PASQUALE MANDATO AGENTE DI CUSTODIA, UCCISO DA FEROCI CRIMINALI
Un
omicidio teatrale. Questo è stato l'assassinio dell'Agente di Custodia,
Pasquale Mandato. La mattina del 5 marzo del 1983, addirittura tre auto per eseguire l'omicidio di un uomo inerme
fuori il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ucciso perché faceva il suo
dovere.
(La storia che segue è tratta dal libro "Al di là della
notte" - ed. Tullio Pironti di Raffaele Sardo a cura di Ferdinando
Terlizzi)
Come ogni mattina il maresciallo degli
agenti di custodia Pasquale Mandato era sceso puntuale dall’autobus che lo
aveva portato da Portici, dove abitava con la famiglia, fino a Santa Maria
Capua Vetere, in piazza San Francesco. C’era la fermata proprio lì, vicino al
vecchio carcere. Un salto al tabacchino per comprare un foglio di carta
protocollo e poi a prendere servizio per un’altra giornata di lavoro. Erano
appena passate le otto. Da casa era partito qualche ora prima. Si alzava sempre
di buon’ora per arrivare puntuale sul posto di lavoro. Da Portici a Santa Maria
Capua Vetere, doveva salire su un paio di mezzi pubblici per arrivare al
carcere. C’era abituato e non gli pesava più di tanto. Piuttosto erano le
preoccupazioni per i figli che lo tenevano in apprensione. Il primo, Francesco,
aveva venticinque anni e studiava ancora all’Università. Il secondo, Attilio,
venti anni, era anche lui studente e disoccupato. Come pure la terza figlia,
Maria Grazia, quindici anni. Ogni mattina si fermava vicino all’edicola per
consultare «Il bollettino dei concorsi», per vedere se c’era un bando che
potesse riguardare il primogenito, Francesco. Era fidanzato ed era già pronto
per mettere su famiglia. Ma senza lavoro era impossibile fare un passo del
genere. Quella mattina, uscito dal tabacchino, Pasquale Mandato doveva
percorrere solo pochi metri per arrivare al carcere, ma non riuscì a farli
perché dall’angolo di corso Umberto, dove si incrocia con piazza San Francesco,
si avvicinarono due Renault e un’altra auto. Gli arrivarono quasi addosso.
Si abbassarono i finestrini ed uscirono
fuori pistole e fucili a canne mozze che cominciarono a sparargli contro. In
pochi attimi il corpo di Pasquale Mandato fu raggiunto da numerosi colpi di
arma da fuoco. Lo colpirono al torace, al collo e alla testa. Pasquale cadde a
terra in una pozza di sangue. Era quasi morto. Un killer scese da una delle
autovetture per sparargli il colpo di grazia. Uno sfregio ulteriore al corpo di
un servitore dello Stato. Una sfida in piena regola fatta con rozza teatralità.
Una diecina di killer per ammazzare una persona inerme era una cosa mai vista,
se non negli attentati fatti dai gruppi terroristici. Moriva così, sabato 5
marzo 1983, Pasquale Mandato, cinquantatré anni, sposato e con tre figli.
Ucciso davanti al carcere dove lavorava. Era l’ennesima vittima che il corpo
degli agenti di custodia pagava come tributo all’intransigenza dimostrata nei
confronti della criminalità organizzata.
Pasquale Mandato venne soccorso da
alcuni agenti di custodia che si trovavano in un bar vicino. Lo trasportarono
inutilmente nell’ospedale Melorio di Santa Maria Capua Vetere perché era già
morto. L’autopsia, eseguita dal prof. Michele Pilleri nell’obitorio del
nosocomio, riscontrò sul corpo dieci ferite da arma da fuoco. «Il giorno
prima», racconta la sorella Rosina, «andammo con Pasquale e la moglie, Anna, da
Portici a Pietrelcina, il nostro paese di origine, dove c’era ancora viva mia
mamma e una mia sorella, Teodorina. Andammo a prendere provviste per portarle a
casa nostra a Portici. Notai che già quel giorno una macchina ci seguì e ci
sorpassò in più di una occasione. Non collegammo, però, quella macchina a
qualcuno che volesse uccidere Pasquale.
Nessuno ci fece caso, anche se mio
fratello aveva già ricevuto minacce. Mio fratello lavorava all’ufficio
matricola del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Era il vicecomandante delle
guardie. Ed era uno molto ligio al dovere. Queste cose le abbiamo messe assieme
dopo l’omicidio di mio fratello. Quel giorno, evidentemente, non vollero
sparare perché in auto c’ero anch’io e mia cognata». Il maresciallo Pasquale
Mandato, nativo di Pietrelcina (Benevento), il paese dov’è nato Padre Pio, era
sposato con Anna Gelosi (avevano un anno di differenza, Pasquale cinquantatré
anni e lei cinquantadue). Si erano conosciuti a Portici, dove Pasquale aveva
frequentato la scuola degli agenti di custodia dopo un primo periodo a Cairo
Montenotte.
A Santa Maria Capua Vetere il
maresciallo Mandato era giunto nel 1976, proveniente da Taranto. Aveva già
maturato una lunga esperienza in varie carceri italiane. Era stato a Parma,
dove nacque il primo figlio, Francesco. Poi il trasferimento a Napoli, nel
carcere di Poggioreale. Successivamente nell’isola di Pianosa, in Toscana. A
Pozzuoli, nel carcere femminile e poi a Taranto. Nella città pugliese, insieme
ad altri due suoi colleghi, aveva domato un incendio appiccato da un detenuto
nella propria cella, evitando il propagarsi del fuoco all’interno del
padiglione del carcere. E per questo il 19 aprile del 1975 aveva ricevuto una Lode
Ministeriale. Il 2 giugno 1980, invece, gli era stato conferita l’onorificenza
di Cavaliere al Merito della Repubblica italiana dall’allora presidente Sandro
Pertini. Da alcuni anni era il responsabile dell’ufficio matricola a Santa
Maria Capua Vetere e rivestiva il grado di maresciallo e vicecomandante delle
guardie carcerarie.
«La morte di mio padre ha distrutto
tutta la famiglia», spiega il primo figlio, Francesco, «mia mamma è rimasta
scioccata. I miei fratelli, più piccoli di me, hanno sofferto tantissimo. Io
forse sono stato quello che ha retto di più alla tragedia che ha investito la
nostra famiglia perché all’epoca avevo venticinque anni. Quella mattina me la
ricordo bene. Stavo andando all’università. Prima però passai dal meccanico per
prendere l’auto della mia fidanzata, la mia futura moglie. Mi telefonarono a
casa dei miei suoceri per avvisarmi. E poi arrivarono alcuni colleghi di papà.
La sera prima parlai la mia ultima volta con papà. Dovevo presentare una
domanda per partecipare ad un concorso pubblico. Avrebbe scritto lui stesso la
domanda per mio conto mentre era al lavoro. Infatti, prima di entrare nel
carcere, quella mattina passò dal tabacchino per comprare un foglio di carta
protocollo.
Tre auto lo circondarono per ammazzarlo.
Uno spiegamento di forze inutile, nei confronti di un uomo disarmato e mite
come mio padre. Evidentemente quello era un modo per mostrare i muscoli da
parte dei camorristi nei confronti dello Stato. Mi hanno raccontato che uno dei
killer scese dall’auto e sparò il colpo di grazia a mio padre. Un’ulteriore e
inutile violenza. A dare il colpo di grazia si ritenne fosse stato Michelangelo
D’Agostino, originario di Cesa, poi divenuto collaboratore di giustizia
[D’Agostino fu anche uno degli accusatori di Enzo Tortora]. Papà non mi aveva
mai detto di aver ricevuto minacce. Ma dopo la sua morte trovammo nella tasca
di una giacca un biglietto dove c’era scritto che era stato minacciato.
Evidentemente voleva tenere la famiglia lontano dalle sue preoccupazioni».
Proprio il pentito D’Agostino all’inizio
di luglio del 2008 è ritornato nelle cronache dei giornali perché omicida del
sessantaquattrenne Mario Pagliari, ex pescatore e titolare dello stabilimento
balneare Apollo di Pescara. Quell’episodio ha fatto di nuovo scattare nella
famiglia Mandato sentimenti di angoscia, riportando tutti con la mente a quel 5
marzo del 1983. «Pensavamo fosse in carcere, come tutti gli assassini», dice
ancora Francesco Mandato. «Invece abbiamo sentito in TV la notizia che aveva
ucciso un imprenditore e poi si era dato alla fuga. Sapere libero l’assassino
di nostro padre ha fatto ritornare in tutti noi figli, familiari, il ricordo di
quei momenti. E sono momenti brutti che non auguro a nessuno. La nostra è stata
un’esperienza dolorosa e devastante. Così mio fratello Attilio ha scritto alla
presidenza della Repubblica contro quello che ritenevamo un’offesa ai familiari
delle sedici vittime che ha fatto questa persona. Questo signore non si è mai
fatto vivo con noi, né ha chiesto mai perdono per quello che ha fatto. Attilio
ha preso carta e penna e ha scritto a Giorgio Napolitano, perché qualcosa non
funziona nella giustizia: “Presidente”, è scritto in quella lettera, “non sa
quanto sangue freddo si deve avere apprendendo queste notizie. Invece, io e i
miei fratelli avremmo solo bisogno di vivere in pace. Io sono cattolico e sono
contro la pena di morte, ma un minimo di pena ci deve essere per tutti.
Altrimenti questa non si può chiamare giustizia. Mio padre lo porto sempre con
me dal giorno in cui è stato ucciso. Porto la sua foto su un anello che non ho
mai tolto, perché il dolore non è mai andato via”».
La camera ardente fu allestita negli
uffici della direzione del carcere. Attorno alla moglie di Pasquale Mandato,
Anna, ed ai figli Attilio, Franco e Maria Grazia si strinsero i compagni di
lavoro del maresciallo. Al rito funebre, officiato dal vescovo di Capua,
monsignor Diligenza, nella parrocchia di San Pietro, a Santa Maria Capua
Vetere, parteciparono oltre diecimila persone. Tra cui anche il sottosegretario
alla giustizia, on. Giuseppe Gargani, il comandante della divisione “Ogaden’’
dei carabinieri, Siracusano, e numerose altre autorità politiche e militari
della regione. La salma, poco prima di entrare nella chiesa, ricevette gli
onori militari di una compagnia di allievi della scuola guardie di custodia di
Portici. La vedova del maresciallo, Anna, seguì compostamente il rito funebre e
nel salutare le autorità, disse: «Fate in modo che quest’uomo, vittima del
dovere, sia l’ultimo caduto nella lotta contro la delinquenza». La salma fu
tumulata nel cimitero di Portici in una nicchia all’interno di una congrega. Il
consiglio comunale di Santa Maria Capua Vetere il giorno dopo i funerali si
riunì in seduta straordinaria per discutere il problema della violenza
organizzata, mentre in tutto il Casertano mercoledì 9 marzo 1983 si svolse uno
sciopero generale contro la camorra indetto dai sindacati Cgil, Cisl e Uil.
Alla famiglia Mandato, tra i tanti messaggi, giunse anche quello del presidente
del Senato, Tommaso Morlino: «Con grande sdegno per l’ulteriore agguato
criminoso in cui è rimasto vittima oggi il loro caro congiunto, esprimo, anche
a nome del Senato della Repubblica, sentimenti di sincera, commossa
solidarietà».
Il 10 dicembre 2005 nel corso della
Festa della Polizia Penitenziaria
tenuta nel nuovo carcere di Santa Maria
Capua Vetere, è stata scoperta una lapide che ricorda il maresciallo Pasquale
Mandato. Il 15 ottobre 2008 al maresciallo maggiore scelto del disciolto Corpo
degli agenti di custodia Pasquale Mandato è stata assegnata la medaglia d’oro
al merito civile, con questa motivazione: «Mentre si recava presso la Casa
circondariale dove prestava servizio, veniva mortalmente raggiunto da numerosi
colpi di fucile e di mitraglietta esplosigli contro in un vile e proditorio
agguato della criminalità organizzata, sacrificando la vita ai più nobili
ideali di coraggio e di spirito di servizio. Santa Maria Capua Vetere (CE),
5 marzo 1983».
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