Elogio della violenza
Per la filosofa Luisa Muraro il contratto sociale è morto, è l’ora della forza
"Il contratto sociale è un’idea morta”. Lo dice la filosofa Luisa Muraro in un pamphlet appena uscito per Nottetempo e intitolato “Dio è violent”. Non è un refuso. E’ la scritta letta su un muro di Lecce, con l’ultima vocale illeggibile, da cui parte il breve testo di una della più carismatiche esponenti del femminismo della differenza. Dobbiamo ripensare il tema della violenza, è la sua tesi, prendendo atto della fine delle illusioni sul potere salvifico del contratto sociale. Questo è il compito che tocca a chi, “senza inferocirsi o inselvatichirsi, constata semplicemente che è vano agire in nome di una fiducia nella cosa pubblica con l’aspettativa di un ritorno”.
La filosofa legge in trasparenza “la positiva idea di una violenza giusta” in quella scritta sul muro di Lecce. La predicazione antiviolenza oggi è fallimentare, così come il patetico polverone dell’indignazione, perché favorisce “l’abdicazione ad agire, se necessario, con tutta la forza necessaria”. Quella stessa rispettabile predicazione “vorrebbe farci credere che la misura giusta la fisserebbe il confine tra forza e violenza”, quando invece “lo sconfinamento tra l’una e l’altra spesso è inevitabile”, e “separarle per definizione non fa che occultare un aspetto ineliminabile della realtà umana” (fa l’esempio di Srebrenica, dove la forza di pace dell’Onu, nel 1995, accettò di fatto il massacro di civili inermi quando avrebbe potuto evitarlo facendo il giusto uso della forza-violenza. Fa anche l’esempio, a dire il vero un po’ ridicolo, dei terremotati dell’Aquila, che a suo giudizio avrebbero dovuto prendere a fischi e sassate il premier Berlusconi che aveva usato la loro città come “cornice massmediatica per la sua autopromozione”).
Muraro non nega alla predicazione antiviolenza ben fondati argomenti morali. Ma il tempo (quel tempo) è scaduto, perché a mancarle oggi è “un punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l’arroganza dei potenti. Anticamente il punto di leva era la parola divina; modernamente è stato l’ideale del progresso. Che oggi è morto, al pari e forse più di Dio. Oggi, a causa della competizione globale, esasperata dalla crisi in corso, l’idea che sia possibile stare meglio tutti non agisce più; prevale quella che il meglio sia per alcuni a spese di altri”. E’ per questo che si impone “di riaprire il discorso sull’uso della forza. C’è una violenza nelle cose e fra i viventi che prelude a un ritorno della legge del più forte: dobbiamo pensarci”. Lei ci ha pensato ed è giunta alla conclusione che, a differenza di persone e gruppi che predicano e praticano la non violenza, “a chi detiene il potere quale che sia, io non mi presento dichiarando che ho rinunciato all’uso della forza fino alla violenza se necessario”.
La novità, nella presa di posizione di Luisa Muraro (ne parlerà a Roma il 12 giugno, al Festival delle Letterature) è l’idea “che ci sia un rapporto diretto tra la questione della violenza, da una parte, e la morte della responsabilità politica, dall’altra” (un’intuizione da maneggiare con cura, per motivi evidenti, ma la filosofa ha scelto di non ricorrere a eufemismi). Guai a illudersi che la violenza sia un mezzo, piuttosto, “vedere nella violenza il manifestarsi di una potenza che gli umani non governano, per lo più cieca e distruttiva, che talvolta però, a sprazzi, prende senso e s’impone in chi ha il senso della giustizia, diventando violenza giusta, questa è una veduta più profonda”. Le donne, conclude Muraro, “sono in posizione per sapere tutta la parte di frode che c’è nel racconto moderno del contratto sociale e nel principio del monopolio statale della violenza”, per l’essere “dentro-fuori dal contratto sociale e per la frequentazione della violenza che le colpisce a causa del fatto che sono di sesso femminile”. Le donne possono quindi ragionare di violenza senza tabù: “Dell’agire efficace bisogna dire che esso comporta a volte una certa violenza: quanta, esattamente? Non lo so… La formula che ho trovato dice: quanto basta per combattere senza odiare, quanto serve per disfare senza distruggere”.
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