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domenica 30 giugno 2013

Incontro studio organizzato dal Consiglio dell’Ordine 

MERCOLEDI’ AULA D’ANTONA UNIVERSITA’ PALAZZO MELZI

LA MOTIVAZIONE DEI  PROVVEDIMENTI CAUTELARI

Parteciperanno magistrati, avvocati 
e professori  universitari

Lo scrittore e storico Giuseppe Garofalo 


Santa Maria Capua Vetere ( di Ferdinando Terlizzi )  Organizzato dal consiglio dell'ordine di avvocati di Santa Maria Capua Vetere  e dalla Camera Penale,  con la collaborazione della seconda Università degli Studi di Napoli,  Dipartimento di Giurisprudenza,  un  interessante incontro-studio sulla “motivazione dei provvedimenti cautelari e la presunzione di adeguatezza”;  mercoledì,  3 luglio alle ore 15.30, presso l’Università degli Studi, aula d'Antona,  del Palazzo Melzi.
 Dopo il saluto del Dott. Giancarlo de Donato,  presidente del tribunale di Santa Maria Capua Vetere,  del procuratore della Repubblica Dott. Corrado Lembo,  del Prof. Giampaolo Califano,  direttore del Dipartimento di giurisprudenza della seconda università di Napoli e dell'avvocato Angelo Raucci,  presidente della Camera Penale,  introdurrà e modererà l'avvocato Alessandro Diana,  presidente del consiglio dell'ordine avvocati di Santa Maria Capua Vetere.
Avrà luogo poi  una tavola rotonda alla quale prenderanno parte l'avvocato Giuliano Dominici,  responsabile dell'osservatorio sulla Corte di Cassazione dell'Unione Camere Penali Italiane;  il dottor Alessandro d'Alessio,  sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia di Napoli;  il Dott. Raffaele Piccirillo,  giudice delle indagini preliminari del tribunale di Napoli;    la Dott.ssa Valeria Bove,  giudice della sezione Riesame presso il Tribunale di Napoli e l'avvocato Giuseppe Garofalo,  presidente emerito della Camera Penale, scrittore e storico.
Il dibattito è stato organizzato alla stregua di una  sentenza della Corte Costituzionale,   di recente pubblicazione  ( marzo 2013 ) che ha ribaltato alcuni concetti basilari sulla motivazione dei provvedimenti cautelari ( i vecchi ordini di cattura e le recenti ordinanze di custodia cautelare in carcere)   e che spesso occupano ore di discussioni per i diversi orientamenti giurisprudenziali. 
La sentenza prende spunto da una istanza del Tribunale di Lecce  sezione riesame,  che ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 13 e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale nella parte in cui, prescrivendo che “quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. è applicata la misura cautelare della custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”

La Corte era stata  investita degli appelli presentati dal pubblico ministero e dalla difesa avverso l’ordinanza del 6 dicembre 2012 con la quale il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce aveva disposto la sostituzione con gli arresti domiciliari della custodia cautelare in carcere applicata all’imputato, già condannato con rito abbreviato per un episodio di estorsione con l’aggravante dell’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152.   
  La norma censurata costituirebbe irragionevole esercizio della discrezionalità del legislatore, violando gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.: verrebbe, infatti, sottratto al giudice il potere di adeguare la misura al caso concreto, sicché, in violazione del principio di uguaglianza, la norma si risolverebbe nell’«appiattire» situazioni oggettivamente e soggettivamente diverse, con una uguale risposta cautelare. Inoltre, dalla lettura combinata degli artt. 13 e 27 Cost. emergerebbe l’esigenza di circoscrivere allo strettamente necessario le misure limitative della libertà personale, attribuendo alla custodia in carcere il connotato del rimedio estremo, laddove la norma censurata stabilirebbe un automatismo applicativo tale da rendere inoperanti i criteri di proporzionalità e di adeguatezza.
Posto che l’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991 prevede due articolazioni della circostanza aggravante, quella del “metodo mafioso” e quella dell’“agevolazione mafiosa”, per la prima verrebbe in evidenza il carattere di preponderante autonomia rispetto al reato associativo mafioso: il ricorso al metodo mafioso potrebbe essere addebitato tanto come generale connotato di struttura del reato associativo e/o dei suoi delitti-scopo, quanto come concreta modalità di esecuzione di taluno dei delitti previsti dalla legge penale che nulla condividono con il fenomeno associativo mafioso; soggetti attivi dei delitti aggravati dal metodo mafioso potrebbero essere tanto gli intranei, quanto gli estranei al sodalizio mafioso.
 L’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., conclude il rimettente, nell’imporre necessariamente l’applicazione della custodia cautelare in carcere all’autore di un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen., impedirebbe al giudice di valutare se nel caso concreto risultino elementi specifici che facciano ritenere altrettanto idonee misure meno afflittive. La norma censurata sarebbe quindi in contrasto con l’art. 3 Cost., «sia per l’irragionevole parificazione di situazioni tra loro diverse (all’interno delle ipotesi per le quali la presunzione assoluta opera) che per l’altrettanto irragionevole disparità di trattamento tra soggetti che esprimano il medesimo grado di pericolosità sociale»; con l’art. 13 Cost., «per la lesione dell’affermato principio del minor sacrificio possibile al bene della libertà personale»; con l’art. 27, secondo comma, Cost., «in quanto l’applicazione della custodia in carcere in mancanza di una effettiva e concreta esigenza cautelare costituisce una indebita anticipazione di una pena prima ancora di un giudiziale definitivo accertamento della responsabilità penale».


. La presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere per delitti commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. comporterebbe, secondo le sezioni unite, «una parificazione tra chi a dette associazioni abbia aderito e chi invece, senza appartenere ad esse, abbia inteso agevolare le attività delle associazioni stesse» e tale parificazione sarebbe ingiustificata, alla luce della giurisprudenza costituzionale che ritiene legittima la presunzione in argomento solo in presenza di un legame associativo connotato da specifiche caratteristiche, quali la forza intimidatrice del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. Siffatte caratteristiche non sarebbero riscontrabili in una condotta delittuosa pur aggravata a norma dell’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991, condotta grave e indice di pericolosità, ma non necessariamente e in ogni caso maggiore di quella del partecipe ad un’associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti, posto che «in relazione all’aggravante contestata sotto il profilo dell’agevolazione delle attività delle associazioni previste dall’art. 416 bis cod. pen. – situazione corrispondente alla concreta fattispecie (…) – è escluso un vincolo o un legame con l’associazione».

In definitiva la  CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, ha dichiarato  l’illegittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Su questi argomenti si snoderà il dibattito organizzato dal Consiglio dell’Ordine.



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