Accadde ad Alvignano a gennaio del 1950
PADRE E FIGLIO ASSOLTI IN APPELLO DOPO AVERE SCONTATO UNDICI ANNI DI CARCERE –ANNULLATA LA CONDANNA ALL’ERGASTOLO
Erano accusati di aver sterminato una famiglia di 4 persone per motivi di interesse
Padre e figlio assolti in appello a Napoli dopo avere scontato undici anni di carcere. Viva impressione ha suscitato negli ambienti forensi la sentenza dell'Assise di Appello che ha assolto, sia pure con formula dubitativa due contadini (padre e figlio) di Alvignano in provincia di Caserta, Antonio e Giuseppe Visca, già condannati, il primo all'ergastolo e l'altro a 30 anni e arrestati agli inizi del gennaio 1950: ciò significa - in base alla nuova decisione dei giudici di secondo grado - che entrambi hanno scontato ben 11 anni di carcere pur essendo -secondo il giudicato, innocenti.
L'atroce delitto di cui erano imputati, accadde il 1° gennaio del 1950 a “Selvapiana”, una borgata solitaria di Alvignano. In un bosco vennero trovati orrendamente seviziati i cadaveri di una intera famiglia di contadini che furono identificati per Concetta e Maria Carmela Paolino e di due bambini, Ferdinando e Giuseppina, figli di Maria Carmela.
Le indagini portarono alla immediata incriminazione dei Visca in base ad una logica causale e a numerose impressionanti prove. Infatti le sorelle Paolino avevano ceduto al Visca un loro terreno, riservandosi però l'usufrutto, che avrebbe dovuto essere pagato ad esse e - in caso di morte per almeno due decenni - ai figlioli di Maria Carmela.
Era dunque evidente - ragionarono gli indagatori - che i Visca, con il loro massacro, avessero voluto liberarsi dell'obbligo di sborsare per decenni e decenni la somma pattuita. Le prove, poi, furono numerose e gravissime. In casa dei Visca venne trovata una baionetta fatto questo di notevole importanza considerando che, come dissero i periti, numerose ferite erano state causate dall’uso di un'arma bianca. Venne pure trovato un moschetto militare che, secondo gli esperti, era stato usato da poco.
Ed inoltre i bossoli dei proiettili repertati sul prato del bosco avevano il calibro coincidente con quello del “91”( il famoso fucile dei soldati italiani della prima grande Guerra ). Ma altre inconfutabili prove si scoprirono per il rinvenimento di alcune camicie inzuppate di sangue. L'esame ematologico accertò che il “gruppo” era lo stesso delle vittime.
Tuttavia, secondo i difensori, sarebbe occorso molto meno per convincere la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, ove fu discusso il primo processo, a dare l'ergastolo ad Antonio Visca. II figlio. Giuseppe, invece, in base alle “attenuanti generiche” ebbe solamente trenta anni.
Bisogna poi aggiungere che Antonio Visca confessò il suo delitto, di cui accusò anche la moglie, durante la fase istruttoria. Ma dopo undici anni, nel processo d'appello, la situazione e apparve completamente mutata. L’accusa alla moglie fu ritrattata già durante il dibattito alle Assise di S. Maria Capua Vetere e i nuovi periti balistici demolirono quanto dissero i primi circa i calibri del proiettili. Un giudice durante l'istruttoria compi una terribile prova ordinando “che fosse introdotta nelle ferite da punta e taglio riscontrate sui quattro cadaveri la baionetta trovata in casa del Visca, esperimento che riuscì alla perfezione.
Ma i periti medici del secondo processo invece annullarono quell'esperimento provando che non aveva nessun valore per la conferma dell’accusa. La sentenza che assolse i due imputati in sede di Appello è stata emanata dopo tre ore al camera di consiglio. Il Pubblico Ministero che aveva chiesto la condanna all’ergastolo del Visca padre e l'assoluzione “per insufficienza” del figlio,. presentò ricorso per Cassazione. La Suprema Corte confermò il verdetto di secondo grado.
Accadde il 14 luglio del 1950
LA STRAGE DI UN MARITO TRADITO
Un carabiniere di Cancello Arnone uccise la moglie, la suocera e poi si suicidò
Una terrificante tragedia della gelosia è avvenuta, questa sera, a Barra, piccolo borgo sulle pendici del Vesuvio Ne è stato protagonista principale il carabiniere Raffaele Ambrosanio, di 37 anni, addetto alla stazione di Cancello Arnone e dimorante a Barra con la moglie, la 27enne Luisa Di Gaeta, e con la suocera. Rosa Gianniniello, di 65 anni. Essi vivevano in condizioni tutt'altro che floride in una sola cameretta alla periferia del paese, e precisamente nel palazzo segnato col numero 20 di via Ciccarelli.
Evidentemente la moglie del carabiniere per necessità o per altri motivi, pare non sia stata fedele al marito, costretto spesso a rimanere lontano dalla famiglia per motivi di servizio. Avendo avuto il militare, forse oggi stesso, la prova fondata del tradimento, ha deciso di compiere una feroce vendetta. Infatti, poco dopo le 20 una serie di detonazioni e strazianti grida di dolore hanno turbato l'abituale quiete del caseggiato. Dopo i primi momenti di perplessità sono accorsi verso l'abitazione del carabiniere alcuni vicini, i quali si sono trovati di fronte a un impressionante spettacolo.
Nella piccola camera, dove si notava molto disordine, giacevano in un lago di sangue tre cadaveri, e cioè quelli dei componenti la famiglia Ambrosanio, colpiti tutti da proiettili d'arma da fuoco. La mano rattrappita del carabiniere stringeva ancora la pistola omicida. Si ritiene, almeno dalla prima ricostruzione del dramma che il militare, dopo avere rimproverato alla moglie la deplorevole condotta tenuta, abbia sparato addosso alla disgraziata, facendo fuoco successivamente sulla suocera, che era intervenuta per proteggere la figlia con il proprio corpo. Viste cadere le due donne, il carabiniere con la stessa arma si è ucciso abbattendosi accanto ai cadaveri delle sciagurate. Sul posto, oltre alla polizia e ai carabinieri del luogo, si è recato il sostituto Procuratore Generale, dott. Luigi Capaldo, per le constatazioni di legge.
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