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giovedì 18 luglio 2013

LA SCOMPARSA DI UN GRANDE GIORNALISTA, DI UNO SCRITTORE E DI UN AMICO

Cerami giornalista, il suo racconto: «Assunto al Messaggero, che giorno fantastico»

PER APPROFONDIRE tagvincenzo ceramimessaggero
Vincenzo Cerami
di Vincenzo Cerami
Questo articolo di Vincenzo Cerami fu pubblicato nell’inserto speciale del Messaggero del 16 dicembre 2008 per i 130 anni della nostra testata 
Chi da piccolo non ha mai sognato di fare il giornalista. Quanta letteratura e quanto cinema hanno descritto la vita sconclusionata di un reporter. Un reporter avvezzo a ogni scherzo del destino e ormai compassato davanti alle nefandezze del mondo e della cronaca nera. Io mi vedevo, taccuino in mano e con il fotografo a fianco, andare nei luoghi dov'erano successi dei fatti per poi raccontarli con fedeltà e puntualità ai lettori, magari con una scrittura ad effetto, evocativa e neutrale. Essendo romano per me l'idea platonica del giornale è sempre stata Il Messaggero. Sognavo di poterci scrivere un giorno, ma non fondi o commenti. Sognavo di essere svegliato la notte per correre dov'era successo qualcosa di importante nella mia città. Era l'epoca degli articoli dettati al telefono o appuntati sui block notes tascabili, con la biro. Poi la redazione e la sigaretta in bocca nel frastuono delle macchine da scrivere. Non c'era il computer, ma solo l'odore acre del piombo. Un bel giorno il direttore Mario Pendinelli mi propose l'assunzione, malgrado già da una vita facessi lo scrittore. Non ci pensai due volte e accettai. Il sogno di bambino si realizzava. Intanto il giornalismo era cambiato, la tecnologia entrava nelle redazioni modificando modi e spirito di lavoro. Per gli inviati c'era una sala a parte, molti di loro aspettavano ordini dal direttore, stavano seduti pronti a salire in macchina o su un aereo. Li invidiavo, sembravano poliziotti impigriti in attesa di scatenarsi in un'inchiesta. Io fui messo all'Ufficio centrale, nella sala macchine. Dovevo imparare, e i migliori insegnanti sono stati i semplici redattori, quelli che avevano il formulario giusto, erano veri e propri manuali umani capaci di risolvere in pochi momenti problemi d'ogni genere. Facevo titoli, occhielli, catenacci, scrivevo molto, ma quasi sempre senza uscire dall'ufficio. Solo qualche volta mi facevo accompagnare da un fotografo per seguire un processo o per dare immagini a un'inchiesta. I primi giorni l'emozione è stata intensa, mi muovevo in quelle sale storiche di via del Tritone dove avevano dato gloria al giornale direttori come Mario Missiroli e tanti altri illustri giornalisti. Il giornale era il regno delle parole, dei racconti della realtà, delle riflessioni su tutto ciò che accade, non solo a Roma, ma nell'intero pianeta. Quando avevo un po' di tempo libero mi rifugiavo nella redazione sportiva diretta da Piero Mei, e scoprivo che anche il pallone viveva intensamente i suoi drammi. Se al piano di sopra c'era preoccupazione per le guerre che si combattevano ai quattro angoli della Terra, lì, con la stessa partecipazione si temeva per la classifica della Roma e della Lazio. La febbre delle notizie era la stessa in ogni settore del giornale, senza gerarchie. Ugualmente bravi erano i redattori della Cronaca di Roma, degli Esteri e degli altri servizi. Uomini che conoscevano il gusto dei lettori. Ho scoperto che il bravo giornalista non si giudica dalla qualità della materia di cui si occupa ma dal talento e dall'esperienza. L'esperienza al Messaggero è stata per me preziosa anche sul piano letterario. Non è un caso che mi sia divertito a ricostruire i più famosi delitti romani, alcuni dei quali finiti in un volume intitolato "Fattacci". Lì ho mischiato il linguaggio giornalistico con quello letterario, il lessico giudiziario con quello della cronaca. Tutti gli scrittori dovrebbero cimentarsi con il giornalismo. Molti lo hanno fatto, e se ne sono giovati. Vera novità è stata per me vivere in tempo reale tutto ciò che succedeva nel mondo e nella città di Roma. Respiravo con la realtà quotidiana, momento dopo momento, fin quasi a perdere una visione storica degli avvenimenti. Ogni evento che sembrava fondamentale quel giorno, l'indomani si ridimensionava, anche perché succedeva qualcosa che sembrava più interessante. Vivevo con una certa diffidenza l'idea che ogni articolo era destinato a morire il giorno dopo. Tanto sforzo per un uso di poche ore. Ero abituato, in quanto scrittore, a testi duraturi, destinati ai libri. Ma il giornalismo va dietro alla vita, con la casualità della vita, senza nessuno zodiaco di riferimento. In centotrent'anni Il Messaggero ne ha viste di tutti i colori. Era partito come un foglio ironico e anticlericale, ma poi, aumentando la tirature, ha navigato nelle acque tempestose delle due guerre, ha attraversato il fascismo, ha fotografato le mutazioni profonde del Paese e quelle di Roma, la mia città. Confesso che ancora oggi, quando leggo il nostro giornale, comincio dalle ultime pagine e piano piano risalgo alla prima. Voglio prima sapere cosa succede sotto casa mia, poi cosa succede alle squadre romane, poi, vado alla Cultura dopo aver saltato l'Economia di cui poco m'intendo. Alla fine vado a vedere cosa combinano al governo e cosa succede all'estero. Non credo di essere il solo romano che legge il giornale cominciando dalla fine. È il nostro bollettino di guerra, la nostra finestra sul Cupolone, il binocolo che sbircia l'orizzonte del Duemila sperando in qualcosa di buono. Il Messaggero fa da centotrent'anni il suo mestiere di "quotidiano", ci accompagna nel nostro tran tran di tutti i giorni, tutti i giorni.

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