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mercoledì 27 luglio 2011

INCARICO AL PROF. GIUSEPPE NOVELLI DELL’UNIVERSITA’ DI ROMA PER LA PERIZIA DEL DELITTO DI SERENA MOLLICONE –



IERI  PRESSO IL TRIBUNALE DI CASSINO
INCARICO AL PROF. GIUSEPPE NOVELLI DELL’UNIVERSITA’ DI ROMA PER LA PERIZIA DEL DELITTO DI SERENA MOLLICONE –

ASSENTI I  MOTTOLA – IL LORO AVVOCATO FRANCESCO GERMANI:”SI SOTTOPORRANNO ALLE INDAGINI DELL’INCIDENTE PROBATORIO E DIMOSTRERANNO LA LORO INNOCENZA” nominatI i consulenti di parte proff. Luigi D’Ancora dell’Università di Napoli e Ciro Di Nunzio dell’Università di Catanzaro -

ERANO INVECE PRESENTI  IL brigadiere  SUPRANO, il  FIDANZATO DI SERENA, E SUA MADRE. IL PADRE DELLA VITTIMA Guglielmo Mollicone ha nominato il Gen. Luciano Garofano suo consulente ( ex comandante del Ris di Parma )

 IL CRIMINOLOGO  CARMELO  LAVORINO  E  IL GENETISTA SAVERIO POTENZA PER SUPRANO –

Il 16 SETTEMBRE L’INIZIO PER IL PRELIEVO DEI CAMPIONI. UDIENZA IL 2 FEBBRAIO PER L’ESAME DEI RISULTATI –

( Dal nostro inviato a Cassino )

        










Il nostro direttore con l'avvocato Francesco Germani difensore della famiglia Mottola ( padre moglie e figlio ) FOTO DI ANTONIO NARDELLI 
Cassino ( di Ferdinando Terlizzi ) -  Si è tenuta ieri,  presso il Tribunale di Cassino,  ( Gip Angelo Valerio Lanna, P.M. il Procuratore Capo Mario Mercone ) l’udienza per l’incidente probatorio ( un atto processuale che consente la formazione di una prova prima che sia iniziato il dibattimento ) per il delitto di Serena Mollicone, al termine della quale è stato nominato il perito del Tribunale nella persona del Prof. Giuseppe Novelli, direttore del Laboratorio di Genetica Medica presso l’Università Tor Vergata di Roma.
     Erano presenti,  il padre della vittima,  Guglielmo Mollicone ( difeso dall’avv. Dario De Santis ) che ha nominato consulente di parte il Gen, Luciano Garofano (ex comandante dei Ris di Parma ), il fidanzato di Serena, Michele Fioretti, con la madre, Rosina Partigianoni, indiziati dell’omicidio, difesi dall’avv. Armando Pagliei; il brigadiere Francesco Suprano ( difeso dagli avvocati Eduardo Rotondi e Emiliano Germani ) che ha nominato suoi consulenti il  criminologo  Dr. Carmelo Lavorino e il genetista  Prof. Saverio Potenza.
     Erano invece assenti  Franco Mottola ( all’epoca comandante della  stazione  dei carabinieri di Arce, 55 anni residente a Teano ), il figlio Marco ( 29 anni in famiglia a Teano ) e la madre (omonima del marito) Anna Maria Mottola ( nata e residente a Teano di anni 50 ) tutti difesi dall’avv. Francesco Germani,  che ha nominato propri consulenti,  il Prof. Luigi D’Ancora, esperto in medicina legale,  dell’Università di Napoli e  il  Prof. Ciro Di Nunzio, genetista, dell’Università di Catanzaro.

     “I miei assistiti,  signori Mottola”, ci ha detto l’avvocato Francesco Germani  da noi avvicinato subito dopo l’udienza – sono assenti ma presteranno il loro assenso per il prelievo dei campioni. Si protestano innocenti e lo dimostreranno in corso di causa. Certamente la vicenda è ingarbugliata e vi sono molti profili non chiari,  ma il maresciallo, il figlio e la moglie,  hanno  la coscienza  tranquilla, hanno fiducia nella giustizia e dimostreranno di non  essere assolutamente coinvolti in questo truce delitto”. 

      Il Giudice per le Indagini Preliminari Dr. Lanna ha anche fissato l’inizio e la fine delle operazioni  peritale indicando il giorno 16 settembre per il prelievo dei campioni da esaminare,  e la discussione delle risultanze,  entro 90 giorni,  e cioè, il 16 dicembre, fissando, inoltre  l’udienza del 2 febbraio 2012,  per l’esame comparato delle risultanze della perizia. I prelievi saranno effettuati presso il Gabinetto dell’Università Tor Vergata di Roma.

     Questo incidente probatorio è stato provocato dal  Procuratore Capo Mercone,  il quale è fermamente convinto che tra i sei indiziati ci possa essere l’assassino di Serena Mollicone, il mandante ed i testimoni oculari dell’efferato  crimine,  avvenuto, come è noto, 10 anni or sono ad Arce. Ma, la pubblica accusa è partita da molto lontano e non esclude di coinvolgere altre persone tanto è vero che il provvedimento notificato alle parti parla anche di “concorso con ignoti da identificare”.

     Il Procuratore Capo, tuttavia, ha formulato una precisa accusa ed ha ipotizzato anche il probabile scenario del delitto. Il maresciallo Mottola, con il figlio  Marco,  con la moglie Anna Maria ( ed in alternativa  con il concorso del brigadiere Suprano o con il concorso del fidanzato di Serena Mollicone e della madre di  quest’ultimo o con il concorso di ignoti ) avrebbero ucciso la povera Serena “colpendola al cranio con uno strumento contundente ( così è scritto nella ordinanza del Gip )  legandole gli arti superiori dietro alle spalle e bloccandone le gambe con un nastro adesivo bianco e con fili accoppiati di ferro, nonché incappucciando il cranio con una busta di plastica sigillata attorno al collo e tappando con altro adesivo la bocca ed il naso, ne cagionavano la morte, sopravvenuta a causa dello shock traumatico e della asfissia meccanica, dopo ampio versamento ematico; con l’aggravante di avere agito con inutile crudeltà verso la vittima”.

     Ed inoltre il Procuratore Capo ha contestato a tutti l’aggravante ( in concorso tra loro o con ignoti )  all’occultamento di cadavere “al fine di conseguire l’impunità per il commesso omicidio occultavano il cadavere trasportandolo in un viottolo recondito ed ivi abbandonandolo, dopo essersi impegnati, per ostacolarne il rintraccio a ripiegare al di sopra della salma arbusti ivi vegetanti e ad utilizzare come riparo la sagoma di un contenitore metallico cilindrico”.
 
     In  effetti l’incidente probatorio è stato concesso dal Gip principalmente perché l’accusa aveva prospettato che vi erano numerosi “reperti  riconducibili”  alla   vittima, ( nastro adesivo, la busta dell’Eurospin che copriva la testa di Serena, il telefonino, la maglietta i pantaloni etc. etc. ) per i quali al momento del delitto ( e questo è un altro mistero,  che va ad aggiungersi al suicidio del brigadiere Santino Tuzi, alle lettere anonime,   al prelievo coatto del padre della vittima nel corso dei funerali ) non fu possibile estrapolare profili genetici di soggetti estranei”.

     Poi il Gip osserva inoltre  che “considerato che il progresso effettuato dalle tecniche potrebbe ora consentire di evidenziare eventuali tracce genetiche presenti sugli oggetti e sugli indumenti, ( elemento ovviamente molto rilevante, ai fini dell’individuazione dell’autore dell’efferato gesto ) ritenuto quindi che sia condivisibile la scelta di procedere ad assunzione probatoria e ritenuto, inoltre,  che trattasi di un accertamento tecnico verosimilmente non ripetibile,  visto che le tracce genetiche e biologiche esistenti sul materiale posto sotto sequestro potrebbero disperdersi e non consentire – dopo un ulteriore lasso di tempo – la genuina acquisizione della prova a fine di comparazione autorizza il perito a procedere al prelievo di campioni di materiale biologico degli indagati; campioni dai quali poi si andrà ad estrapolare il profilo genetico da comparare con quello che sarò evidenziato sui reperti già acquisiti”.

    Inoltre il Gip,  ha convocato tutti gli indiziati perché,   per legge,  per sottoporre un indiziato al prelievo di campioni biologici occorre il consenso della parte ( diversamente il giudice deve ordinare,  con apposito atto,  un prelievo coatto ) ed ha precisato che l’incidente probatorio di ieri è anche destinato a “procedere alla comparazione dei profili genetici  che saranno enucleati dagli indumenti della vittima, rispetto al profilo genetico del brigadiere dei carabinieri Santino Tuzi ( suicidatosi il 9,4,2008) al fine di stabilire se la vittima,  il giorno della sua tragica scomparsa, si sia recata o meno presso la Stazione  dei carabinieri ove il suddetto militare prestava servizio e ciò al fine di delineare meglio gli ultimi spostamenti della Mollicone”. Per saperne di più bisogna attendere il 16 settembre.

    

     


      

domenica 24 luglio 2011

IL PENSIERO DEL CRIMINOLOGO CARMELO LAVORINO DIFENSORE DI BELLI PRIMO INDIZIATO PER L'OMICIDIO MOLLICONE

Mercoledì prossimo al Tribunale di Cassino


Fissata dal Gip l'udienza per l'incidente probatorio. Saranno sottoposti al test del Dna gli indagati per l'omicidio di Serena Mollicone. Gli indiziati di Teano ( padre e figlio ) si difendono:”Siamo innocenti”. ,


Cassino – ( dal nostro inviato Ferdinando Terlizzi ) – E’ stato fissato per mercoledì, 27 luglio, l’incidente probatorio chiesto dal Procuratore Capo del Tribunale di Cassino Mario Mercone, “per l’espletamento della perizia specialistica medico legale di natura genetica per l'accertamento dei profili genetici rintracciabili sugli indumenti indossati dalla vittima Serena Mollicone”. Un atto discusso e ricercato, soprattutto dalle difese. Ma spesso, come in questo caso anche dalla pubblica accusa.
Intanto mercoledì si conoscerà anche la facoltà universitaria che affiancherà i Ris nelle operazioni di prelievo e comparazione. Oggi si cerca di sfruttare le nuove tecniche di investigazione ( certamente più sofisticate di quelle del 2001 ) e spesso ci si rivolge ad Istituti di genetica medica che dispongono dei mezzi idonei per chiarire dubbi di tracce anatomiche o ematiche o di altro genere. Il tutto potrebbe iniziare dal sacchetto di cellofan del supermercato Eurospin che – si presume – abbia soffocato la povera ragazza.
Per “incidente”, nel linguaggio processuale, si intende qualunque evento che interrompa il regolare svolgimento del procedimento; “probatorio”, attinente alla prova, che ha valore di prova. Si tratta, pertanto, di un meccanismo di assunzione di un prova durante la fase delle indagini preliminari. Ricordiamo che il procedimento penale si articola, schematicamente, in tre fasi: a) indagini preliminari; b) udienza preliminare; c) dibattimento. Durante la prima fase, quella, appunto, delle indagini preliminari, i soggetti legittimati (p.m., persona sottoposta alle indagini, persona offesa) possono chiedere al Giudice per le indagini preliminari (Gip) che si proceda con incidente probatorio.
Ma il “caso” di Serena Mollicone è un libro aperto ad ogni ipotesi. “Non ci si dimentichi che si potevano evitare dieci anni di stallo investigativo-giudiziario sulla morte della ragazza e 17 mesi di ingiusto carcere al carrozziere Carmine Belli” - dice il criminologo Carmelo Lavorino, ( noto criminalista che insegna al Formed di Caserta e faceva parte della difesa del Belli che ha anche scritto un libro “Il delitto di Arce”).
“Con molto ritardo - prosegue Lavorino - si comincia a fare luce sull’assassinio di Serena Mollicone, tentando d'illuminare la foresta nera dei poteri occulti e delle strane connivenze. Ancora una volta risultano determinanti l'armonia delle scienze criminalistiche, crimonologiche e investigative e l'analisi seria e scientifica della scena del crimine, delle tracce criminali e del profilo criminale del soggetto ignoto. Auguriamoci che le tracce biologiche repertate e decodificate sugli indumenti della vittima appartengano all'assassino o ai suoi complici. Ricordo che all’interno del nastro adesivo che legava e stringeva le gambe di Serena vennero repertati due frammenti di impronte digitali, indicati come reperti 15.a e 15.b, di cui uno con ben dodici punti caratteristici: dodici punti non sono certezza di compatibilità assoluta, ma sono un ottimo indizio investigativo”.
“Ora è giunto il momento – ha concluso Carmelo Lavorino - “di chiedere definitivamente scusa a Carmine Belli, il carrozziere di Arce che venne ingiustamente sospettato e incarcerato del delitto, che venne assolto in primo grado, in appello e in cassazione grazie alle attività del sottoscritto, del CESCRIN, dei consulenti dott. Enrico Delli Compagni, Marco Lilli, Giusy Ruffo e Dante Davalli ed ai legali Avv.ti Silvana Cristofaro, Romano Misserville (primo grado) ed Eduardo Rotondi (appello e cassazione). A suo tempo proponemmo un profilo criminale dell’ignoto autore dell’omicidio che ne definiva sia le caratteristiche di possibilità, di opportunità, di conoscenza dei luoghi e della vittima e di capacità; sia le caratteristiche psicologiche, comportamentali, tecniche, organizzative, logistiche ed esecutive per fare quello che a Serena venne fatto: cattura, morte, trasporto, ferocia imbalsamatoria, composizone del corpo e della scena; sia gli scenari omicidiari con movente, intento primario, contesto, territorio e circostanze. Finalmente gli inquirenti hanno deciso di sbucciare le bucce mai sbucciate”.
Due sono – finora - i fronti dell’ipotesi accusatoria della Procura di Cassino, quello dell'ex maresciallo, Franco Mottola, con suo figlio Marco ( ora vivono a Teano, il figlio ha una attività commerciale in Provincia di Caserta ) e il carabiniere Francesco Suprano e l'altro, dove c'è l'ex fidanzato, Michele Fioretti e sua madre, Rosina Partigianoni.
C'è poi un ignoto, fra le persone indicate nel registro degli indagati; non è esclusa la presenza di una sesta persona, dunque. E’ il mistero sul quale, in questi giorni, si concentrano le maggiori attenzioni. Appartiene all'Arma? Si chiedono in molti? Ha una attinenza con il profilo del brigadiere dei carabinieri, Santino Tuzi, morto suicida nel 2008? E ancora l’attento esame da parte della Procura delle due lettere anonime arrivate nei giorni scorsi alla redazione di un giornale locale da parte di un “corvo” che pare molto informato, sia sulla dinamica del delitto, che sulla tecnica di investigazione.
“Sono esterrefatto, sbigottito”. Con queste parole il carabiniere Francesco Suprano (difeso dagli avvocati Emiliano Germani e Eduardo Rotondi, quest’ultimo già difensore del Belli) ha voluto esprimere il suo profondo sconcerto e disappunto alla luce della sua iscrizione nel registro degli indagati per l’omicidio di Serena Mollicone. Anche l’ex maresciallo Franco Mottola e suo figlio Marco, respingono  con veemenza l’odiosa accusa e sono disponibili a sottoporsi a qualsiasi indagine per fugare ogni dubbio sul loro coinvolgimento in questa orribile e squallida vicenda.





LA PREFAZIONE DEL LIBRO "IL DELITTO DI UN UOMO NORMALE" A CURA DEL CRIMONOLOGO CARMELO LAVORINO

PREFAZIONE


Ferdinando Terlizzi ci racconta un fatto di cronaca nera e il suo iter giudiziario del 1960, una storia criminale di alto effetto emotivo, drammatica e inquietante. “È una materia saggistica che - come diceva Leonardo Sciascia - assume i modi del racconto”.
“Non ci interessano i bei delitti, ma i “casi” i cui moventi restano misteriosi, casi che sfuggono alla psicologia tradizionale e non ci importa quasi nulla dei 1.500 delitti che si consumano ogni anno in Italia - ha spiegato Vittorino Andreoli - ma siamo spaventosamente
attratti da quei 5-6 che sembrano un romanzo. Quelli cioè che ci permettono di giocare con le nostre più segrete paure”. Un “caso”, appunto, quello descritto in questo libro, il cui vero movente resta ancora un mistero, nonostante quattro processi. Un delitto cruento ed eccezionale per il comportamento criminale dell’assassino, privo di pietà e deumanizzante la vittima, con l’esecutore materiale del delitto affranto dal pentimento e schiacciato dalla volontà di espiazione dopo l’azione omicidiaria
e di occultamento del cadavere.
Un caso criminale e giudiziario dai contorni ancora misteriosi, commesso in modo premeditato da un uomo buono e normale, così buono e normale che come lavoro faceva il medico del carcere e lo specialista in malattie della pelle e veneree. Un uomo conosciuto come onesto, probo, di buona famiglia e timorato di Dio, che un giorno decide di oltrepassare il Rubicone della normalità e del confine bene-male. Oggi lo descriverebbero come “il buon vicino
della porta accanto” dalla doppia vita e dalla doppia personalità, che nasconde le depravazioni e il crimine dietro la classica facciata di bigotteria e falso perbenismo, oppure che si è scatenato dopo il classico corto circuito del “raptus” omicida. Quando il suo cervello ha fatto click!
Il medico dona la vita perché la salva, perché la tutela, perché ne cura i nemici naturali: invece, nel libro di Terlizzi, il medico, da uomo normale, si trasforma, d’improvviso, spinto da più motivi, a donatore di morte, eseguendo un progetto criminoso ben definito e organizzato: attira la vittima in un tranello con la scusa di avergli procurato un posto di lavoro, la invita a controllare la ruota della macchina, la colpisce con una sbarra alla testa, gli conficca il punteruolo nel cuore, poi, lo stringe al collo col filo di ferro e  gli lega due mattoni ai piedi, infine lo scaraventa nelle limacciose acque del fiume Volturno, dal Ponte “Annibale”, in agro di Caizzo, nella provincia di Caserta.
La vittima è uno studente di 18 anni, Gianni De Luca, napoletano, che faceva l’indossatore per l’Alta moda. L’assassino reo confesso è “l’uomo normale”
Aurelio Tafuri, 32enne di Santa Capua Vetere. Il movente è sicuramente del tipo passionale, a sfondo sessuale, di gelosia e invidia, di autotutela, punitivo e di vendetta. Ma c’è di più, c’è un “quid” misterioso e invisibile che Terlizzi insegue e alla fine individua.
Sicuramente il movente dell’omicidio è collegato al fatto che vittima e assassino erano ambedue amanti di Anna Maria Novi, una ballerina napoletana di 22 anni, entraîneuse, donna avvenente e spregiudicata, avvezza a giochi erotici, oltre che perdutamente innamorata della bella vita e dei soldi altrui, tanto che era riuscita a spillare ad Aurelio Tafuri fior di milioni. Ma ridurre il tutto al classico delitto del triangolo sessuale è riduttivo, banale ed antistorico: Terlizzi nel suo libro approfondisce anche questo aspetto.
Il movente omicidiario senza ombra di dubbio ha un’altra componente, quella del disturbo mentale, sia esso la schizofrenia incapsulata, come hanno ritenuto gli psichiatri che periziarono l’imputato e assassino reo confesso, sia un disturbo narcisistico di personalità, oppure un disturbo del tipo istrionico o del tipo borderline, o qualcos’altro. Ci sono delitti di passione e delitti di
logica. Il confine che li separa è incerto. È quel confine che Terlizzi definisce “la frontiera invisibile”. Ma si tratta di una follia sfuggente, fredda, lucida, intelligente, organizzata e... logica, perché ogni azione e comportamento dell’assassino può avere diverse spiegazioni, non solo quello di un assassino compulsivo e ossessionato, ma anche quelle del killer pianificatore, dominatore,
che poi diviene preda di altri dominatori e delinquenti. Certamente
l’assassino era capace di intendere e di volere, anche se la capacità volitiva poteva essere stata ottundata dall’odio, dal senso di morte e dalle traversie sessuali-passionali di Aurelio Tafuri; certamente l’assassino ha dimostrato le cosiddette capacità cognitive, organizzative, previsionali, decisionali ed esecutive... ma, come giustamente ipotizza l’autore, non è stata tutta farina del
sacco di Tafuri. Infatti, in molti casi, le costruzioni deliranti degli assassini si reggono su un’evanescente parvenza di logica. Nel libro di Terlizzi si legge e si sospetta molto di più!
Ci sono contorni ancora misteriosi e interrogativi mai risolti: se l’assassino abbia agito da solo o con altri; se abbia caricato sulla propria vita l’enorme peso di responsabilità, complicità e spinte altrui per proteggere i propri complici e/o mandanti; se alle spalle delle attività ammaliatrici della bella Anna Maria Novi possa esserci qualche invisibile suggeritore, spregiudicato regista e diabolico profittatore; se le mani che hanno fracassato la testa del povero De Luca, che gli hanno trafitto il cuore, che gli hanno stretto il collo col filo di ferro, siano state sempre e solo quelle di Tafuri, oppure ce ne siano anche altre!
Come si vede, l’enigma resta tuttora aperto grazie a due persone:
1) Aurelio Tafuri, che si è fatto carico di espiare per tutti, come se volesse appropriarsi di tutti i messaggi d’odio pratico e simbolico scatenatisi contro il corpo della vittima, fracassata al cranio, colpita al cuore, strangolata e annegata;
2) Ferdinando Terlizzi, che ha esplorato tutte le piste, ha proposto ed enunciato un’opera colossale e riproposto il problema di come siano realmente le cose: compito dello storico, del cronista giudiziario e del giornalista investigativo.
“Tutti gli omicidi sono delle autentiche tragedie. Drammi - ha scritto Marino Niola (insegna antropologia culturale all’Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli) che suscitano un’attenzione morbosa. Non solo perché ci sono delle vittime ma per l’assurda efferatezza del crimine. Per il valore simbolico che certe vicende assumono nell’immaginario collettivo. Per la loro capacità di far balenare dei grumi oscuri dell’essere trasformando un episodio di cronaca nera in una cartina di tornasole che ci rivela inaspettatamente qualcosa di noi. Qualcosa che ci riguarda come individui e soprattutto come società.
È questo lampo improvviso che fa d’un semplice fatto di sangue un dramma collettivo, una rappresentazione pubblica che richiama in questione i fondamenti stessi della vita sociale. E soprattutto li investe in una luce pietosa che ce li fa vedere fino in fondo, nei loro particolari più spaventosi. Proprio quel che faceva lo spettacolo tragico nell’antica Grecia mescolando atrocità e fiction, orrore e mitologia splatter e morale per mostrare alla collettività il suo lato
oscuro. In questo senso oggi l’opinione pubblica si appassiona ai grandi casi giudiziari come gli Ateniesi dell’età di Pericle si interessavano alle sanguinose vicende di Edipo, alla inesorabile crudeltà di Medea, alla interminabile catena di vendette incrociate che decima la stirpe degli Atridi. Infanticidi, parricidi, matricidi, incesti, squartamenti, stupri, cannibalismo. La mitologia antica è
un catalogo completo di archetipi dell’atrocità. Soffrendo, commuovendosi, interrogandosi immedesimandosi in quelle terribili storie, i cittadini della polis cercavano un filo che li aiutasse a orientarsi nelle tenebre dell’essere, a trovare ragioni per ciò che non ha ragione. Per liberarsi da quella quota di male che
è in tutti gli uomini proiettandola sui protagonisti di quelle terribili finzioni che davano un nome e un volto a un’oscurità destinata altrimenti a restare senza nome”.
Ferdinando Terlizzi, infatti, nel suo lavoro evidenzia proprio l’aspetto di cui parla Niola... “Questa è la storia, truce e aberrante, di un delitto che ha coinvolto uno di noi. Uno “normale”, almeno dall’apparenza, travolto, però, da una passione ignominiosa. Un professionista. Una storia nella quale l’assassino avrei potuto essere io, e finire in manette a “S. Francesco”. Oppure uno di voi, la vittima, gettata nei fondali del
Volturno, con il cuore trafitto da un punteruolo, con due mattoni legati ai piedi”.
Certamente Tafuri è un assassino che, nelle sue contraddizioni, menzogne, confessioni e mille verità, ha nascosto i cinque grandi elementi che costituiscono - a livello criminologico e d’investigazione criminale - la struttura interna e segreta del crimine, quei cinque elementi che invece, se ben definiti e collegati, aiutano a comprendere la realtà delle cose:
1) il vero e totale movente dell’uccisione del povero Gianni De Luca, la cui morte, oltre a gratificare psicologicamente Aurelio Tafuri, ha gratificato qualcun altro e sotto altri aspetti;
2) l’obbiettivo principale della sua morte, se solo del tipo emozionale, basato su sentimenti personali, oppure per motivi economici, di gerarchie all’interno d’un gruppo di pervertiti, con qualche collegamento ad attività malavitose di vario genere;
3) se trattasi di un contesto di omicidio di gruppo, oppure in seguito a litigio e scontro fisico, se per motivazioni che vanno oltre il sesso e la fissazione amorosa;
4) come, quando e da chi sia stata organizzata l’intera azione criminosa, anche a livello logistico;
5) il ruolo avuto da diversi personaggi della vicenda che orbitavano tutti attorno alla pietra dello scandalo (Anna Maria Novi): il sarto omosessuale Carlo D’Agostino, il primo amante fisso Egano Lambertini, l’industriale floricoltore Antonio Delle Cave, il noto Dongiovanni e cugino di Aurelio, Giovanni Tafuri: non proprio un convento di educande e chierichetti, dove l’assassino Tafuri era il vaso di coccio fra i vasi di ferro.
Ferdinando Terlizzi, nel sistemare al punto giusto i tasselli dell’intero mosaico della vicenda, si riporta agli atti del processo, all’intera documentazione storica e giornalistica, agli atti d’indagine, poi, da buon giornalista investigativo scava, ipotizza, ricerca, deduce, conclude e pone ulteriori interrogativi.
Scava nei propri ricordi e nel vissuto personale, scatena un’attività di segugio e di ricostruzione degli eventi, dei sentimenti, delle emozioni, dei clamori e del sentito dire.
Lo fa perché è sempre stato un giornalista “ficcanaso” e d’assalto, oltre che attento osservatore dei costumi e del divenire sociale. Lo fa perché è nato a Santa Maria Capua Vetere ed è un profondo conoscitore del territorio, dei luoghi della vicenda e delle relative problematiche processuali e criminali.
Lo fa perché l’omicidio di Gianni De Luca avviene a pochi chilometri dalla sua città, perché l’assassino è di Santa Maria. Lo fa perché conosce gli uffici giudiziari di Santa Maria, i protagonisti legali, gli avvocati, gli investigatori, il tessuto sociale, culturale e giudiziario. Anzi, lui stesso è stato travolto dal “tritacarne” della giustizia, per vicende che lo hanno visto arrestato, processato
e poi assolto!
Addirittura, Terlizzi conosceva l’assassino, il fratello Mario, la madre, il padre, il farmacista Manlio Tafuri. Terlizzi ricorda che quando era giovinetto andava a trovare il proprio padre Raffaele, noto come “Don Raffaele”, proprietario di un negozio di riparazioni radio e televisioni, un negozio che era situato quasi vicino alla farmacia di Don Manlio Tafuri, padre di Aurelio, il futuro protagonista del suo libro. Quelle volte che gli sguardi di Tafuri e Terlizzi si sono incrociati, mai poteva esserci il minimo sospetto, da parte di entrambi, di essere, il primo il futuro protagonista di un crimine e di questo libro, il secondo  l’acuto affabulatore e critico della storia criminale dell’altro.


Quattro sono gli aspetti dell’opera di Terlizzi che mi piace sottolineare:
1) l’abnormità della normalità e la logica illogicità del vissuto e della storia;
2) gli aspetti criminologici e giudiziari affrontati da Terlizzi in chiave moderna, nonostante sia una storia di circa mezzo secolo fa;
3) il fatto che, se all’epoca fossero esistite le indagini difensive e un processo moderno, molto probabilmente sarebbero venuti allo scoperto gli eventuali mandanti e fiancheggiatori del capro espiatorio Aurelio Tafuri;
4) la figura, il comportamento e la personalità di Tafuri.
Primo aspetto. Nel crimine tutto è normale se si parte dal presupposto che siamo fuori dalla normalità, che sono state oltrepassate le soglie della morale comune, delle regole, del vivere sociale, del confine bene-male, delle norme giuridiche. Nella normalità c’è una logica, ma tutto trova una spiegazione logica anche fuori di essa, nel campo della follia, della violenza, dell’aggressività, dell’omicidio, delle perversioni sessuali e del comportamento criminale: il criminale, quando ha deciso di uccidere, si organizza, vive, respira e fantastica solo per l’esecuzione del progetto di morte. La criminologia omicidiaria
è la scienza che studia la codificazione, la disciplina e la classificazione del più grave delitto dell’uomo contro l’uomo, per individuare il colpevole. Per fare questo normalizza, congela, disgela, seziona, analizza, e poi classifica, crea categorie, collegamenti. Laddove Terlizzi ci pone per titolo un paradosso,
cioè, “Il delitto di un uomo normale”, ci ricorda che il crimine è la regola del comportamento umano, e che il buon comportamento invece, rappresenta l’eccezione che domina istinti, passione e pulsioni distruttive; Terlizzi ci ricorda che quando si perdono i freni inibitori, il controllo degli impulsi, il senso della misura dei comportamenti, l’essere umano, “normalmente”, può commettere atti fuori dalle norme giuridiche, etiche e morali, sino ad arrivare
all’omicidio. Anche Lucio Dalla nella sua canzone “Disperato erotico stoung” ci racconta e ci canta “normalmente ho incontrato una puttana... ottimista e di sinistra”, laddove di normale non c’è nulla, tranne che la povertà e il sesso mercenario.
Secondo aspetto. Terlizzi, vecchia volpe del giornalismo investigativo e studioso della criminologia investigativa, interpreta il delitto di 50 anni fa sotto gli aspetti che noi oggi chiamiamo “indicatori del crimine”. Ecco che l’accanimento dell’assassino sulla vittima, prima colpi fracassanti di sbarra alla testa, poi
colpi di certezza omicida, inferti tramite un punteruolo, sino alla cinzione col filo di ferro, divengono “over killing”, cioè, oltre la morte. Un tipo speciale di accanimento verso la vittima con l’intima speranza della distruzione totale, della non resurrezione. C’è un “ma”! Perché Tafuri non ha inferto alcuni colpi di odio e di disprezzo verso i genitali del suo “concorrente”? Perché non ne ha vilipeso il cadavere? I colpi alla testa con la sbarra li ha veramente
inferti lui? Non è che ci siano stati due colpitori, uno per la testa (aggressione proditoria con abilità e coraggio delinquenziali) e l’altro per il cuore (aggressione scientifica)?
Altro indicatore del crimine è la firma dell’assassino nei confronti della vittima: annichilimento, cancellazione e distruzione totali... salvo poi fare i conti con la propria coscienza, confessare ed espiare.
Terzo aspetto. Terlizzi mette il dito sulla piaga, mostrandoci il bicchiere mezzo pieno, pieno dell’oratoria dei dodici difensori dell’imputato e della parte offesa. Ma mezzo vuoto, perché privo delle indagini difensive che, bene o male, di dritto o di rovescio, le parti potevano ben fare, visto che non le fecero gli inquirenti. Su questo preferisco stendere un velo pietoso, perché sono stato contrario, ancora prima di nascere, agli avvocati che basavano tutto sulla famosa arringa fiume, saccente e totalizzante, dimenticando il fatto e le sue componenti logiche e investigative.
Quarto aspetto. Tafuri è il protagonista, nel bene e nel male, del libro di Terlizzi e della vicenda giudiziaria. È stato ed è oggetto di studio e di discussione per le modalità preparatorie, esecutive e post crimine dell’omicidio, per i contorni criminali e per l’humus di perversioni, reati e deviazioni che lo hanno cullato, prodotto e fagocitato. Dalle indagini è emerso che Tafuri non penetrava sessualmente Anna Maria Novi, non certamente per impotenza
erigendi o coeundi, ma solo perché amava masturbarsi, ammirare la sua amata, eccitarsi, guardandola e guardando le sue performances sessuali con altri uomini. Tafuri era sicuramente affetto da voyeurismo, una parafilia che nel suo caso era strumentalmente speculare alle perversioni altrui di essere guardati, mentre si esibivano sessualmente. Tafuri, sicuramente, si era invaghito di una donna “dai facili costumi” che in tutto poteva eccellere, tranne che in fedeltà e attaccamento ai valori etici e
sociali cui egli era stato allevato. Tafuri è stato periziato, sezionato e rivoltato: il lettore, seguendo il cammino proposto nel libro, potrà comprendere lentamente, coordinando le emergenze processuali e scientifiche con le considerazioni di Terlizzi, la personalità di Tafuri, potrà comprendere che realmente l’uomo vive sospeso su un abisso chiamato “altissima probabilità di ammazzare un altro essere umano”, basta che se ne presentino la circostanza e la motivazione pulsionale.
Il libro di Terlizzi è sicuramente uno strumento di studio, di riflessione e di insegnamento per i giovani e per i meno giovani. Propone un caso d’omicidio che si presenta immediatamente per ciò che appare (violenza gratuita, slatentizzazione dell’aggressività maligna e distruttiva, sesso, soldi, depravazioni e perversioni, imbrogli, millanterie, passioni umane, il solito triangolo che poi aumenta di lati, sino a divenire un pentagono), per poi aprire la seconda porta, quella delle verità nascoste, delle vicende processuali, della scienza che investiga, che spiega, che pone quesiti.
Quello che è accaduto a Terlizzi è un classico. Dopo anni di articoli dimenticati (gli articoli esistono per essere dimenticati, tanto che Dostoevskij è rimasto per “I fratelli Karamazov”, non per gli articoli pubblicati su “Epocha” o “Vremja”), il giornalista diventa scrittore e sforna il suo libro con la speranza che almeno quello resti.
L’Autore vuole “lasciare” una tangibile testimonianza con la sua “opera”, vuole, che il suo lavoro serva a istruire i giovani e principalmente a trarre dal succo una morale di vita. Tanto è vero che Terlizzi, a un certo punto, chiosa: “Ritengo doverosa questa pubblicazione, non fosse altro che per lasciare ai giovani uno strumento di studio, di riflessione, di insegnamento. Per trarre,
se possibile, dall’intera vicenda, una morale di vita”. Molti scrittori però si limitano a raccontare la superficialità delle cose, a non approfondire, a non appesantire con le documentazioni processuali. Terlizzi invece, va oltre le apparenze di comodo, va a sbucciare le bucce mai sbucciate, perché ha voluto imparare dalla vita e ha voluto anche ricordarci una preziosa verità e famosa massima di Socrate: “Io so di non sapere”.
A cura di Carmelo Lavorino
Criminologo e Investigatore criminale






sabato 23 luglio 2011

L'INCIPIT DEL LIBRO DI FERDINANDO TERLIZZI "Il delitto di un uomo normale... eticamente deviato da una passione ignominiosa


La pazza storia





Questa è la storia di un omicidio, di un processo per omicidio e di alcune persone che vi parteciparono volontariamente o furono prese nella rete degli avvenimenti. Prese nella rete è un’immagine quanto mai appropriata, giacchè si direbbe che l’omicidio possieda, più di ogni altro reato, un’irresistibile forza d’attrazione, per cui la gente, spesso con meraviglia e ogni tanto per errore, finisce fatalmente nelle sue maglie. Queste poche parole sono l’incipit di un classico della narrativa giudiziaria “Anatomia di un omicidio”, di Robert Traver, pseudonimo di John D. Voelker, un alto magistrato americano, autore di vari romanzi di argomento giudiziario, ma sembrano scritte apposta per l’inizio di questa storia.














LA COPERTINA DELLA TERZA EDIZIONE IN RISTAMPA
In questo libro è raccontata la storia di un omicidio e dei processi che ne seguirono. Ma non è soltanto la storia di un delitto commesso da un presunto “pazzo”, ma anche la narrazione e lo sviluppo di una storia “pazza”. La storia, truce e aberrante, di un assassinio che ha coinvolto uno di noi. Uno “normale”, almeno dall’apparenza, travolto, però, da una “passione ignominiosa”. Un professionista! Una storia nella quale l’assassino avrei potuto essere io, e finire in manette a “S. Francesco”. Oppure uno di voi, la vittima, gettata nei fondali del Volturno, con il cuore trafitto da un punteruolo, con due mattoni legati ai piedi. È una storia avvolta da un funereo velo, dove la “donna-puttana”, si prende gioco dei sentimenti e dell’amore, spingendo uno dei suoi ultimi amanti, nel bàratro del delitto. Una storia maturata in un ambiente equivoco, strano, losco; dove un pederasta fa il ruffiano per denaro, e organizza “droga-party” e “poker-strip”, per eccitare gli amanti di turno di una ballerina fallita. È una storia che travolge un giovane che faceva le sfilate per l’alta moda maschile, inesperto della vita. Ma con tanta voglia di viverla.


Il giornalista Ferdinando Terlizzi autore del libro alla sala stampa estera in occasione della conferenza stampa per l'assoluzione del mostro di Firenze. All'epoca Terlizzi era direttore di "Detective&Crime" edito dal criminologo Carmelo Lavorino che ha scritto la prefazione del libro "Il delitto di un uomo nornale" -








 È la storia che distrugge la brillante carriera di un giovane medico, inesperto del sesso, ma disposto a tutto pur di viverlo a fondo. Entrambi di buona famiglia. Entrambi, purtroppo, hanno trovato sulla loro strada una strega che era abituata a “baciare finanche il culo a Satana”. Ma è anche la storia di matrimoni negati, di figli che vogliono vivere la loro vita, senza condizionamenti. Di madri bigotte che vogliono, a tutti i costi, inculcare una religione ai figli che non sia quella orgiastica. È la storia di ricchezze sperperate, nella dolce vita, con prostitute e pederasti. Ma anche la storia di famiglie della media borghesia degli anni Sessanta, che vogliono riscattare le loro ancestrali colpe, tentando di lanciare i figli nel “jet-set”. Una storia, insomma, di sesso sfrenato, di falsi moralismi, di cortigiane arricchite, di corna, di tradimenti pilotati, di triangoli, di mènage a tre, a quattro, a cinque, a... È una storia dove gli strozzini hanno lucrato, milioni a palate, e non sono solo comparse scialbe. Una storia dove hanno giocato il loro ruolo e hanno le loro colpe e, credo, porteranno i loro scrupoli in eterno sulle coscienze, ammesso ,che gli strozzini ne abbiano una. Ma è principalmente la storia dove il protagonista immagina il “mondo” come un grande palcoscenico, dove tutti i riflettori sono puntati sui genitali. Dove l’uomo vive solo per quelli, per eccitarli, per aizzarli, per soddisfarli, in tutti i modi, in tutte le forme. Nessuna regola. Nessun freno...


È dal 1970, quando ero nel pieno della mia attività giornalistica, che avevo maturato l’idea di raccogliere materiale sulla vicenda del medico sammaritano. Per molti motivi. È stato un processo che mi ha sempre impressionato, per la singolarità del personaggio, per l’ambivalenza del movente, per la presenza dei
più noti avvocati penalisti dell’epoca e non solo. Per i memoriali scritti dall’imputato, che sono, secondo me, un’opera di grande interesse culturale e umano. Questa vicenda ha esercitato su di me un fascino non indifferente, dai primi passi di cronista giudiziario, fino a oggi, che sono vecchio, stanco, decrepito e
“semi-analfabeta travet”, del grigio giornalismo provinciale, se volete anche deluso della vita, ma ancora convinto della validità di questa pubblicazione. Il processo, le arringhe, i memoriali del medico assassino, scritti nel carcere, subito dopo il delitto (prima di essere giudicato e condannato), sono per certi versi inediti; la perizia, l’accusa, la difesa; le contorte motivazioni delle sentenze
dei quattro processi, rappresentano, secondo il mio modesto punto di vista, documenti insostituibili della storia giudiziaria d’Italia. La loro lettura mi ha fatto, spesso, sprofondare in una incomprensibile depressione.
Debbo precisare, però, che dallo studio, per esempio, dei memoriali, ho spesso attinto, lo confesso, ma non sono pentito, frasi o citazioni per i miei quotidiani resoconti giudiziari. C’è, però, uno dei difensori di Tafuri che, a proposito dei memoriali, è di parere diametralmente opposto al mio. Sostiene questi, infatti, che l’intera narrazione, o l’ossatura, se non il canovaccio, che ha ispirato Tafuri a scrivere i tre quaderni del suo memoriale, sia interamente copiato, ovviamente con la sostituzione dei nomi, dal famoso libro “Una generazione felice”.

Io, tuttavia, sono rimasto fermamente convinto dell’utilità d’una pubblicazione degli stessi, che potrebbero interessare giovani avvocati, studenti di giurisprudenza, operatori del diritto, studiosi di psichiatria forense, appassionati di libri gialli, e pertanto ho proseguito nelle mie ricerche.
Mi buttai alla raccolta di notizie, fatti inediti, giornali dell’epoca. Riuscii finanche a fotocopiarmi l’intero incartamento del processo che era conservato nei polverosi archivi del sottosuolo del Palazzo di Giustizia e continuai ad archiviare materiale.
Non senza notevole dispendio di energie, recuperai anche le due più significative arringhe, una riguardante un difensore di parte civile, e l’altra, pronunciata dal maestro dell’oratoria forense, che si assunse la responsabilità di difendere il medico sammaritano. Arrivai finanche a scrivere allo stesso Tafuri, allora ristretto nel carcere di Perugia, offrendogli la possibilità di collaborare, in prima persona, a una eventuale pubblicazione “a quattro mani”.
Puntuale, metodico, cortese, com’era nel suo stile di vita, Aurelio Tafuri mi inviò una lettera nella quale “pur manifestando un vivo apprezzamento per il mio acume giornalistico”, declinava ogni sorta di collaborazione, preferendo che la sua vicenda, che tanto clamore aveva suscitato in Italia e non solo, fosse coperta dalla
patina dell’oblio. Tuttavia, l’uscita del libro “Kriminal Tango”, nell’anno 2002, nel quale la vicenda Tafuri è tra quelle che più hanno fatto scalpore, mi ha spinto a terminare il lavoro.
E già. Che la sua vicenda rimanesse nell’oblio. Come dar torto a Tafuri? Ne condividevo e ne condivido i motivi. Tuttavia, ritengo doveroso, per uno come me, che da oltre quaranta anni, segue, per giornali, riviste e tv, la cronaca giudiziaria, la pubblicazione di questo volume. Non fosse altro che per lasciare ai giovani uno strumento di studio, di riflessione, di insegnamento. Per trarre, se possibile, dall’intera vicenda, una morale di vita. Anche se sono trascorsi 50 anni. Ho, infatti, iniziato ad abbozzare questo libro con una macchina da scrivere Olivetti lettera 22 e l’ho finito oggi, nell’era del Macintosh.
Aurelio Tafuri è il più singolare imputato mai passato alla storia criminale di tutti i tempi. Molti processi, e questo è uno di quelli, vanno oltre la cronaca nera e giudiziaria. Alcuni sono la testimonianza, spesso, dei vertici ai quali può giungere il dolore, la pazzia, lo sconforto e l’incomprensione degli uomini.
Avvocati, giornalisti, magistrati, poliziotti, psichiatri, tutti hanno cercato, in innumerovoli modi, di mettere a nudo la complessa, sconcertante personalità di Aurelio Tafuri. Nella mia lunga esperienza di cronista giudiziario, (ho fatto per molto tempo - come diceva Guido Rodari - “il mestiere di andare a vedere, ascoltare, confrontare, fare domande giuste, documentarsi” e “anche annusare”, come hanno spiegato Ettore Mo e Lina Coletti ), ho potuto constatare che questi anni - e non solo - sono stati caratterizzati da una serie di delitti più o meno passionali, nei quali la donna è apparsa o esecutrice o ispiratrice.
Un episodio che cito per tutti, battezzato dai media con il titolo: “La Circe di Mondragone”. Petronilla D’Agostino, infatti, è passata alla storia criminale perché, in cambio di prestazioni sessuali orali, spinse il genero a uccidere il proprio marito. Il “caso” approdò prima alla trasmissione tv “Un giorno in Pretura”, condotta dalla bravissima Roberta Petrelluzzi e poi anche nella serie delle “Storie Maledette”, della Rai tv. Ed è appunto una “storia maledetta”, quella di Petronilla
D’Agostino, condannata a 26 anni di reclusione, per concorso “morale” in omicidio premeditato aggravato. La fantastica storia inizia nel settembre del 1991, alloquando venne trovato il corpo senza vita di Enrico Piscitiello, crivellato da numerosi colpi di pistola. Successivamente, a seguito di indagini, vennero tratti
in arresto Michele Maruchiello e Maurizio D’Ambrosio, giovani manovali di Mondragone, entrambi sposati alle due figlie della vittima. Nel corso delle indagini, ostacolate dalla pressante omertà della zona (per anni teatro delle gesta del clan dei La Torre) emerse una vicenda boccaccesca, addirittura inedita per
gli annali criminologici della Provincia di Caserta. La D’Agostino, moglie del Piscitiello, venne chiamata in giudizio per “concorso morale in omicidio”, proprio dai due generi che aveva irretito. Venne fuori, tra l’altro, una “verità” sconcertante. La donna, previa prestazioni sessuali “sui generis”, aveva plagiato i due giovani e li aveva istigati a uccidere il marito, il quale, pur essendo un uomo mite, ma dedito principalmente all’alcool,
rappresentava un ostacolo per la donna, che era incline invece, ad avere rapporti sessuali con varie persone, e, principalmente, con i mariti delle due figlie. Nel processo di primo grado, celebratosi innanzi la Corte di Assise di S. Maria C.V., la “Circe”, inverosimilmente, venne assolta, mentre i due giovani vennero condannati entrambi a 26 anni di reclusione.
Contrariamente a quanto aveva chiesto, invece, il pubblico ministero Paolo Albano, al termine della sua requisitoria, che aveva prospettato per tutti, mandanti ed esecutori materiali, la pena dell’ergastolo. Celebratosi il processo d’appello, i giudici di secondo grado, esaminato più accuratamente il “movente e la peculiarità del compenso” per la istigazione del delitto, ritennero la Petronilla D’Agostino, colpevole di istigazione e concorso morale in omicidio aggravato, e la condannarono, come detto, a 26 anni di reclusione. La Cassazione confermò in ogni punto la sentenza di secondo grado. E mentre giudizialmente parlando, il caso della Circe di Mondragone è definitivamente chiuso, si apre uno squarcio sul motivo sottostante e sulla peculiarità della “moneta” pagata per istigare a compiere un delitto. Nel novero dei casi giudiziari della Provincia di Caserta, vi sono precedenti di omicidi, pagati con partite di droga o addirittura a... rate, con tanto di cambiali. Mai si era saputo di un delitto pagato con prestazioni “orali” sessuali. Tuttavia, singolare appare
anche quello di Antonio Consales, medico di Sessa Aurunca, e allora sindaco, negli anni Settanta, il quale, con la complicità di un impiegato comunale, detto “manomozza”, pagò a cambiali i presunti killer: due cacciatori di Casal di Principe, per tentare di far uccidere il professore Franchino Ianniello, uomo politico
locale, assai influente, allora segretario provinciale della Democrazia Cristiana. Si disse di lui che era stato anche il medico che aveva tagliato un orecchio a Paul Getty III°, nipote del petroliere americano, il miliardario Paul Getty I°, rapito
dalla ndrangheta, e tenuto ostaggio, su di un cargo, al largo di Gaeta, dal 10 luglio 1973 e fino al 15 dicembre dello stesso anno. Su questo rapimento non si è fatta mai piena luce. Se ne attribuì la paternità a Lucianeddo, alias Luciano Liggio. Entrambi i protagonisti (rapito e rapitore) hanno fatto una brutta fine.
A quanto se ne sa, il primo è vivo ma è cieco, distrutto dalla droga, il secondo morì in carcere.
Dunque, ritornando alla nostra narrazione, mai delitti sono stati pagati o istigati con prestazioni sessuali e per giunta con il coinvolgimento di familiari, sia pure acquisiti. Petronilla D’Agostino – la “Circe di Mondragone” – entrerà nella
storia criminale solo per questo, per la singolarità della sua “moneta”, dimostrando,  se ve ne fosse ancora bisogno, che la donna possiede “armi” convincenti, micidiali, che può usare per fini abietti, e che i suoi “strumenti” di seduzione possono portare anche all’omicidio. In tante altre storie “maledette”, però, vi sono figure di donne, di fascino irresistibile e dannoso, che provocano tanto interesse e clamore, non tanto per i moventi dei loro delitti, quanto per il fascino e il mistero che emanano. Aurelio Tafuri era diventato schiavo delle proprie passioni per una donna fatale? Era un uomo il cui destino era legato alle catene indissolubili del delitto? Non mi pare.








martedì 19 luglio 2011

UN BRANO TRATTO DAL LIBRO "IL DELITTO DI UN UOMO NORMALE" DI FERDINANDO TERLIZZI

UN GRANDE AVVOCATO:
GENNARO MARCIANO


In quella stessa Corte di Assise, molti anni prima, era stata processata anche una feroce banda, capeggiata da Giona La Gala, che seminava terrore e morte tra Maddaloni e Arienzo. Un medico, ritenuto un delatore, convocato in montagna, era stato ucciso e fatto a pezzi che qualcuno aveva anche mangiato. Per dare una parvenza di legittimazione alle brutali imprese i componenti della banda La Gala innalzavano bandiera borbonica. L’assalto alle carceri di Caserta e la liberazione dei prigionieri accreditava la loro figura di insorgenti contro il governo piemontese. E accreditava anche la voce che il loro referente fosse la giovane regina Sofia, esule a Roma e non rassegnata alla perdita del trono di Napoli. La banda, braccata dall’esercito e destinata ad una esecuzione sommaria sul porto, trovò modo di imbarcarsi su una nave francese per riparare in Francia. Ciascun componente della banda era provvisto di passaporto dello Stato Pontificio. Francia e Stato Pontificio tifavano per il re di Napoli. Nei suoi confronti il Papa aveva un debito. Non più di un decennio prima Pio IX, costretto a fuggire da Roma, aveva trovato rifugio a Gaeta, accoltovi e protetto dal Re di Napoli, padre dello spodestato Francesco. La Francia per conto suo aveva fatto anche di più. La flotta francese si era messa tra Gaeta e la flotta piemontese per impedire assalti. E con un battello francese, Francesco II, l’ultimo Re di Napoli, aveva lasciato il territorio del regno. La nave francese con a bordo i componenti della banda La Gala, diretta a Marsiglia, fece scalo a Genova. Il ministro di polizia, il napoletano Silvio Spaventa, li fece arrestare e tradurre in carcere. Violenta protesta di Napoleone III che denunziava la violazione del territorio francese. Tale era da considerarsi la nave. Pretese che gli fossero consegnati i prigionieri per poi decidere se restituirli o trattenerli in Francia come rifugiati. Negare la consegna dei prigionieri significava creare un incidente diplomatico e guastare i rapporti con la Francia, del cui aiuto l’Italia, appena unita, aveva bisogno. Napoleone III mantenne la parola e restituì i prigionieri che furono giudicati dalla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere. Non disponendo il tribunale di un’aula che potesse accogliere i numerosi imputati e garantire la sicurezza, il processo fu celebrato nella Caserma posta di fronte al carcere, attuale Caserma Pica, dove si appresta ad essere trasferita la cittadella giudiziaria del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ( caserma Pica. da me già citata, perché obiettivo delle Br che trafugarono armi e munizioni) e che proprio a ottobre del 2009 ha festeggiato il bicentenario con una manifestazione a livello nazionale alla quale è intervenuto, tra l’altro il ministro Guardasigilli Angelino Alfano, con un convegno dell’avvocatura nazionale che, grazie a Elio Sticco ( che come sempre si è avvalso, tra l’altro, della preziosa collaborazione del Prof. Avv. Alfonso Quarto ) ha fatto ribaltare la nostra città a livello nazionale.
In molti ricordavano anche il processo all’anarchico sammaritano Salvatore Ceci, per anni esponente del Partito Comunista sammaritano ( assieme a Leopoldo Cappabianca ). Salvatore Ceci fu accusato ingiustamente dell’uccisione di un carabiniere, avvenuta alla via Melorio, in occasione di una “scaramuccia” tra partigiani e soldati tedeschi in fuga. Ceci, processato e condannato ingiustamente, ( successivamente sarà assolto ) mentre lasciava l’aula della Corte di Assise, con ai polsi gli “schiavettoni di ferro” con una catena sorretta da un drappello di carabinieri, pronunciò, con livore, questa frase: ”Puttana è la giustizia e prostituto chi l’amministra”. Fu fermato dal Presidente e processato per direttissima per oltraggio alla Corte.

Ma non era l’unico a pensarla in quel modo. Molti anni prima, un grande avvocato napoletano, Gennaro Marciano, morto nel 1943, pochi anni prima della celebrazione di quel processo, scrisse una poesia che definiva, appunto la giustizia “una gran puttana”.

Gennaro Marciano fu tra i pezzi da novanta del foro più celebre del mondo. E lo fu in un’epoca non sospetta: e cioè quando i padrini del diritto si chiamavano Nicola Amore, Gaetano Manfredi, Emanuele Gianturco, Enrico Pessina, Giorgio Arcoleo, Carlo Fiorante! Ossia quando Napoli contava, per via dei suoi grossi campioni dell’eloquenza, almeno quanto contavano i suoi incanti naturali; quando Castelcapuano era affollato di deliranti patuti dell’arringa nella stessa misura in cui lo erano Lo scoglio di Frisio di patuti della fornacella, e il Salone Margherita di maestri della rattimma; quando nei salotti e nei caffè, nelle redazioni dei giornali e all’Università, tre argomenti non si potevano evitare: il fondo di Eduardo Scarfoglio, l’avvenenza della bella Otero e la causa in corte d’assise...

E lo fu, un pezzo da novanta, Gennaro Marciano, in maniera straordinaria: benché, come si è detto, il foro del suo tempo fosse un seminario di grandezza, un tempio di sacri mostri dell’eloquenza, una specie di incredibile almanacco nobiliare nel quale erano più i re e i principi che non i baroni. Tempestoso e furente, e poi pacato e flebile, e infine di nuovo travolgente come una valanga, Gennaro Marciano fu insomma il più grosso tribuno del diritto che Napoli - lo stesso che dire mondo! - avesse mai avuto. Canticchiava il popolino:

Armà’! Datte curaggio!

Tenjmmo ‘a causa mmano...

‘A parte ha miso a Porzio?

Mammà mette a Marciano!..

E mammà faceva bene! Perché, morti Pessina, Amore, Manfredi e Gianturco il re era lui, don Gennaro, l’uomo di cui tutti i giornali parlavano e non soltanto quelli di Napoli: il cannone del foro più celebrato del mondo; l’erede spirituale di Francesco Mario Pagano, di Giuseppe Poerio, di Roberto Savarese, di Francesco Lauria, di Leopoldo Tarantini, l’incarnazione regale del fondatore di quella Scuola (il Pagano) che affermò e mantenne un predominio intellettuale, riconosciuto e proclamato da tutte le nazioni civili del mondo. Dell’oratoria di Gaetano Manfredi, universalmente considerato il più grande oratore d’Italia, Alfredo De Marsico scrisse: Il misfatto più nefando assumeva i colori della seduzione e si trasfigurava in una specie di capolavoro che la natura compisse nell’orrido; e Giovanni Porzio: Non ho mai veduto aspettative più trepide di quelle che si producevano quando egli sorgeva a parlare. Una immensa curiosità, quasi sensuale, attraversava le fibre della folla, che si raccoglieva nell’ombra di un silenzio assoluto, ansiosa di palpitare, di fremere, di sentire svelare il mistero delle intime infamie della natura umana, le profondità sconosciute di sofferenze viventi, i segreti dell’anima...

Su Manfredi ho un ricordo personale, all’epoca in cui seguivo per Il Roma la cronaca giudiziaria. In una pausa delle udienze della Corte di Assise (era in svolgimento un grave processo per omicidio, quello del marchese Chianese di Giugliano che aveva ucciso i figli del suo fattore) erano presenti moltissimi avvocati e De Marsico raccontò appunto un aneddoto su Gaetano Manfredi. Questi stava parlando alla Corte – in difesa di un imputato per duplice omicidio – e il presidente ( evidentemente stanco e per il caldo ) calò il capo e si assopì. Manfredi, accortosi del fatto, diede un pugno sullo scranno di legno e gettando la toga esclamò: ”Quando parla Manfredi la Corte apprende”… lasciando l’aula!

Manfredi era stato, dunque, un formidabile portento dell’oratoria, l’artista supremo del foro. Ma Gaetano Manfredi, pochi giorni prima di togliersi la vita, aveva solennemente dichiarato ad alcuni giovani penalisti che gli raccontavano, pieni di entusiasmo, di un ennesimo trionfo di Marciano: Io so che in Marciano vi sono qualità che io non ho e che desidererei possedere...

Salito rapidamente al trono di Castelcapuano, Gennaro Marciano fu chiamato a inaugurare, nella stessa reggia del diritto, il busto di Enrico Pessina. Esordì dicendo: Per ricomporre, nei limiti di un discorso, lumeggiandola nella sua interezza e grandiosità, la figura di Enrico Pessina, che per circa un secolo legò il suo nome a quella del pensiero italiano, bisognerebbe conoscere l’arte di quegli scultori dell’antichità che riuscivano ad incidere l’immagine di un gigante nella piccola pietra di un anello... Nove anni dopo, e cioè nel 1926, inaugurò nello stesso tempio i busti dei tre suoi maestri: Nicola Amore, Emanuele Gianturco, Gaetano Manfredi. Alla cerimonia assistettero Alfredo Rocco, ministro Guardasigilli, il più bel mondo intellettuale di Napoli, i più grossi avvocati d’Italia, in rappresentanza di tutte le curie nazionali. Un vecchio avvocato mi ha detto di quella, giornata: i penalisti più incalliti d’Italia non sapevano dove nascondere i loro occhi rossi. In un silenzio da immensa cattedrale vuota, si udivano soltanto le note travolgenti di un discorso che pareva una sinfonia di Beethoven. Fra una pausa e l’ altra, i più grossi oratori d’Italia facevano udire i loro singhiozzi. Alla fine, Gennaro Marciano scese dalla tribuna nel vuoto di un silenzio incantato. Per quasi un minuto nessuno ebbe la forza di alzarsi e correre ad abbracciarlo. Don Gennaro li aveva scioccati: tutti quanti. E dire che metà del suo discorso lo aveva improvvisato.

Quando Gennaro Marciano morì, il 23 gennaio del 1943, il foro di Napoli che per lui aveva epigrammato:

Non chiedo al lenocinio delle parole il brio

di una frase di spirito. Per noi quest’uomo è Dio.

lo pianse come non aveva mai pianto nemmeno Mario Pagano. La mattina dei funerali fu tempestosa. E ricordandola, Alfredo De Marsico, l’ultimo paladino di quella Scuola bicentenaria, scrisse: Così doveva essere: un autentico dominatore della parola è una energia della natura; la sua scomparsa è una scossa ed un vuoto nell’equilibrio degli elementi.

Ma il genio del foro, il tuono della curia più dotta del mondo, l’affascinante signore della parola data, fu anche un eccezionale signore del... dopolavorismo napoletano. Come consumato professore di letteratura e di musicologia, fece conferenze su Gioacchino Rossini, dal quale aveva preso i crescendo e la passione per la buona tavola; su Giuseppe Parini, nel quale si riconosceva per la veemenza con cui il vecchio abate milanese aveva sferzato il malcostume blasonato che dilapidava ricchezze immense e affamava i miseri; su Sant’Agostino, che era stato la più battagliera delle sante penne; su Vincenzo Bellini, che era stato possente e delicato, travolgente e pacato, come erano le sue arringhe; e su Virgilio, che aveva amato la terra nella quale egli era nato, e con grandissimo ardore aveva decantato la pace dei campi, e l’aveva onorata in versi sublimi, come lui la onorava in... pugnaci e ghiottissime scorribande: e cioè scampagnando di qua e di là, presenziando a sfasciature di porci, e abbandonandosi, vivianescamente, a scialate di zuppe ‘e zuffritto e a pullastiate memorabili...

Re della dialettica forense, del linguaggio forbito, della dizione di artista finito della scena drammatica, non fu mai un quivis de populo. Un de populo sì, ma un quivis mai! E fu un napoletano di serie superiore: e in tutti i sensi. Anzi: fu di quelli che una volta incontrati non si dimenticano più. Perché poliedrici, straordinari. Pensate, per esempio, a questo che stiamo per dire e che ci fa impazzire: Gennaro Marciano fu bilingue! Lui! Principe del purismo della lingua italiana, fu tra più spontanei e più completi professori della lingua del Mandracchio! Pensate per un momento solo a questo prodigio incredibile ma storico: Gennaro Marciano - l’asso della parola toscana - era capace di adattare la sua genialità forense e pulita alla napoletanità più bella e scugnizzesca! Il genio che quando usciva di casa non poteva lasciare a far da segnalibro in codici e pandette, Gennaro Marciano se lo portava appresso, e riusciva, senza sforzo a travestirlo da sfaccimmaria da fondachiare, da scaricante, da lazzaro, da vastaso ‘e vascio Puorto!

E ciò che questo genio travestito perfino da sagacia suburrale era capace di fare - diciamo in un caffè o in un ristorante, nell’inebriante corso di una tavuliata o di una asciuta - è ormai storico: ormai appartiene al gran libro dei miracoli della napoletanità più favolosa. Giocava a tressette con lo stesso accanimento con il quale preparava l’impostazione di una difesa, e come tuonava in toga, così tuonava contro i pellecchiari: perché leggeva, con lo stesso occhio professionale, così nei codici, come nel libro ‘e quaranta; discuteva con Manfredi e con Porzio, con De Nicola e con De Marsico, ed era il vangelo della lingua italiana e la cassazione del diritto penale: ma poi entrava in caffè e ristoranti, e si abbandonava, felice, al più napoletano spettacolo di se stesso, e, felice, leggeva versi come quelli che seguono, e rievocava piccanti avventure, e le infiorava di battute di spirito e boutades da coltissimo scugnizzo.

(Beati coloro che potettero goderselo!... scrisse Angelo Manna).

LA DEA GIUSTIZIA

Diva fulgente, d’ogni colpa incolume,

maestosa, altera ed incontaminata,

passa nel mondo la giustizia umana…

Ed è una gran puttana!...

Cinta d’allori, nel suo tempio assisa,

dove per tutti si proclama uguale,

per la bontà dei sacerdoti suoi,

la fotti come vuoi!...

Talor la spada col suo pugno abbassa,

le bilance depone impunemente

tra i ceppi pur di mille leggi oppressa,

decide con la fessa…

Ingenuo ahimè chi per le vie legali

spera il trionfo delle sue ragioni!

Fidente aspetterà, tranquillo e muto,

e resterà fottuto.

Menzogna è delle leggi la tutela,

follia la fede alle virtù d’Astrea!

Della giustizia il sacro ministerio

Può dirsi un futtisterio…

Io pur non cesserò con la mia toga

di millantare i giudici, i processi,

le leggi austere, le sentenze dotte,

e il cazzo che li fotte…

Ma se talun il mio diritto offende,

farò giustizia con mie proprie mani.

E l’offensor, o delinquente o pazzo,

mi cacherà il cazzo!...



AVV. GENNARO MARCIANO