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lunedì 18 novembre 2013

"L'ASSASSINO DEI SOGNI" ( COME CHIAMA IL CARCERE L'ERGASTOLO CARMELO MUSUMECI ) CONTINUA AD UCCIDERE E NON VIENE PUNITO: UN DELITTO AL GIORNO NELLE CARCERI ITALIANE

Carcere. Notizie dalla comunità penitenziaria. Da Viterbo, Massa, Altamura, Bari

19-11-2013
Viterbo: detenuto malato di tumore, mi sento un condannato a morte in carcere
A Luciano, 26 anni, detenuto a Mammagialla, un anno fa è stato diagnosticato un tumore maligno. In una lettera a Radio Radicale racconta come gli siano stati negati i domiciliari, nonostante il parere dei sanitari. "Mi sento un condannato a morte, vegeto nella mia cella. Sono un morto vivente". Luciano ha 26 anni, deve scontare trent'anni per omicidio. Rinchiuso nel carcere di Mammagialla, un anno fa gli è stato diagnosticato un tumore maligno con metastasi. La sua condizione, hanno certificato i medici, non è compatibile con il regime detentivo, ma il giudice gli ha negato per due volte i domiciliari.
Luciano, che si trova nella sezione di alta sicurezza, ha raccontato la sua storia in una lettera letta durante una trasmissione che si occupa della situazione carceraria, in onda su Radio Radicale. "Nel novembre 2012 - scrive Luciano a Radio Carcere - mi è stato diagnosticato un tumore maligno con diverse metastasi. Dopo accertamenti, la direzione sanitaria del carcere di Viterbo ha certificato la mia incompatibilità con il regime detentivo e io ho fatto istanza al magistrato di sorveglianza per ottenere la detenzione domiciliare, per evitare di morire qui dentro. Invece il magistrato ha rigettato la mia istanza e io ho dovuto fare i salti mortali per essere curato qui dentro". Luciano racconta d'essere stato sottoposto a dodici cicli di chemioterapia e a ventidue cicli di radioterapia. "Purtroppo non sono servite a molto, il tumore è rimasto lì". In compenso ha dovuto fare i conti con gli effetti di una terapia devastante. "Non è possibile immaginare come mi sentivo: senza capelli, il viso gonfio, poter dormire solo due ore per notte da seduto, continua nausea, difficoltà respiratorie. La direzione sanitaria del carcere ha fatto un'altra relazione dicendo di nuovo che ero incompatibile con il carcere, perché vi era un'impossibilità di gestire la mia malattia.

Però il magistrato di sorveglianza ha rigettato di nuovo la richiesta per i domiciliari, sostenendo che non c'è un concreto pericolo di morte". Rimane in carcere: "Oggi io, malato di tumore, mi trovo ancora qui, chiuso in una cella e non passa giorno in cui i medici del carcere mi dicano che non possono fare più nulla. Mi sento un condannato a morte, le mie difese immunitarie non ci sono più e ho il terrore anche di prendermi una semplice influenza. Vegeto in una cella, aiutato da un compagno di detenzione. Sono un morto vivente".
Il Presidente della Provincia scrive alla Cancellieri
Il presidente della Provincia di Viterbo Marcello Meroi ha accolto l'invito di Riccardo Fortuna, pubblicato su Tusciaweb, e ha inviato al ministro Cancellieri una breve mail per chiedere informazioni sul detenuto Luciano, 26enne recluso a Mammagialla, affetto da un tumore che non gli lascerà scampo e a cui è stato più volte negato il permesso di terminare i propri giorni ai domiciliari. Di seguito il testo della mail inviata da Meroi al ministro. Ministro Cancellieri, questo detenuto (in riferimento a Luciano, ndr) non è "speciale". Ma lei aveva detto che il suo intervento su qualche altra situazione era dettato solo da umanità, non altro.
(da: www.tusciaweb.eu)


Massa: il "dottor cannabis" ancora in carcere per una mail smarrita
Fa il medico anche in carcere. Gli altri detenuti sanno chi è, si fidano di lui e gli chiedono consigli e diagnosi. E lui non si tira indietro. Fabrizio Cinquini, il dottore di Pietrasanta finito agli arresti per la coltivazione e il possesso di 227 piante di marijuana che, ha sempre dichiarato, utilizza per studiare le qualità terapeutiche della cannabis, è ancora in carcere. Da luglio. Per colpa, come ha denunciato qualche giorno fa con una accorata lettera la moglie, Lucia Pescaglini, di una email andata perduta. Con quella lettera Cinquini, in base alla legge 199 del 2010, chiedeva di poter attendere a casa il giudizio, come già concesso dal Tribunale, ma nella sostanza tecnicamente negato a causa di una precedente condanna a suo carico per la quale - al momento dell'arresto nel luglio scorso - stava scontando la pena. La possibilità di uscire, però, c'è.
E Cinquini ne ha fatto richiesta per scritto. Solo che nei passaggi burocratici previsti qualcosa è andato storto. "Basta un foglio dimenticato sulla scrivania e, se non hai nessuno fuori che ti aiuti, rischi l'ergastolo" commentava con amarezza qualche giorno fa la moglie. Anche di questo Fabrizio Cinquini ha parlato ieri alla consigliera regionale Laura Chincarini, esponente di Centro democratico in visita al carcere di Massa. "Non lo conoscevo - racconta la consigliera - e ammetto di aver incontrato una persona profondamente diversa da me. Può sembrare un visionario ma del resto è così che sembravano alle persone comuni coloro che hanno lasciato un segno, ai quali si deve la nascita della scienza moderna". Una personalità "particolare" la descrive Chincarini "una persona generosa e di grande dignità". Cinquini ha raccontato un po' di sé. "Mi ha spiegato cosa fa nel suo orto con le piante di marijuana della cui coltivazione si era autodenunciato - continua la consigliera regionale - in un'ora di conversazione mi ha esposto con entusiasmo idee e progetti. E mi ha anche parlato degli altri detenuti, persone che, ha detto, sono molto più disperate di lui e devono essere aiutate. In molti si rivolgono a lui, sapendo che è medico, per consigli e diagnosi e Cinquini si mette a loro disposizione". "Se devo essere sincera la cosa che mi è rimasta più impressa è quanto ho appreso in carcere - continua Chincarini - appena arrivato ha fatto richiesta alla direzione di cominciare a coltivare marijuana per proseguire i suoi studi". Permesso che, ovviamente, gli è stato negato. "Io non sono affatto favorevole alla liberalizzazione delle droghe - spiega poi Chincarini - ma la ricerca sull'utilità terapeutica di certe sostanze è un'altra cosa". Poi la consigliera commenta anche la questione dei domiciliari, al momento non autorizzati per Cinquini. "Sia ben chiaro la legge deve essere uguale per tutti, e la magistratura emetterà il suo giudizio, ma desta preoccupazione, mentre il Paese è scosso dalle telefonate umanitarie del ministro Cancellieri in relazione al caso della figlia di Ligresti, che un uomo, che certo non ha rubato milioni di euro alla collettività e probabilmente ha violato la legge in buona fede, sia costretto ad attendere in cella il giudizio della magistratura, quando invece avrebbe diritto agli arresti domiciliari. Spero per questo in un atto non di clemenza, ma certo di buon senso, che consenta al medico di Pietrasanta di attendere il giudizio a casa sua, giacché non rappresenta una minaccia per la collettività, anzi, al contrario, tutto quello che ha fatto, a torto o a ragione, l'ha fatto per amore dei suoi pazienti alla ricerca di nuove terapie per ridurne la sofferenza". Chincarini non è il primo rappresentante delle istituzioni che, grazie alla disponibilità del magistrato di sorveglianza, riesce a incontrare Cinquini. E del caso del medico di Pietrasanta non si sta interessando solo la politica ma anche il Garante regionale dei detenuti, Franco Corleone.
(da “Il Tirreno”)


Bari: viaggio nel carcere di Altamura, dove gli orchi chiedono aiuto
Il carcere dei pedofili. Un istituto penitenziario, l'eccellenza nell'Italia meridionale, in cui i molestatori, gli orchi, i torturatori di corpi innocenti, vengono inseriti in un percorso di redenzione.
Sono pedofili e violentatori seriali gli ospiti del carcere di Altamura. La maggior parte ha commesso reati sessuali all'interno della famiglia. Padri su figlie, o patrigni su figli adottivi, spesso con la connivenza della madre. A volte amici dei genitori, ma comunque quasi sempre persone nella cerchia familiare.
Un'astuzia, quella del pedofilo, che utilizza tecniche con una matrice comune: la seduttività. E la cosa che comunque sconcerta di più che l'elemento tipico dell'abuso sessuale all'interno di queste famiglie è il silenzio. Un altro dato da non sottovalutare: l'imbarazzo della famiglia. Non solo. C'è poi la sottomissione della famiglia, della moglie e, in alcuni casi, anche delle vittime.
E nel carcere di Altamura ci sono orchi di diverse età, dai 18 ai 70 anni. Tutti stanno scontando una pena per reati gravi: violenza sessuale. La maggior parte degli autori di questo reato è costituita da persone appartenenti a tutte le classi sociali, persone che sono conosciute dalla vittima come amici di famiglia, insegnanti, parenti: persone di cui il piccolo si fida.

Le violenze avvengono soprattutto dentro casa e non riguardano solo le famiglie degradate. Il fenomeno si diffonde sempre di più anche su internet. In alcuni casi, per fortuna rari, le violenze sono tali da arrivare perfino ad uccidere le piccole vittime, spesso, portatrici di handicap. E la cosa più triste è che talvolta in carcere le vittime incontrano gli stupratori. Cioè, figli e madri che hanno una servitù nei confronti del killer degli innocenti. La norma carceraria questo non lo può vietare. Quindi le visite tra vittime e carnefice sono costituzionali.
I dati - Ottanta i detenuti, di cui una forte presenza della provincia di Bari, di Lecce e Brindisi. Quindi, la Terra di Bari è, forse, prima in classifica nella media regionale per reati di abusi sessuali. Un dato allarmante. Ma è la triste verità. Un'etichetta infame difficile cancellare, specie, poi, se i reati sono in continuo aumento. Una percentuale preoccupante, che deve far riflettere le istituzioni su una serie di attività sociali che rafforzino la prevenzione, specie nelle scuole. Ma perché la provincia di Bari è l'epicentro di reati di pedofilia e di violenze?
L'eccellenza del carcere - Caterina Acquafredda è il direttore dell'istituto penitenziario ed è impegnata in un continuo sforzo di aggregazione sociale per i detenuti. Per loro ha avviato corsi scolastici, teatrali e di florovivaismo. Dunque, quei piccoli segnali che avviano un detenuto alla serenità carceraria.

"Il carcere è lo strumento per cui questi uomini possono riscattarsi e ritornare ad affrontare una vita serena. Serena, poiché, hanno avviato e partecipato ad una serie di progetti di integrazione sociale e di formazione professionale che, di fatto, gli consentiranno di affrontare un nuovo percorso di vita. La partecipazione a progetti di riabilitazione è un'occasione per scongiurare la recidività e incrementare l'auto stima graduale, ma anche per incrementare l'inserimento all'interno della comunità. Chiuderli in cella ha poco valore educativo. Abbiamo educatori straordinari che hanno una capacità di ascolto innata e sanno, soprattutto, essere razionali nella gestione umana con il detenuto. Non solo. L'istituto penitenziario di Altamura è un vera comunità di ascolto ed una unità terapeutica di grande livello, come una famiglia che ode ogni giorno i propri figli. Infine, le celle sono sempre aperte, poiché, è in atto il controllo dinamico da parte della polizia penitenziaria. Il nostro è un modo diverso di fare vigilanza, ovvero, dalla sorveglianza- custodia alla sorveglianza-conoscenza. C'è un sereno confronto tra i detenuti all'interno del carcere, in quanto le celle sono composte solo da due letti e la fiducia è palese".
Dunque i pedofili, giorno dopo giorno, devono affrontare il "mostro interiore" e rimettere le cause per cui hanno fatto del male. Quel male che, forse, è stato più scaltro nell'appropriarsi delle loro perversioni. E gli assistenti sociali, gli psicologi, gli psichiatri devono fare un duro lavoro. Un pentimento che non avviene mai con immediatezza perché, tendono alla negazione. È allora che subentra la bravura di chi sa ascoltarli ed aiutarli.


La capacità di ascolto - Don Saverio Colonna è il padre della Comunità di Fornello che, da sempre, segue i detenuti del carcere di Altamura. D'altronde, la presenza di santini è immagini sacre è molto forte tra le mura carcerarie. C'è chi tra le mani tiene un rosario e la bibbia appoggiata su uno sgabello. La fede è ormai, quasi, l'unica speranza per chi è solo. Poi c'è la nuova chiesa allestita dal vescovo Mario Paciello con una donazione. Una chiesa che non è solo chiesa, ma anche contenitore culturale.
"Chi sta dietro le sbarre - spiega don Saverio - non è un marziano né tanto meno un mostro. Non è affatto diverso da noi. Il detenuto vive le stesse debolezze che sono dentro di noi. Siamo chiamati tutti a vigilare su noi stessi: nessuno deve credersi immune dalla possibilità di commettere reati, piuttosto con umiltà riconosciamo il male che c'è in noi per accostarci alle ferite degli altri. Non dimentichiamo le parole della Bibbia: "Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere" e "Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi". Nei miei incontri quotidiani con i detenuti comprendo sempre più la verità di queste parole".

Le storie - Lorenzo, 34 anni di Lecce. Tra un anno tornerà a casa perché il suo percorso è quasi giunto al termine. Lo incontriamo nella sala colloqui alla presenza degli agenti di polizia. È felice di discutere in un incontro e di raccontarsi. Ha alle sue spalle un triste passato. Difficile da raccontare. "Hanno fatto bene a fermami". È la prima frase di Lorenzo che con emozione ricorda quanto era irruento, senza mai narrare la sua storia. "Penso sempre al mio passato a agli anni che mi sono bruciato. Ero una testa dura, ribelle e non prendevo in considerazione i consigli della mia famiglia. Oggi, però, posso affermare di essermi pentito. E questo grazie al percorso di riabilitazione e di riscatto sociale del carcere. Un carcere che è, di fatto, la mia seconda famiglia".
La domanda è d'obbligo. Pensi al tuo futuro? "Penso a mio figlio di nove anni. L'amore vero della mia vita. Quando finirà tutto, la prima cosa che farò e quella di rifarmi una famiglia". Ci riuscirà?
"Ho raccontato del mio male a mio padre". Così, si racconta Gianluca, 41 anni di Roma. "Ero una testa di coccio, irruento, dunque, sono qui a scontare la mia pena". E aggiunge. "Per fortuna sono qui. Ho preso coscienza dei miei errori. Chiedo scusa a tutti". Gianluca è teso, si emoziona e sogna un futuro diverso. Una vita, forse, che gli darà un percorso migliore. Ma, in ogni caso, la sua famiglia gli è stata sempre vicina. Non è solo, insomma. "Mi sento a casa mia. E l'amore che ricevo dagli operatori sociali mi fa sentire tranquillo e per questo sono pronto, quando uscirò dal carcere, ad una realtà da uomo diverso".
Il dolore per la figlia - Cosimo, 26 anni è di Bari. Esile, un paio di occhiali e jeans. Sembra un ragazzo come tanti, mite, silenzioso. In realtà è ben altro. La presenza dei giornalisti lo incuriosisce e lo rassicura, poiché, anche lui ha avviato la rivoluzione interna. "Penso a mia figlia di cinque anni e il mio cuore è sempre a lei. Mi sento in colpa perché non posso esserle vicino come un padre normale. Ma avrò il modo per riscattarmi" . Per un attimo si commuove quando pensa ai femminicidi e quando si parla di donne maltrattate. Soffre, si vede. "Non sopporto gli uomini che picchiano donne, non posso accettarlo. Ho paura che quello che succede agli altri possa succedere anche mia figlia". Sensi di colpa?
(da “La Gazzetta del Mezzogiorno”)


Giustizia: le carceri e la sinistra senza anima
di Luigi Manconi
Vito Manciaracina, 78 anni, condannato in via definitiva all'ergastolo, detenuto presso il Centro clinico del carcere di Bari, affetto da paralisi degli arti inferiori, epilessia e demenza senile. Il 7 novembre scorso, la Procura della Repubblica ha chiesto il rigetto dell'istanza di sospensione della pena.
Così come la richiesta alternativa di poterlo trasferire in un'idonea struttura sanitaria. Brian Gaetano Bottigliero, 25 anni, condannato in primo grado a nove anni di reclusione, detenuto nel carcere romano di Regina Coeli. Nel gennaio scorso gli viene diagnosticata un'insufficienza renale cronica. In attesa di un trapianto di rene, è sottoposto a dialisi tre volte alla settimana. Le richieste di termine o quantomeno di attenuazione delle misure cautelari, sono state rigettate dal magistrato competente perché sussisterebbe a suo carico un "pericolo di fuga". Vincenzo Di Sarno, 35 anni, condannato in via definitiva, detenuto nel carcere napoletano di Poggioreale, affetto da un tumore al midollo spinale. Gli è stata rigettata l'istanza di scarcerazione per incompatibilità con lo stato detentivo.
Le tre vicende qui sintetizzate, che gridano vendetta davanti a Dio e agli uomini, rappresentano altrettanti casi di stridente e crudele incompatibilità tra condizione patologica e reclusione in cella. E si tratta di vicende che, secondo un'opinione diffusa, dovrebbero rappresentare plasticamente quella "disparità nel trattamento" dei detenuti che il caso di Giulia Ligresti avrebbe evidenziato. Le cose non stanno propriamente così. E, infatti, su quelle tre storie di sofferenza e agonia in stato di privazione della libertà qualcuno ha presentato interrogazioni in Parlamento, ha sollecitato l'attenzione del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, della magistratura di sorveglianza e dei tribunali e ha informato il ministero della Giustizia. Qualcuno, appunto, solo qualcuno. Eppure sono tre settimane almeno che l'intera polemica sul "caso Ligresti-Cancellieri" ruota intorno alla presunta Ingiustizia Assoluta di un interessamento istituzionale che privilegerebbe solo ed esclusivamente i detenuti "eccellenti" e quelli che vantano importanti relazioni familiari o sociali. Io so che il ministero della Giustizia e il suo attuale titolare, ma anche quello precedente, Paola Severino, in decine e decine di casi non si sono comportati affatto così: e hanno mostrato sollecitudine e hanno operato attivamente a favore di detenuti anonimi, privi di risorse materiali e immateriali, di avvocati e di tutele. Ma su questo già ha risposto e, se crede, risponderà ancora Annamaria Cancellieri. Qui mi preme evidenziare altro. Ovvero il fatto che, se la Ligresti ha ricevuto l'attenzione del ministro e, a seguire, del sistema dell'informazione e del Parlamento, Manciaracina, Bottigliero e Di Sarno sono stati ignorati da tutti. E, insieme a loro, sono stati ignorati decine e decine di detenuti che patiscono condizioni assai simili. Per quanto riguarda l'informazione, a parte questo giornale, il Sole 24 Ore, il Manifesto, il Tempo, un articolo del Fatto e il settimanale Tempi, a quelle vite che si spengono in carcere è stata dedicata appena qualche riga nelle pagine locali di alcuni quotidiani. E dai quasi mille parlamentari -mi scuso anticipatamente in caso d'errore - solo una o due interrogazioni. Nessuna, sempre che non mi sbagli, è stata presentata da uno tra i moltissimi deputati e senatori che hanno pensato fosse brillante - forse addirittura esilarante - ripetere ad libitum la genialissima battuta sui "fortunati" che dispongono del telefonino del ministro. E nemmeno hanno presentato agguerritissime interrogazioni o hanno compiuto penetranti visite ispettive tutti quei parlamentari così tanto, ma così tanto "di sinistra", e così tanto, ma così tanto "dalla parte dei cittadini". E ovviamente non uno (ma bastava anche mezzo) di quei fichissimi super-garantisti che spuntano come funghi a destra. Si è palesata in tal modo, e fino in fondo, l'ipocrisia un po' oscena di tante parole udite nelle scorse settimane: a conferma del fatto che la pretesa battaglia egualitaria contro i privilegi di Giulia Ligresti dissimulava una assai diversa, e meno rispettabile, pulsione. Non una richiesta di eguaglianza che portasse l'anonimo detenuto, in caso di grave patologia, a ottenere quel trattamento che la legge prevede per lui come per Giulia Ligresti, bensì il livellamento anche di quest'ultima verso l'azzeramento delle garanzie e dei diritti. Per lei come per tutti i Vito Manciaracina d'Italia (per non parlare di quelli che, a loro disdoro, oltre che detenuti sono addirittura stranieri).
Post scriptum.
Sono decisamente un uomo all'antica. Lo deduco, tra l'altro, dallo stupore che mi coglie nell'apprendere che un connotato di forte identità di una componente del Partito democratico, quella che si vorrebbe di sinistra (ahi, quanti delitti si commettono in tuo nome), sarebbe rappresentato dalla richiesta imperiosa di dimissioni di Annamaria Cancellieri. Tale richiesta, va da sé, verrebbe fatta in nome della "legalità". Che, poi, un comportamento ritenuto tanto scorretto da richiedere le dimissioni di un ministro, riguardi una detenuta riconosciuta incompatibile e "legalmente" scarcerata, sembra irrilevante; e che, ancora, il ministro sotto accusa sia quello che, forse, più ha fatto per modificare il nostro infernale sistema penitenziario, alla sinistra del Pd sembra interessare poco o punto. Ha ben altro a cui pensare.
(da “L’Unità”)
 

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