Incontro
studio organizzato dal Consiglio dell’Ordine
MERCOLEDI’
AULA D’ANTONA UNIVERSITA’ PALAZZO MELZI
LA MOTIVAZIONE DEI PROVVEDIMENTI CAUTELARI
Parteciperanno magistrati, avvocati
e
professori universitari
Lo scrittore e storico Giuseppe Garofalo |
Santa Maria Capua Vetere ( di Ferdinando Terlizzi ) Organizzato dal consiglio dell'ordine di
avvocati di Santa Maria Capua Vetere e
dalla Camera Penale, con la
collaborazione della seconda Università degli Studi di Napoli, Dipartimento di Giurisprudenza, un interessante incontro-studio sulla “motivazione
dei provvedimenti cautelari e la presunzione di adeguatezza”; mercoledì, 3 luglio alle ore 15.30, presso l’Università
degli Studi, aula d'Antona, del Palazzo Melzi.
Dopo il saluto del Dott. Giancarlo de Donato, presidente del tribunale di Santa Maria Capua
Vetere, del procuratore della Repubblica
Dott. Corrado Lembo, del Prof. Giampaolo
Califano, direttore del Dipartimento
di giurisprudenza della seconda università di Napoli e dell'avvocato Angelo Raucci, presidente della Camera Penale, introdurrà e modererà l'avvocato Alessandro Diana, presidente del consiglio dell'ordine avvocati
di Santa Maria Capua Vetere.
Avrà luogo poi una tavola rotonda alla quale prenderanno
parte l'avvocato Giuliano Dominici, responsabile dell'osservatorio sulla Corte di
Cassazione dell'Unione Camere Penali Italiane; il dottor Alessandro
d'Alessio, sostituto procuratore
della direzione distrettuale antimafia di Napoli; il Dott. Raffaele
Piccirillo, giudice delle indagini
preliminari del tribunale di Napoli;
la Dott.ssa Valeria Bove, giudice della sezione Riesame presso il
Tribunale di Napoli e l'avvocato Giuseppe
Garofalo, presidente emerito della
Camera Penale, scrittore e storico.
Il dibattito è stato
organizzato alla stregua di una sentenza
della Corte Costituzionale, di recente
pubblicazione ( marzo 2013 ) che ha
ribaltato alcuni concetti basilari sulla motivazione dei provvedimenti
cautelari ( i vecchi ordini di cattura e le recenti ordinanze di custodia
cautelare in carcere) e che spesso
occupano ore di discussioni per i diversi orientamenti giurisprudenziali.
La sentenza prende spunto da
una istanza del Tribunale di Lecce
sezione riesame, che ha
sollevato, in riferimento agli articoli 3, 13 e 27, secondo comma, della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice
di procedura penale nella parte in cui, prescrivendo che “quando sussistono
gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle
condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. è applicata la misura cautelare della
custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che
non sussistono esigenze cautelari, non fa salva l’ipotesi in cui siano
acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti
che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”
La Corte era stata investita degli appelli presentati dal
pubblico ministero e dalla difesa avverso l’ordinanza del 6 dicembre 2012 con
la quale il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce aveva
disposto la sostituzione con gli arresti domiciliari della custodia cautelare
in carcere applicata all’imputato, già condannato con rito abbreviato per un
episodio di estorsione con l’aggravante dell’art. 7 del decreto-legge 13 maggio
1991, n. 152.
La
norma censurata costituirebbe irragionevole esercizio della discrezionalità del
legislatore, violando gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.:
verrebbe, infatti, sottratto al giudice il potere di adeguare la misura al caso
concreto, sicché, in violazione del principio di uguaglianza, la norma si
risolverebbe nell’«appiattire» situazioni oggettivamente e soggettivamente
diverse, con una uguale risposta cautelare. Inoltre, dalla lettura combinata
degli artt. 13 e 27 Cost. emergerebbe l’esigenza di circoscrivere allo
strettamente necessario le misure limitative della libertà personale,
attribuendo alla custodia in carcere il connotato del rimedio estremo, laddove
la norma censurata stabilirebbe un automatismo applicativo tale da rendere
inoperanti i criteri di proporzionalità e di adeguatezza.
Posto che l’art. 7 del
decreto-legge n. 152 del 1991 prevede due articolazioni della circostanza
aggravante, quella del “metodo mafioso” e quella dell’“agevolazione mafiosa”,
per la prima verrebbe in evidenza il carattere di preponderante autonomia
rispetto al reato associativo mafioso: il ricorso al metodo mafioso potrebbe
essere addebitato tanto come generale connotato di struttura del reato
associativo e/o dei suoi delitti-scopo, quanto come concreta modalità di
esecuzione di taluno dei delitti previsti dalla legge penale che nulla
condividono con il fenomeno associativo mafioso; soggetti attivi dei delitti
aggravati dal metodo mafioso potrebbero essere tanto gli intranei, quanto gli
estranei al sodalizio mafioso.
L’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., conclude
il rimettente, nell’imporre necessariamente l’applicazione della custodia
cautelare in carcere all’autore di un delitto commesso avvalendosi delle
condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen., impedirebbe al giudice di
valutare se nel caso concreto risultino elementi specifici che facciano
ritenere altrettanto idonee misure meno afflittive. La norma censurata sarebbe
quindi in contrasto con l’art. 3 Cost., «sia per l’irragionevole parificazione
di situazioni tra loro diverse (all’interno delle ipotesi per le quali la
presunzione assoluta opera) che per l’altrettanto irragionevole disparità di
trattamento tra soggetti che esprimano il medesimo grado di pericolosità
sociale»; con l’art. 13 Cost., «per la lesione dell’affermato principio del
minor sacrificio possibile al bene della libertà personale»; con l’art. 27,
secondo comma, Cost., «in quanto l’applicazione della custodia in carcere in
mancanza di una effettiva e concreta esigenza cautelare costituisce una
indebita anticipazione di una pena prima ancora di un giudiziale definitivo
accertamento della responsabilità penale».
. La presunzione di adeguatezza
della misura della custodia in carcere per delitti commessi al fine di
agevolare l’attività delle associazioni previste dall’art. 416-bis cod. pen.
comporterebbe, secondo le sezioni unite, «una parificazione tra chi a dette
associazioni abbia aderito e chi invece, senza appartenere ad esse, abbia
inteso agevolare le attività delle associazioni stesse» e tale parificazione
sarebbe ingiustificata, alla luce della giurisprudenza costituzionale che
ritiene legittima la presunzione in argomento solo in presenza di un legame
associativo connotato da specifiche caratteristiche, quali la forza
intimidatrice del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento e di
omertà che ne deriva. Siffatte caratteristiche non sarebbero riscontrabili in
una condotta delittuosa pur aggravata a norma dell’art. 7 del decreto-legge n.
152 del 1991, condotta grave e indice di pericolosità, ma non necessariamente e
in ogni caso maggiore di quella del partecipe ad un’associazione dedita al
traffico di sostanze stupefacenti, posto che «in relazione all’aggravante
contestata sotto il profilo dell’agevolazione delle attività delle associazioni
previste dall’art. 416 bis cod. pen. – situazione corrispondente alla concreta
fattispecie (…) – è escluso un vincolo o un legame con l’associazione».
In definitiva la CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, ha
dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 275, comma 3, secondo periodo, del codice di
procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23
febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di
contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori),
convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte
in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in
ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo
416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle
associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare
in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano
acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti
che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Su
questi argomenti si snoderà il dibattito organizzato dal Consiglio dell’Ordine.
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