A marzo del 1995
UCCISE SETTE PERSONE, QUATTRO
FAMILIARI E TRE IMPIEGATI DELLA CONSERVATORIA DELLA IPOTECHE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE, FERENDO ALTRI
DUE PRESENTI
DOMENICO CAVASSO, era un AGENTE DELLE GUARDIE
DI CUSTODIA DEL CARCERE DI CARINOLA.
Dopo il massacro,
l’agente si costituì nella caserma dei
carabinieri di Santa Maria. Impugnava la pistola e cantava a squarciagola.
Processato fu ritenuto infermo di mente e
condannato a 15 anni di carcere e 3 di manicomio. La pubblica accusa aveva chiesto però 21 anni e tre ergastoli.
E’ uscito e vaga in città ed è un pericolo
pubblico senza controlli un drone
della pazzia che può ancora uccidere. A
chi spetta vigilare sulla incolumità dei
cittadini?
Mass
murderer o serial killer?
Domenico Cavasso, l’agente delle guardie di custodia
del carcere di Carinola, che nel 1995, uccise sette persone, quattro familiari
e tre impiegati della Conservatoria della Ipoteche di Santa Maria Capua Vetere, ferendo altri
due presenti, non si può definire un “serial killer”, piuttosto come usano
definirlo in Usa un “mass murder”. Forse Carlo
Panfilla, il giovane aversano che nel 1974 e successivamente uccise otto persone, perché “l’avevano
guardato storto” ( di cui ci occuperemo in un nostro prossimo
servizio) è un “Serial killer”, forse l’unico
della nostra Provincia. Ma la sua vicenda è controversa e zeppa di
contraddizioni. Manicomio, ergastolo, reclusione, borderline. Aldo Semeraro, psichiatra, (decapitato
dalla camorra) e Domenico Ragozzino,
direttore del manicomio di Aversa (condannato per sevizie e poi impiccatosi )
lo periziarono definendolo “infermo
totale”. Oggi, però, Carlo Panfilla
è ancora recluso nel carcere di Carinola, quello stesso carcere
dove “vigilava” il Cavasso autore di
sette omicidi.
Cavasso aveva una motivazione. Sia pure frutto
della sua mente annebbiata.
Era il 15 marzo del 1995, allorquando meditò la strage. Il sospetto gli aveva
annebbiato la mente, era impazzito pensando che i suoi familiari volessero
rubargli l’eredità, una vecchia masseria nelle campagne di Caserta. Spinto
dalla follia, roso dall’ira, Domenico
Cavasso, 37 anni, agente della
polizia penitenziaria, impugnò la
pistola d’ordinanza e fece una strage.
Sette morti, due feriti. Una terribile sequenza di morte che insanguinò Santa Maria Capua Vetere e un vicino paese di
15mila anime, Macerata Campania, dove si trovava il casale dell’ eccidio.
Lì, nel cortile, l’assassino uccise sua
zia, poi la cugina e altri due parenti. Dieci minuti più tardi, in auto,
raggiunse la Conservatoria dei registri immobiliari di Santa Maria Capua
Vetere. Tre impiegati morti, fulminati
da Cavasso sotto gli occhi della folla in attesa allo sportello. Forse l’assassino
li riteneva complici dei suoi familiari; nei
giorni precedenti alla
Conservatoria aveva chiesto tutti i documenti sulla masseria di Macerata
Campania.
Dopo il massacro, l’agente si costituì nella caserma dei carabinieri di Santa Maria.
Impugnava la pistola e cantava a squarciagola, il piantone lo disarmò. Non si è fatto un accertamento in proposito
ma, secondo il mio modesto punto di vista,
il Cavasso quel giorno, era
imbottito di cocaina. Infatti, fuori di
sé, fu addormentato con una dose da cavallo di Valium. Il magistrato dell’inchiesta, Antonio Ricci, piemme della
Procura sammaritana, interrogò i
familiari ma non riuscì a parlare con l’omicida, sconvolto. Il padre dell’
agente (sfuggito miracolosamente alla carneficina) raccontò la storia della
masseria, ricevuta in usufrutto da suo fratello e divisa fra i tre figli.
Nessuno voleva usurpare la proprietà di
Domenico, ma lui, assalito da frequenti crisi depressive, era convinto a torto
del contrario. Cavasso era assistente capo nel carcere di massima sicurezza di
Carinola, ma i responsabili del penitenziario, secondo gli inquirenti, non sapevano
dei disturbi nervosi dell’agente. Nel curriculum esaminato dai carabinieri
risultava un ricovero in ospedale militare nel 1984, per una crisi depressiva. Ma invece, in realtà, il Cavasso era in cura
presso il neurologo Giovanni Ferriero di Santa Maria Capua Vetere, che la sera prima dei delitti aveva visitato. “Un paziente come tanti altri – dichiarò
sentito dagli inquirenti dopo l’eccidio
- Nulla
che lasciasse presagire un
comportamento così sanguinario, l’esplosione improvvisa della follia. Non mi
era apparso particolarmente agitato, però negli ultimi tempi sembrava chiuso a
sé stesso, non confidava a nessuno i suoi crucci, neppure a me”.
All’epoca dei fatti il fratello Giuseppe era anche lui agente di custodia
presso il carcere “Opera” di
Milano. Erano 10 anni, però, che Cavasso
non ci stava più con le testa, da quando
era morta la madre; lui all’epoca,
lavorava nel supercarcere di Ascoli Piceno ( dopo essere stato per un tempo a Pianosa
nel 1977), rimase anche traumatizzato da
un altro avvenimento. Nel corso di una
rivolta (1985) all’interno del
carcere alcuni detenuti ammazzarono sotto i suoi occhi un collega che era il
suo amico del cuore.
LA
STRAGE NELLA MASSERIA DI MACERATA CAMPANIA
La mattina della tragedia quando era
partito dalla casa di S. Tammaro diretto a Macerata Campania, non era in divisa ma aveva con sé
la pistola d’ordinanza la micidiale calibro 9 parabellum in dotazione agli
agenti penitenziari (una calibro 9 lungo, con un caricatore da sedici colpi e
cinquanta proiettili.) Erano le 7.45
quando l’uomo salutata la moglie e la sua bambina di sei anni. Mormorava “Vado a
trovare mio padre”. Sembrava sereno
abitava nella casa di proprietà della suocera. Era un tipo introverso, taciturno. Aveva, oltre al
fratello, una
sorella, Luisa, che viveva nella
masseria di Macerata Campania con le quattro figlie Rossella di 15 anni, la più grande; Antonella,
12 anni, Patrizia, 11, Giovanna, l’ ultima, di 4 anni.
E’ proprio alla masseria che si diresse,
alla guida della sua Renault 21. Racconta
la moglie: “Martedì sera, quando Domenico
era rincasato, aveva la pistola, un fatto insolito. L’eredità? Con me non ne
parlava, non avevamo difficoltà economiche”. Il turno di lavoro a Carinola cominciava
alle 16, ma Cavasso aveva ben altro per
la testa. Bussò alla porta della masseria, in vicolo Matteotti 5. Aprì il padre,
Giovanni Cavasso, 70 anni, (l’unico
che scamperà alla strage assieme alla nipotina Giovanna.) Erano le 8, un
orario insolito. L’agente entrò in casa, si rivolse al padre in maniera
brutale: “Papà, devi darmi tre
milioni per comprare un computer”.
Raccontò l’anziano genitore: “Mi accorsi
subito che qualcosa non andava. Domenico aveva lo sguardo alterato, ebbi paura. Persi
tempo. Lui uscì in cortile
all’improvviso, sentii sparare...”.
Giovanni Cavasso si salvò per miracolo.
Fuggì su una scaletta interna e si tappò in casa. Uscì due ore dopo, all’arrivo
dei carabinieri. Nella stanza, terrorizzato, ascoltava le urla di dolore dei
parenti, vedeva il sangue allargarsi a chiazze nel cortile. Il folle scaricava
il revolver sulla zia Antonietta Cavasso,
73 anni, e sul convivente di lei Giovanni
Merola, 71 anni, macellaio, ferito e poi fulminato da un infarto. L’
assassino si precipitava in casa, al primo piano, dove dormiva la cugina Luisa
Piccirillo di 35 anni. La donna passò dal sonno alla morte. Suo marito Mattia Trotta, 40 anni, sottufficiale
dell’Aeronautica, era in servizio a Pratica di Mare (era genero di Angelina Cavasso, cugina di Domenico
); sentì gli spari e si affacciò dalla
porta del bagno. Cadde sotto i proiettili. Era in bagno, in pigiama, a
farsi la barba. Cavasso ruppe il vetro e fece fuoco. Si
salvarono le figlie di Luisa Piccerillo, ma solo perché non
erano in casa. Giovanna, la più piccola, non venne vista dall’Assassino. Fu lei,
dopo l’eccidio, a correre dai vicini per invocare aiuto: “Correte, mamma, papà, tanto sangue...”.
Rossella
Trotta ( che aveva perso il padre, la madre e la nonna) il giorno dopo raccontò particolari
raccapriccianti della strage che il suo parente aveva messo in atto senza
pietà. “E’ salito per le scale Mimì, ha
rotto un vetro ed ha sparato a papà, poi a mamma, mia sorella Giovanna, di 4
anni, è scappata altrimenti avrebbe ucciso anche lei”.
“L’
assassino? un uomo normale…” Allarga
le braccia sconsolato: “Che devo dire, in
questo paese ci conosciamo tutti. Sono il sindaco di una piccola frazione dove
c’è gente che lavora sodo. Domenico era
uno di noi. Una persona perbene. Di lui nessuno può raccontarne male. Un uomo
serio che non ha mai fatto parlare di sé. Quello che è accaduto è incomprensibile.
Nessuno poteva prevederlo. Ma si sa, la testa della gente è quella che è...”.
Nicola
Stellato, sindaco di Macerata Campania,
ha un moto di stizza. Cerca le parole per raccontare il dramma che vive
un paese di diecimila anime dove la strage compiuta da Domenico Cavasso rischia
di lasciare segni indelebili. “Cosa
vuole, è destino dei paesi come il nostro. Già immagino quello che accadrà nei
prossimi giorni. Pagheremo tutti per un reato che è lontano da noi anni luce.
Qui c'è gente perbene, che se fa parlare di sé è solo perchè sgobba dal mattino
alla sera. Sono contadini, operai delle manifatture tabacchi. Null’altro che
questo... Adesso dobbiamo pensare a come aiutare quel che resta di questa
famiglia. E poi ci sono i bambini. Ho riunito la giunta per decidere cosa fare.
Cercheremo di fare il possibile. I funerali? Sarà tutto a carico nostro”.
La strage nella masseria di via Matteotti
è negli occhi della folla che si è radunata in silenzio davanti al cancello che
separa il cortile della casa da quei ruderi che si intravedono al di là del
muro che custodisce i segni della tragedia. A due passi c’è il bar della piazza dove Domenico Cavasso
trascorreva le sue giornate di permesso. “Del
lavoro parlava poco”, raccontano gli amici, “ci si incontrava per bere una birra, una partita al biliardo. Certo,
negli ultimi tempi sembrava provato ma, nessuno di noi è riuscito a capire cosa
lo turbasse. Un bravo figlio... Sì, a volte assumeva atteggiamenti un pò
strani, comprava una bibita e magari andava a consumarla lì di fronte dove c’è
la fontana nonostante il freddo o la pioggia di questi giorni. Ma nessuno ci ha
mai fatto caso. In fondo starsene per i fatti propri non è un reato”.
La
storia di Domenico Cavasso è quella di un uomo normale. Nessun vizio, poco
appariscente, un’esistenza passata tra le mura del penitenziario di Carinola.
Le amicizie sono quelle di paese: quattro chiacchiere con gli amici la
domenica, un saluto fugace a chi si rincontra dopo tanto tempo perchè lavora
lontano da Macerata Campania ma torna in occasione delle feste natalizie.
La direttrice del carcere di Carinola Laura Passaretti, da Sessa
Aurunca, cade dalle nuvole. Il telefono del suo ufficio
squilla senza sosta. “Non so cosa dire e
neppure posso immaginare quale sia stata la molla della strage. Lo aspettavamo
ieri pomeriggio per il turno pomeridiano. Pensi che lo scorso anno ha
collezionato soltanto un giorno di malattia. Sempre presente e disponibile. Mai
creato problemi e per quanto mi risulta nemmeno un dissapore, magari tra
colleghi. Ancora non riesco a rendermi conto di come sia potuta accadere una
tragedia del genere. Un follia. Assurdo...”.
IL
CRONISTA SUL LUOGO DEL DELITTO
Arrivai poco dopo la sparatoria, ero al
tribunale penale, come ogni mattina a seguire un processo, la Conservatoria è
ad un tiro di schioppo dall’edificio giudiziario. Il cadavere di Giovanni Fusco
era riverso in una pozza di sangue tra gli scaffali e le scrivanie. “Mi ha puntato la pistola alla testa – disse
Patrizio, 36 anni, un impiegato ancora
sconvolto in viso – sono vivo per miracolo è stato un inferno. “Ho sentito dei
colpi pensavo fossero mortaretti – disse
Giuseppe Ciaramella che era in ufficio per un certificato ed ha
rischiato di morire – poi ho visto tutti
scappare e li ho imitati”.
La dinamica fu così ricostruita dagli inquirenti. Alle
8.15 era calato un silenzio di morte
sulla masseria. Cavasso era risalito in macchina per raggiungere la Conservatoria dei registri immobiliari, a
Santa Maria Capua Vetere. Si appurò che
era stato lì qualche giorno prima per consultare documenti sulla masseria.
L’uomo era fuori di sé. Entrò nella palazzina da un ingresso riservato al
personale. Incrociò un dipendente ma lo graziò: “Nun si’ tu”, non sei tu, grida. Pistola in pugno aprì la porta che
conduceva negli archivi, poi il folle si
portò dietro gli sportelli riservati al
pubblico. Puntò l’arma e sparò mentre la gente, una ventina di persone, scappava
terrorizzata.
LA
STRAGE DELLA CONSERVATORIA DEI REGISTRI IMMOBILIARI DI S. MARIA C.V.
Cavasso uccise con un colpo alla testa Giovanni Fusco, 37 anni, ( abitava a
Caserta alla via Ferrarecce, geometra, da 10 anni impiegato di II° livello alla Conservatoria, era sposato con Anna Russo ed aveva una figlia di 7
anni Elisabetta fu il primo ad essere ucciso: un solo
proiettile alla testa morì sul colpo); poi
Giuseppe Macchiarelli di 36, da Alife, sposato con Angelina Zoccolillo, con
due figli Sisto (5 anni ) e Vincenzo ( 2 Anni ). Poi toccò ad Anna Lombardi, 64 anni, casertana, stroncata da un infarto. Tra un anno sarebbe
andata in pensione. Due i feriti: Anna Viglione, 50 anni, colpita ad un
braccio e Salvatore Grimaldi di 39,
ferito all’addome.
Graziano
Castaldo, responsabile dell’ufficio della Conservatoria, assistette
impotente alla strage: “Ho visto Macchiarelli a terra - ricorda
- si teneva con le mani il ventre
insanguinato, gridò due volte “mamma!”
e morì. A quel punto
scavalcai un bancone e mi nascosi, non si capiva niente, la gente
gridava. Lui, quando aveva esaurito il
primo caricatore inserì altri colpi
nella pistola e ha riprese a sparare”.
Michele Murante, da Caserta, nipote della
impiegata Anna Lombardi, colpita con un
colpo di pistola e poi stroncata da un collasso raccontò: “Lavoro per uno studio professionale di Caserta, vengo ogni giorno alla
Conservatoria, l’avevo incontrato la settimana scorso questo Cavasso, era in
fila davanti a me, chiedeva cose assurde, pretendeva un attestato non c’era
verso di fargli capire che si doveva rivolgere magari ad un notaio… era
nervosissimo ad un certo punto mi aggredì perché gli stavo dando fastidio”.
Di rimando Giuseppe
Canzano, cognato della impiegata morta: “Se ci fosse stato qualcuno, un vigile, un poliziotto, non sarebbe
successo niente. Eppure si sapeva che la sala visure della Conservatoria era isolata, troppo esposta e rischiosa”. Infatti,
qualche tempo prima il capo dell’ufficio era stato picchiato da un uomo da
Casal di Principe, entrato all’improvviso ( pretendeva la cancellazione di una
ipoteca che era stata accesa da una banca). Ci misero un carabinieri, ma dopo
pochi giorni sparì.
Poi i parenti delle vittime si
lamentarono dei soccorsi troppo lenti,
l’Ospedale Melorio è a due passi eppure: ”Anna
era ancora viva quando è arrivata in
ospedale ci disse il nipote – ma i sanitari erano convinti che avesse
avuto un collasso o una crisi cardiaca. Per qualche minuto nessuno si era
accorto della ferita all’addome e che c’era una emorragia interna in atto. Non
l’avevano neppure spogliata… se l’avessero portata in rianimazione mia zia
sarebbe viva”.
Sisto Macchiarelli, padre di Giuseppe, aveva la voce tremante e gli occhi lucidi a stento
trattenne il pianto : “Anche mio figlio era ancora vivo quando è
stato dato l’allarme”, poi quasi gridando: ”Era un bravo ragazzo era uscito per lavorare me lo hanno fatto vedere
su una lastra di marmo. Un bravo ragazzo con i bambini piccoli. Lo sa? Mi stava
preparando una sorpresa. Dieci giorni aveva fatto l’ultimo esame, quello di
procedura civile, Tra un mese la tesi. Avrebbe preso la laurea capite?”.
Sul posto arrivava il responsabile provinciale
delle Conservatorie, Dr. Severino Cantiello, per un primo rilievo del
caso ed altre autorità. Mentre il Cavasso veniva accompagnato presso il carcere
militare di Santa Maria Capua Vetere,
scortato, ma ridotto come “una belva in gabbia”. Poi, alla
presenza del suo difensore di fiducia Renato
Iappelli e al
P.M. Antonio Ricci, ricordò che
aveva scaricato 3 caricatori della sua pistola sui familiari e sui dipendenti
della conservatoria. Si esprimeva con “una
insalata di parole”, ma spiegò che gli impiegati non gli avevano rilasciato
“un attestato di proprietà”, che esisteva solo nella sua mente offuscata
dalla follia. L’immobile – ci spiegarono alla Conservatoria – era in usufrutto
al padre Giovanni e sarebbe andato a lui, alla sorella e ad un altro fratello
dopo la morte del genitore. Ma lui non voleva aspettare temeva che qualcuno,
nel frattempo, avesse mutato la disposizione testamentaria.
Aveva più volte richiesto al padre una
scrittura privata con la quale gli si
riconoscessero i diritti di proprietà dell’abitazione. Aveva sempre ricevuto una risposta negativa.
Allora si era recato più volte alla conservatoria ed aveva chiesto visura sugli
immobili di famiglia quindi preteso un certificato di proprietà che nessun
impiegato gli avrebbe potuto rilasciare.
Per questo aveva deciso di punire tutti. Il
difensore Iappelli da noi avvicinato subito dopo l’interrogatorio dichiarò: “Cavasso non è in grado di ricostruire gli
avvenimenti. Sarà sottoposto ad una perizia psichiatrica”. Poi i funerali di Stato per gli impiegati
e lutto cittadino ( con una omelia di Don Luigi
Giuliano ) a Macerata Campania. A
Caserta alla presenza del Prefetto, Luigi Damiano, del Questore Luciano Rosini, del Comande del Gruppo Carabinieri Nicola
Oleori, del Comandante della
G.d.F. Gen. Giovanni Liverini e del
sindaco Aldo Bulzoni, il
vescovo Raffaele Nogaro, nella sua omelia disse tra l’altro: “Lo Stato deve proteggere di più chi lavora per lui”.
PROCESSATO FU RITENUTO INFERMO DI MENTE
E CONDANNATO A 15 ANNI DI RECLUSIONE E 3 DI MANICOMIO. MA LA
PUBBLICA ACCUSA AVEVA CHIESTO PERÒ 21
ANNI E TRE ERGASTOLI.
Poi
il solito clichet. Domenico Cavasso è un
pazzo e non potrà essere condannato. Sottoposto, infatti, a perizia psichiatrica, su richiesta del suo
difensore Renato Iappelli, da parte dei
periti della Corte di Assise, Ferdinando
Pariante, Alberto Manacorda e Alfredo
Rossi; in contrasto con i consulenti Federico
Fels e Pasquale Avvenuti, fu dichiarato totalmente infermo di mente e
condannato a 15 anni di reclusione e tre di manicomio. Il Pubblico Ministero Umberto Maiello, legittimamente, aveva determinato in 21 anni di reclusione per
i primi quattro delitti e l’ergastolo per i successivi tre. Ma la
Corte ritenne troppo grave la richiesta dei 21 anni e degli ergastoli. Gli avvocati costituiti per le parti civili
furono: Federico Simoncelli, Gaetano Treppiccione e Alberto Barletta.
Sul caso Cavasso, all’indomani della
sentenza dell’aprile 98, emessa dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua
Vetere, presieduta da Oscar Bobbio,
con giudice a latere Maria Rosa Caturano,
ci fu un intervento - con una lettera spedita dall’estero - di Martino
Trotta - fratello di una delle vittime - il quale, rivolgendosi al Ministro
di Grazia e Giustizia, Giovanni Maria
Flick, chiese “giustizia”, dichiarando che Domenico Cavasso, negli Stati
Uniti, sarebbe finito sulla sedia elettrica.
LA LETTERA DEL FRATELLO DI UNA DELLE
VITTIME SCRITTA AL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
“Sono il fratello di Mattia Trotta, l’innocente
massacrato insieme alla moglie Luisa Picciriello ed altre cinque persone la
mattina del 15 marzo 1995 a Macerata Campana e a S.M. Capua Vetere. Autore di
questo efferato delitto, Domenico Cavasso, oggi premiato dalla così detta
giustizia terrena che a conclusione del processo lo ha condannato a soli quindici
anni di carcere più tre di internamento in casa di cura. Sette persone sono morte,
diverse famiglie distrutte e gettate in un profondo lutto, bambini trovatisi
dall’oggi al domani orfani, e dopo tanta crudeltà resa ancora più
insopportabile da tre anni di dibattiti processuali, ci troviamo confrontati
all’inclemenza di una corte che decide di punire il Cavasso con appena tre anni
ed alcuni giorni per persona uccisa. Signori della corte, tanto vale una vita?
Tre anni ed alcuni giorni di reclusione valgono presso la corte di assisi
sammaritana l’omicidio di mio fratello? Appena sei anni per chi ha ridotto
orfane di entrambi i genitori le mie
nipotine? Sono letteralmente costernato, umiliato, avvilito
nell’apprendere questa decisione della prima sezione della corte di assise
sammaritana presieduta da Oscar Bobbio, giudice a latere Rosa Caturano, e non
posso tacere i miei risentimenti verso questa sentenza che reputo lesiva della
vera giustizia ma soprattutto iniqua verso chi dalla stessa giustizia si
aspettava non certo vendetta, ma quantomeno una equilibrata sentenza che il PM
Umberto Maiello legittimamente aveva determinato in 21 anni di reclusione per i
primi quattro delitti e l’ergastolo per i successivi tre”.
“Questo doloroso episodio mi fa dubitare
della famosa frase che campeggia direi spocchiosa nelle aule dei tribunali e
che recita “la legge è uguale per tutti”. Ma a chi vogliono darla a bere, sono
troppi ormai i tribunali che si accaniscono contro poveri ladri di polli per
poi essere lascivi verso i veri pericoli dell’umanità. Un essere umano, ma
l’aggettivo è troppo lussuoso per il Cavasso, che quindi mi par d’obbligo
definire essere bestiale, uno che è stato capace di tale barbarie, fra alcuni
anni circolerà libero grazie anche agli abbuoni previsti dalla vigente
legislazione, ma in quale paese viviamo dunque? Se tutto ciò fosse avvenuto
negli Stati Uniti, il Cavasso incontrovertibilmente avrebbe terminato il suo
percorso terreno su una sedia elettrica. Invece tra non molti anni sarà libero
di circolare di nuovo e chissà, commettere qualche altro irreparabile atto. Si
è detto che per i primi quattro omicidi le sue capacità di intendere e di
volere erano scemate ma che appena trenta minuti dopo , allorquando eliminava
le altre tre vittime e feriva altre due persone, egli era lucido, perfettamente
cosciente agendo con freddezza e determinazione. Veramente un bel quadro che
però non è stato sufficiente perché la corte si decidesse ad accogliere la
richiesta del PM. Io, fratello di una delle vittime, sono disgustato da questa
sentenza ripeto indegna di un paese civile; in questo momento di sconforto la
mia coscienza non mi permette di accettare tutto ciò e mi ribello fortemente
liberando il mio dolore in questa lettera aperta che tramite il Suo giornale
intendo far arrivare nelle case dei numerosi cittadini che La seguono quotidianamente, ma
massimamente presso le competenti istanze, prima fra tutte il Ministero di
Grazia e Giustizia della persona del Ministro Giovanni Maria Flik. E’ un
appello il mio, Sig. Ministro, perché giustizia venga resa a chi da anni soffre
per la scomparsa dei propri cari per mano di un sanguinario assassino. Martino
Trotta. Oude Baan 154/1 3630
Maasmechelen – Belgio”.
I
PAZZI SONO MATERIALE DISPERSO DELLA SOCIETA’
Francesco
Bruno, criminologo,
ordinario di psicopatologia forense presso l’Università “La Sapienza” di Roma,
nel suo lavoro di ricerca e catalogazione dei delitti consumati da elementi che
hanno assunto farmaci antidrepressivi inserisce anche il secondino Domenico
Cavasso che assumeva quotidianamente alte dosi di Paxil (contenente paroxetina).
Cavasso, a settembre del 2009 è uscito dal carcere e vaga per la città come un
automa. I familiari non hanno voluto accoglierlo. La moglie, già all’indomani
della strage si trasferì con i figli all’estero. Oggi è “ospite” della
struttura comunale per alienati mentali e naturalmente è da considerarsi - come
scrive lo psichiatra Adolfo Ferraro
- un materiale “disperso” e
rappresenta un “pericolo pubblico”.
Ma nessuno se ne briga fino al suo prossimo delitto che farà storia e
impressionerà l’opinione pubblica.
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