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martedì 23 ottobre 2012


Diffamazione, 

la vecchia legge 
meglio della riforma,

Il testo nato per eliminare la punizione con il carcere si è trasformato in uno strumento per liquidare il giornalismo più incisivo e controllare la Rete

di Roberto Natale
l’Unità 23.10.12

Se governo e Parlamento proprio vogliono, ricominciamo a protestare senza esitazioni. L’autonomia del giornalismo e il diritto dei cittadini ad una informazione corretta sono per noi valori fondamentali in ogni stagione politica, indipendentemente dal nome dell’inquilino di Palazzo Chigi.

E allora oggi, dalle 17,30 alle 19, saremo di nuovo al Pantheon come al tempo della battaglia (vinta) contro il ddl intercettazioni in contemporanea con l’arrivo in aula del disegno di legge sulla riforma della diffamazione a mezzo stampa. Un presidio, per ora, contro quella che si sta configurando come una nuova norma-bavaglio.

È impressionante il modo in cui, sull’iniziale (e condivisibile) proposito nato dal «caso Sallusti» di eliminare il carcere per i giornalisti, si è innestata una serie di proposte vendicative e rancorose, come se si volesse cogliere l’occasione per liquidare il giornalismo più incisivo e far pagare all’informazione i conti del diffuso clima «anti-casta».

La spia più evidente e pericolosa è l’abnorme innalzamento delle sanzioni in denaro: 100mila euro (questo il nuovo massimo) sono una cifra già pesante per un grande giornale, ma sarebbero una condanna a morte per tante voci medie e piccole, che dovrebbero chiudere, e per i molti precari e freelance che una somma del genere ci mettono qualche anno a guadagnarla. Inevitabile sarebbe l’intervento diretto e invasivo dell’editore sui contenuti del giornale: direttore e capocronista non potrebbero sottrarsi ad un attentissimo vaglio preliminare degli articoli «pericolosi», con l’effetto di accantonare temi suscettibili di irritare i potenti (in politica, economia o finanza).

Quanto alla rettifica, è giusto renderne più stringente l’obbligo: troppo spesso noi giornalisti abbiamo disatteso un basilare dovere professionale, nascondendo a pagina 40 la correzione di errori gridati a pagina 1. Ma se la rettifica viene fatta presto e bene, deve servire a fermare l’azione penale; tranne che nei casi di diffamazione grave e ripetuta, nei quali è giusto che si arrivi alla sospensione dall’attività professionale, e persino alla radiazione dall’Albo (non stiamo certo chiedendo l’impunità per noi giornalisti). Ma che questa legge voglia tenere l’informazione sotto scacco lo dimostra l’assenza di meccanismi che scoraggino le richieste di risarcimento danni, in sede civile, «sparate» senza limiti (fin sopra il milione di euro) per intimidire giornalisti ed editori senza che coloro che si dicono diffamati paghino pegno se la diffamazione non c’è. Di questo fastidio per l’informazione fa le spese anche la rete: i testi in discussione non distinguono tra i doveri del giornalismo professionale e le regole alle quali devono attenersi i blogger, che è sbagliato assimilare a strutture redazionali organizzate.

È duro dirlo: ma se queste rimarranno le caratteristiche del provvedimento, è meglio che il Senato lasci in vigore la brutta legge esistente, carcere incluso. Però con l’uscita di Berlusconi non è stata archiviata l’alleanza tra i giornalisti e i tanti cittadini non più disposti a farsi sequestrare il diritto di sapere.

Se uguale è il rischio-bavaglio, uguale sarà la risposta.






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