Fiction su Tortora: cancelliamo
subito la legge sui pentiti
Molti di voi, immagino, hanno visto il film di Ricky Tognazzi, trasmesso dalla tv pubblica oggi e domenica e intitolato “Il caso Tortora. Dove eravamo rimasti?”.
Per quelli che non l’hanno visto, riassumo: racconta la vicenda di Enzo Tortora, giornalista e conduttore televisivo tra i più famosi negli anni Sessanta e Settanta. Al culmine della carriera, nel 1983, Tortora fu svegliato di notte dai carabinieri, ammanettato, portato in caserma, interrogato per molte ore e poi, stanchissimo e sconvolto, sempre con le mani incatenate, esposto ai giornalisti e ai fotografi e al pubblico ludibrio, accusato di essere uno spacciatore di droga e un camorrista. Si fece sette mesi filati in cella, poi qualche anno agli arresti domiciliari, si beccò una condanna a 10 anni di carcere in primo grado, infine fu pienamente assolto in appello e in Cassazione e poté per qualche mese tornare al suo lavoro. Solo per qualche mese, perché nel giugno del 1988 morì a poco più di sessant’anni stroncato da un cancro che si era preso nei giorni infernali della prigione.
Tortora fu vittima di un clamoroso errore giudiziario e oggi questo fatto è accertato senza l’ombra del dubbio. Perché questo errore? Fu accusato in modo circostanziato da cinque o sei pentiti della camorra, i quali – curiosamente – fornirono uno dopo l’altro versioni che si incastravano perfettamente con la versione – resa pubblica dai giornali – del pentito precedente. I giudici credettero ai pentiti, e anche a qualche mitomane in cerca di pubblicità, senza mai riscontrare. Tutto partiva da una agendina trovata in casa di un capo-clan napoletano al momento dell’arresto. Nell’agendina, dissero gli accusatori, c’era il nome di Tortora e il suo numero di telefono. In realtà, si accertò quasi un anno dopo, l’agendina era della fidanzata del boss e non del boss, e non c’era scritto Tòrtora ma Tortòna, e il numero di telefono non coincideva: una bufala pazzesca, ma i giudici di queste piccole contraddizioni non si erano occupati. Le testimonianze dei pentiti furono smontate una ad una, in appello, e negli anni successivi i pentiti confessarono di essersi messi d’accordo per incastrare il presentatore.
Enzo Tortora ebbe un comportamento eroico, durante quei terribili tre anni. Si rifiutò di chiedere la libertà provvisoria, fu eletto deputato europeo nel partito radicale ma rinunciò all’immunità parlamentare, sfidò i giudici con tutte le sue forze, fino a pronunciare, pochi momenti prima della sentenza, una frase arrogante ma splendida, rimasta celebre: “Io sono innocente, spero lo siate anche voi…”.
Un atteggiamento assai meno eroico, anzi, un atteggiamento decisamente vile, lo ebbe la quasi totalità della stampa italiana – fecero eccezione Montanelli, Biagi e pochissimi altri – che si schierò a corpo morto coi giudici napoletani, sostenne con grande spiegamento di mezzi la loro azione, sviluppò una obbrobriosa campagna di denigrazione e di annientamento nei confronti di Enzo Tortora, trascinando la grandissima parte dell’opinione pubblica su posizioni colpevoliste e forcaiole. E’ da allora, forse, che il giornalismo giudiziario italiano è deceduto, seppellito dalla vergogna, ed è diventato ufficialmente un ufficio stampa delle Procure.
Perché vi racconto questa storia? Solo per rendere omaggio a un bel lavoro della televisione di Stato? No, per ripetere una cosa che già varie volte ho scritto su questo sito, ma che credo vada ripetuta perché è molto importante: la legge sui pentiti, che pure ha avuto una sua funzione positiva alla fine degli anni Settanta, oggi è un vecchio mostro che calpesta il diritto e che ha travolto la giustizia italiana, la sua autorevolezza e la sua struttura etica. La legge sui pentiti consente vendette, manovre politiche, depistaggi, carriere, teoremi falsi, ineguaglianza e ingiustizia nelle pene.
Un paese veramente libero non può convivere con quella legge autoritaria, discrezionale e illiberale. La prima Repubblica è morta e ora è morta anche la seconda. Vediamo se si riesce a inaugurare la terza Repubblica rendendo onore a Enzo Tortora e cancellando definitivamente quella legge medievale.
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