattutto lo «sconsigliere». L’amicizia è nata «rissosamente», racconta Giuli a Geppi Cucciari e Giorgio Lauro, nel 2007 quando scrisse un libro che si chiamava "Il passo delle oche". «Non trattai bene nessuno di quelli che allora facevano parte della nomenklatura di An», ricorda Giuli. Ci fu una discussione. «Poi – prosegue Giuli – ci incontrammo in un talk televisivo e discutemmo animosamente e io me la cavai con una battuta: non vi preoccupate è un regolamento di conti tra vecchi camerati». Era una battuta ma non solo.
Giuli compirà 49 anni fra venti giorni, stessa data di Francesco Totti (coincidenza che gli piace molto, da sfegatato tifoso romanista) ma due anni in meno, e la sua gioventù l’ha trascorsa tra le file di Meridiano Zero, un movimento neofascista nato nel 1991, in una data simbolica come l’8 settembre, dalla fusione di alcuni gruppi di fuoriusciti dal Fronte della Gioventù romano. Erano ambienti in cui ci si menava e si era menati come tutti ma, a differenza di tanti altri, Giuli smette presto di affidare alla violenza il suo ardore politico. La sua risposta la trova nei libri. Studia filosofia alla Sapienza, supera tutti gli esami ma nel frattempo inizia a scrivere sui giornali. Quando ormai manca soltanto la tesi lascia l’università e si dedica al giornalismo a tempo pieno. Lavora con Giorgio Dell’Arti, con Giuliano Ferrara al Foglio di cui diventa vicedirettore e condirettore. Poi però qualcosa si spezza nel rapporto con la redazione, Giuli va via e inizia una nuova vita. Nel 2018 partecipa ad Atreju, la manifestazione politica giovanile della destra italiana e definisce Putin «un patriota» ma soprattutto è arrivato il momento del debutto in televisione.
Con Giorgia Meloni dalle discussioni sono passati all’amicizia, lei ha un partito che ha percentuali ridicole, si sente esclusa e cerca di imporre persone di cui si fida in Rai. Fra il 2019 e il 2020 Giuli è ospite fisso della trasmissione Povera Patria condotta da Annalisa Bruchi su Rai 2. Nel 2020 conduce con Francesca Fagnani Seconda linea su Rai 2, chiuso dopo due puntate. Collabora con L’Argonauta su Rai Radio 1. Nessuna di queste trasmissioni viene considerata un successo e non aiuta il fatto che Giuli porti in tv la sua passione per i culti pagani: appare suonando un antico flauto ma il pubblico non apprezza. Poco importa, Giuli il flauto continua a suonarlo per i figli quando li porta in giro per le campagne romane, luoghi come il Monte Cavo dove ha origine la storia di Roma e dove si celebra «il ritorno del fuoco sacro in Occidente». I miti se li è anche tatuati sul corpo: sul petto un’aquila che era effigiata su una moneta romana e sul braccio sinistro ha lo scettro di Spoleto dove è raffigurato un sacerdote.
Nel frattempo l’amicizia con Giorgia Meloni è diventata ancora più stretta. Anche se non sempre sono d’accordo, lei di lui sa di potersi fidare. La sorella di Giuli è stata la storica portavoce di Francesco Lollobrigida poi è passata a fare la portavoce di Arianna Meloni. Quando Giorgia Meloni diventa presidente del Consiglio è a un passo dall’affidargli il ruolo di portavoce e poi quello di ministro della Cultura, poi preferisce dargli la guida della Fondazione Museo Maxxi. Quasi due anni in cui Giuli ha avuto un solo incidente lo scorso anno, quando all’apertura della stagione estiva sul palco c’erano Vittorio Sgarbi, allora sottosegretario del ministero della Cultura, e il cantante Morgan e la conversazione rapidamente si trasformò in un crescendo di volgarità, pessime battute sessiste. L’incidente viene rapidamente archiviato mentre Giuli lavora in modo discreto e convinto a costruire una cultura di destra. «Una destra che – secondo Giuli – non recida le proprie radici né corra il rischio di inseguire la sinistra in ritardo, una destra che dovrebbe seguire il progetto di rendere possibile dichiararsi i più progressisti tra i conservatori», come scrive nel suo ultimo libro: Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea (Rizzoli).
È una destra che piace anche a Giorgia Meloni che non ha avuto dubbi su chi poteva riportare la calma nel dicastero del Collegio Romano dopo due anni di gaffes e di annunci roboanti: Alessandro Giuli, l’uomo che parla con un tono morbido e avvolgente, che appare gentile, moderato. Alessandro Giuli, l’anti-Sangiuliano.
Flavia Amabile
Dimissioni
di Gennaro Sangiuliano
Ministero della Cultura
Questo il testo della lettera di dimissioni inviata dal ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Caro Presidente, cara Giorgia,
dopo aver a lungo meditato, in giornate dolorose e cariche di odio nei miei confronti da parte di un certo sistema politico mediatico, ho deciso di rassegnare in termini irrevocabili le mie dimissioni da Ministro della Cultura. Ti ringrazio per avermi difeso con decisione, per aver già respinto una prima richiesta di dimissioni e per l’affetto che ancora una volta mi hai testimoniato. Ma ritengo necessario per le Istituzioni e per me stesso di rassegnare le dimissioni. Come hai ricordato di recente, stiamo facendo grandi cose, e lo dico come comunità politica e umana alla quale mi sento di appartenere. Sono fiero dei risultati raggiunti sulle politiche culturali in questi quasi due anni di Governo. A partire dall’aver messo fine alla vergogna tutta italiana dei musei e dei siti culturali chiusi durante i periodi di ferie, aver incrementato in appena un anno il numero dei visitatori dei musei (più 22 per cento) e gli incassi degli stessi (più 33 per cento). A dicembre a Milano aprirà palazzo Citterio acquistato dal ministero nei primi anni Settanta e poi rimasto inutilizzato per decenni. Sono ben avviati grandi progetti come l’ex Albergo dei Poveri di Napoli, l’ampliamento degli Uffizi in altre sedi e l’investimento per la Biennale di Venezia. Per la prima volta in Italia sono state organizzate grandi mostre su autori personaggi storici che la sinistra aveva ignorato per ragioni ideologiche. Sono consapevole, inoltre, di aver toccato un nervo sensibile e di essermi attirato molte inimicizie avendo scelto di rivedere il sistema dei contributi al cinema ricercando più efficienza e meno sprechi. Questo lavoro non può essere macchiato e soprattutto fermato da questioni di gossip. Le Istituzioni sono un valore troppo alto e non devono sottostare alle ragioni dei singoli. Io ho bisogno di tranquillità personale, di stare accanto a mia moglie che amo, ma soprattutto di avere le mani libere per agire in tutte le sedi legali contro chi mi ha procurato questo danno, a cominciare da un imminente esposto alla Procura della Repubblica, che intendo presentare. Qui è in gioco la mia onorabilità e giudico importante poter agire per dimostrare la mia assoluta trasparenza e correttezza, senza coinvolgere il Governo. Mai un euro del ministero è stato speso per attività improprie. L’ho detto e lo dimostrerò in ogni sede. Non solo. Andrò fino in fondo per verificare se alla vicenda abbiano concorso interessi diversi e agirò contro chi ha pubblicato fake news in questi giorni.
Gennaro Sangiuliano
Auto
di Alberto Caprotti
Avvenire
Lo dicono i numeri, lo confermano la disastrosa realtà del mercato e la preoccupante prospettiva occupazionale e di fruibilità per il futuro: senza interventi strutturali sulle politiche attuali al momento difficili da ipotizzare, quella dell’automobile verrà ricordata come la transizione ecologica più fallimentare della storia. Le intenzioni erano ottime, ma il sistema scelto per arrivare al risultato è stato pessimo, e lontano dalle aspettative, dalle necessità reali e dalle possibilità economiche della gente. E soprattutto resta incomprensibile l’incapacità da parte dell’Europa di correggere in corsa l’approccio alla svolta elettrica che si è rivelato approssimativo e privo del supporto che una rivoluzione del genere – per giunta imposta dall’alto e non scelta dal pubblico – sarebbe stato indispensabile. La crisi della mobilità 100% a batteria, che non decolla e anzi implode su se stessa con percentuali di immatricolazioni sempre più basse nonostante gli incentivi, non è l’unica ma è una delle cause che stanno trascinando nello stallo l’intero settore dell’automotive. Meno auto prodotte, e meno auto vendute, significano posti di lavoro a rischio e fabbriche in chiusura persino nella potente Germania. E prospettive drammatiche per l’Italia, che sui motori ha vissuto stagioni esaltanti ormai sempre più lontane. Ma non è solo una questione di occupazione. C’è un diritto alla mobilità da difendere. E una giusta aspettativa verso sistemi di propulsione ecologici distrutta dalla realtà di vetture a “zero emissioni” allo scarico nessuna delle quali oggi a listino ha prezzi medi inferiori a 20mila euro e che l’Europa vuole imporci senza alternative a partire dal 2035. Dall’altra parte della barricata ai segni meno del mercato, i costruttori stanno reagendo in maniera disordinata, adeguando in corsa i piani prodotto. C’è chi sposta in avanti i termini per il passaggio definitivo all’elettrico dopo aver annunciato scadenze imprudenti, come stanno facendo in molti, a iniziare da Volvo e Audi. C’è chi addirittura rispolvera il diesel, come Stellantis in alcuni mercati. E chi ammette senza mezzi termini di aver sbagliato le previsioni, come Ford. Molti hanno deciso di produrre meno vetture termiche per far crescere artificialmente la percentuale di emissioni zero evitando le multe, ma vendendole a un prezzo più alto per non perdere i margini ai quali erano abituati. Tutto questo mentre la Cina avanza, offrendo prodotti esteticamente e tecnologicamente sempre migliori, e con listini più che competitivi. L’Europa le ha spalancato le porte, suicidandosi. E illudendosi ora che i dazi basteranno a chiuderle. Non sarà così.

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