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martedì 4 dicembre 2012

Murati vivi, ma con la voglia di parlare con il mondo

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Nonostante nel nostro Paese siano tutti convinti che l'ergastolo non venga dato ormai più a nessuno, e che i pochi ergastolani presenti nelle nostre carceri comunque siano destinati a uscire abbastanza in fretta, le cose non stanno esattamente così.

Ci sono centinaia di ergastolani destinati a morire in galera, nel convincimento generale che in Italia siamo molto civili perché non abbiamo più la pena di morte. L'ergastolo ostativo significa stare in carcere per tutta la vita, è una pena che viene data a chi ha fatto parte di un'associazione a delinquere e ha partecipato a vario titolo a un omicidio.


"Ostativo" vuol dire che viene negato ogni beneficio penitenziario, permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale, a meno che non si collabori con la giustizia per l'arresto di altre persone. Ma non collaborare non significa automaticamente essere ancora mafiosi, avere ancora contatti con la criminalità organizzata: spesso, significa semplicemente non voler mettere a rischio i propri cari per guadagnarsi un po' di libertà.

Per tutti quelli che comunque vogliono aprire un dialogo con chi vive praticamente murato vivo, c'è uno spazio nuovo nel sito www.ristretti.org, curato da Carmelo Musumeci, ergastolano e scrittore, ora detenuto nella Casa di reclusione di Padova, a cui ci si può rivolgere con domande, anche le più "cattive", alle quali risponderanno di volta in volta ergastolani da diverse carceri. 

Per inaugurare questa rubrica Suor Marta, 71 anni, suora di clausura con una gran voglia di capire di più di come vive un essere umano condannato alla galera a vita, dal Monastero di Clausura di Santa Chiara Lagrimone sull'Appennino tosco-emiliano ha mandato le prime domande.

La prima domanda di Suor Marta: Come vivono i vostri parenti il fatto che siete delinquenti?

Risponde Giuseppe, ergastolano:
Non ho molti parenti e comunque non so se alcuni di loro mi hanno considerato delinquente (so che di fatto lo sono stato!), ma visto che il contesto familiare in cui sono nato e cresciuto è sempre stato "infettato" dall'illegalità (anche se non tutti i miei parenti hanno avuto a che fare con l'illecito, in quanto molti sono onesti lavoratori) è probabile che alcuni di loro non vivano bene il fatto di essere parenti di un delinquente, tanto è vero che non ho contatto con tutti. Ma i restanti miei parenti oggi mi considerano una persona diversa, migliore rispetto a quella che ero perché vedono, sentono, mi leggono e hanno la consapevolezza del mio cambiamento e orgogliosi me lo fanno notare. Sono stato in parte una "vittima" dell'origine ambientale del male e a loro volta, prima di me, lo sono stati alcuni miei parenti "vittime" della subcultura, della fame, dei disvalori e del contesto sociale che li ha circondati.

La seconda domanda di Suor Marta: Ho conosciuto un ex carcerato, che ha trovato rifugio per alcuni mesi a casa nostra, perché i suoi non lo volevano neppure in zona (a quei tempi non c'erano le strutture che soccorrono in tali emergenze). Situazioni simili si verificano ancora. Cosa scatta nell'animo umano? Se i parenti sono i primi a rifiutare un inserimento famigliare e sociale, quale meraviglia possiamo provare se la società, in genere, si irrigidisce su ciò?

Risponde Biagio, ergastolano:
Per il ragazzo che non era stato accettato in casa dai suoi genitori ribadisco che bisogna sempre vedere come si è stati educati e come ci si comporta con i propri famigliari. E poi vedere dove sta il torto o la ragione. A volte siamo noi a essere delinquenti, ma a volte è colpa anche della famiglia che non è mai stata sufficientemente presente. Inoltre si può commettere reati anche per bisogno. Ti posso dire che nessuno è nato per essere cattivo, però se vivi al sud, c'è più probabilità che lo diventi. Il meridione è una specie di giungla dove ti devi difendere dalle iene che ti stanno attorno. Poi ci sono i leoni che stanno in alto a vedersi la guerra che ci facciamo fra di noi, così dopo gli viene molto più facile venirci a "mangiare". Ecco perché capita che certi famigliari ti abbandonino e ti tengano lontano, perché sono ricattati dai leoni seduti in poltrona. Spero che conosci bene che cosa è la vita nel sud. Ti dico che riguardo alla famiglia ho 42 anni, sono padre di quattro figli di cui tre sposati e sono nonno di cinque nipotini, immaginati un po' avevo quattordici anni quando mi sono sposato e a quindici ero già papà.

Risponde Giuseppe, ergastolano:
Quando i parenti rifiutano un loro congiunto che ha avuto problemi con la legge, a mio avviso questi parenti, che dovrebbero essere i primi ad accoglierlo con amore in un inserimento famigliare e sociale, sono condizionati dal pregiudizio altrui, per cui scatta in loro un meccanismo di difesa verso la loro immagine, perché tengono più all'apparire che all'essere, e in questi casi l'essere è: essere genitore di, essere parente di, dunque portare un'onta a danno del loro apparire, sconveniente!
La persona rifiutata viene distrutta psicologicamente, per cui sarebbe davvero molto importante liberarsi dai condizionamenti esterni ed accoglierla a braccia aperte con amore per amore!

La terza domanda di Suor Marta: Io sono convinta (e forse il Vangelo è dalla mia parte) che come il perdono si deve dare (e dopo si sta bene) così si deve ricevere. È parte dell'essere profondo dell'uomo il perdono ricevuto, non deve umiliarci perché "riaggiusta" qualcosa che si era rotto. Faccio un esempio! Quanto voi eravate uomini liberi e vi capitava di avere uno screzio con vostra moglie, se non vi sentivate perdonati stavate male, se lei vi veniva incontro col perdono voi vi sentivate felici. Non è vero anche su larga scala?

Risponde Giuseppe, ergastolano:
Avevo appena 16 anni quando ho sparato ad un giovane uomo uccidendolo. Non avevo la benché minima consapevolezza della gravità del mio gesto. Ho puntato la pistola e ho premuto il grilletto più volte. Tutto semplice. Più semplice e facile di quanto si credesse. Soltanto col passare degli anni tutto è diventato più difficile e complicato: ho dovuto fare i conti con la mia coscienza! Vivere con il senso di colpa, non poter più tornare indietro, non poter più rimediare. Arbitrariamente mi sono preso il diritto di togliere la vita ad un uomo, il diritto di togliergli il diritto di vivere la vita che Dio gli ha donato. Ho creduto che nessun perdono mi avrebbe salvato, ma oggi la mia fede in Dio, l'ammissione del mio peccato ad un sacerdote mi ha ridato la pace interiore. Non lo so cosa proverei ricevendo il perdono dai suoi famigliari, so che con Dio cercavo di giustificarmi, con i famigliari mi troverei dinnanzi al dolore che gli ho causato e non avrei giustificazione alcuna e probabilmente il loro perdono paradossalmente forse mi farebbe stare male seppur avessi la piena consapevolezza che mi hanno perdonato.

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