Accadde a Villa Literno nel maggio del 1953
LA TRISTE E ABERRANTE VICENDA DEL MOSTRO DI VICO DI PANTANO
CHE IN UNA VAMPATA D’ODIO
UCCISE 4 PERSONE
Orrenda strage per una donna con quattro morti e due feriti
gravi. La nefasta scia di sangue della
famiglia Capoluongo: una fàida senza
fine il padre uccise un figlio e un fratello uccise il padre per vendetta
- Fosca catena di amori e di rancori - La
“belva” di Vico di Pantano minacciò di uccidere altre dodici persone. Fu arrestato da una pattuglia di carabinieri a S. Maria C.V. mentre si andava a costituire
presso lo studio dell’Avv. Giuseppe Garofalo suo difensore - Sparò al fratello
per le offese fatte alla sua amante – Salvatore Capoluongo fu riconosciuto infermo
di mente e condannato a pochi anni di manicomio criminale -
Villa Literno – Era giovedì sera, del 9 maggio 1953, nelle campagne deserte, per tutta la notte, i carabinieri avevano frugato inutilmente con i fasci luminosi delle fotoelettriche
alla ricerca del feroce autore dell’eccidio. Sorvegliata anche la costa. Intanto,
era scomparsa anche la donna al centro della tragedia, mentre l’ultima bara veniva condotta dai familiari
verso il cimitero di Villa Literno. Tutta la notte i grandi occhi luminosi
delle fotoelettriche, dietro cui erano quelli, invisibili ed attenti, dei
carabinieri, sciabolarono lenti i campi,
le vie, gli incroci, i cespugli, tentando di centrare nel fascio Salvatore Capoluongo, “la belva”, il criminale che da
ventiquattr’ore era introvabile, evidentemente nascosto nel grande, ondeggiante
mare di erba che è la vasta pianura del Basso Volturno, in gran parte coltivata, in quel periodo, a grano e canapa, oramai ben alti sugli steli.
Frattanto, nella zona, attanagliata dal terrore, non si
circolava più. La voce che il pazzo omicida si nascondeva nelle campagne, carico di armi e di follia,
fece fatto sbarrare fattorie e casolari,
ed i pochi contadini usciti per il lavoro si guardano intorno, trepidanti,
pronti a gettarsi giù ai primi spari in quella tragica ed affannosa caccia all’uomo. Occorre
però aggiungere che, mentre, com’è naturale, la popolazione chiedeva l’aiuto
dei carabinieri, d’altra parte essa faceva ben poco, per aiutarli, in parte paralizzata dalla
paura, in parte dall’omertà, abituale in quella plaga.
Infatti è raro che contadini, mandriani,
butterai del Basso Volturno, si
rivolgano all’autorità giudiziaria: in genere essi sistemano da soli i propri conti. E ciò è
apparso anche nel dramma in corso. Perchè, nonostante che le vittime si fossero
abbattute nel proprio sangue la sera di giovedì, fra le ore 18 e le 19, è solo
l’indomani che, in seguito al trasporto all’ospedale dei Pellegrini di Napoli
di Marcantonio Capoluongo, il
fratellastro colpito per primo nella strage, i carabinieri, recatisi nella
fattoria “Chiusa”, vennero a
conoscere che quattro famiglie piangevano i propri morti.
Il parroco era stato chiamato per benedire
le salme, il medico non occorreva più, ma ai carabinieri, allora, non aveva pensato
nessuno. Tanto più che, come accertò, in
un più attento sopraluogo il maresciallo Renato
De Benedictis, (comandante la
stazione di Villa Literno), l’assassino lasciò per terra, alla fattoria “Martino”, la prima pistola, quella presa
al padre, poiché non gli serviva più: era scarica ormai.
Fu anche accertato che il giovane criminale si recò in
un pagliaio vicino al fondo “Fornara”
e, sotto i covoni smossi, fu notato un
vuoto che, nel terriccio umido, rivelava la sagoma di armi, sembrava un mitra. Perciò, disse il questore di Caserta, Alfonso Buccarelli, l’organizzazione di una così fitta rete di
sorveglianza con tanta truppa e mezzi, è più che giustificata per impedire che
vengano falciate altre vite umane. Anzi, per chiudere il delinquente in un cerchio
senza via d’uscita, fu chiesto l’aiuto anche dei mezzi della Finanza (motoscafi
e golette), poiché la polizia era sempre
convinta che Capoluongo continuava ad
aggirarsi nel triangolo che ha il vertice in Santa Maria Capua Vetere e la base
nella costa tirrenica, dalle falde del Massico dove è la spiaggia di
Mondragone, ai Campi Flegrei più esattamente, verso la secolare pineta
d’Ischitella, ove il lago di Patria sfocia nel mare.
La costa era bordeggiata costantemente da motovelieri,
chiatte e da barche di piccolo cabotaggio che navigavano nel Basso Tirreno, che
giungevano a toccare, nei loro peripli,
le coste della Tunisia. Come avevano
dimostrato i numerosi tentativi di espatrio clandestino fatti su quelle spiagge da elementi delle bande La Marca e
Nasti, ormai distrutte dai carabinieri, ma una delle speranze più vive dei
molti temibili pregiudicati latitanti è quella di raggiungere il territorio
della Francia, dove, allora più che mai, con l’avvampare della guerriglia in
Indocina, era richiesto continuo materiale
umano fresco per rifornire i reggimenti
della “Legione Straniera”.
Perciò, attraverso la stazione radio
dell’Ammiragliato, al Castel dell’Ovo, i mezzi navali della Finanza nei golfi
di Napoli e Gaeta hanno avuto l’ordine d’incrociare lungo l’arco di spiaggia
dove il Capoluongo potrebbe tentare di evadere. La foto del pericolosissimo
criminale era già stata trasmessa a
tutti i comandi di polizia. Nessuna notizia, fino ad allora, di Viola Jorio, l’amante di Marcantonio,
il fratellastro ferito. Comunque, era priva di qualsiasi fondamento la notizia
pubblicata quel giorno da “l’Unità” che,
nell’atmosfera elettorale, aveva tentato
di far passare la donna per una bracciante insidiata, alla cui difesa era
intervenuto il Capoluongo più anziano, ancora ricoverato ai Pellegrini. La Viola (e cosi
altre tre sue sorelle) era una donna di
pessima morale, ben nota ai carabinieri per la sua vita dissoluta; la causale del
dramma deve attribuirsi soprattutto alla morbosa gelosia fra i due fratelli,
per il possesso della bruna e procace “lupa
dei campi”.
Nei
giorni successivi, il secondo dispaccio delle agenzie di stampa
precisava che: il ventiduenne Salvatore Capoluongo, che già
aveva esploso - in preda ad un improvviso
attacco di pazzia - sette rivoltellate contro il fratello maggiore, Marcantonio,
si era reso autore, nella notte, nelle campagne di Villa Literno di un’orrenda
carneficina. E mentre il fratello versava in pericolo di vita, all’ospedale dei Pellegrini di Napoli, ove era
stato accompagnato dal padre Nicola, la ”belva”,
continuò a seminare terrore. Il genitore, interrogato sull’accaduto dichiarava che il gravissimo fatto di sangue
si era svolto in contrada “Scherinella”,
in una masseria in tenimento di Vico di Pantano. I motivi dell’orrenda strage a
lui erano sconosciuti, non escludendo,
però che forse la causa era una donna contesa dai due fratelli.
Nella stessa giornata Nicola Capoluongo, faceva
ritorno al suo paese, San Cipriano
d’Aversa, sperando di raggiungere e
fermare il figlio Salvatore, che aveva ferito il fratello e che, armato di tutto punto, poteva commettere una pazzia.
I timori del genitore purtroppo non dovevano risultare infondati: il
criminale, infatti, nella nottata, -come detto – aveva compiuto una tremenda strage. Quattro uomini: Raffaele Martino, di 32 anni, Michele Fabozzi, di 61
anno, Giuseppe Diana, di 26 anni e Michele Martino, di 55, erano caduti uccisi sotto i colpi della sua
pistola, raggiunti uno alla volta nelle proprie masserie.
Circa le cause che avevano spinto il giovane assassino alla orrenda
strage, nulla era ancora possibile sapere. Anche la polizia e i carabinieri,
giunti da Caserta agli ordini del capo della Mobile dott. Ugo Bossi e di un capitano dell’Arma benemerita, ignoravano ancora
con precisione i moventi del massacro. Sembra tuttavia probabile che il
Salvatore Capoluongo abbia agito per un’imprevedibile e improvvisa crisi di
follia susseguente forse al ferimento del fratello. La polizia era impegnatissima nella caccia all’assassino in
fuga, il quale era favorito dalle
condizioni della zona, in gran parte paludosa.
All’ultimo momento si apprese che
Salvatore Capoluongo aveva ancora
sparato e gravemente ferito un’altra persona, il cugino Corrado Capoluongo, di 20 anni, il quale era stato accompagnato all’ospedale di Aversa. All’alba,
poi l’assassino, ritornato sul luogo ove il giorno precedente aveva ferito il
fratello, si introduceva nella stalla e a rivoltellate abbatteva una mucca e
un cavallo di sua proprietà.
Il
terzo resoconto dell’Ansa concretizzava i retroscena e intanto, si appuravano altri particolari. La famiglia Capoluongo aveva già interessato
le cronache pochi anni prima, con una
fàida dalla lunga scia di sangue:
il padre aveva ucciso un figlio e un
fratello aveva ucciso il padre per
vendetta. Intanto per l’eccidio dei 4 contadini, oltre mille carabinieri, della Legione di
Napoli e Salerno e decine di cani
poliziotti erano alla caccia
dell’assassino, mentre potenti fari falciavano
nella notte la campagna,
mobilitati dall’alba nel battere
senza sosta campi e vie dell’intera Campania. L’ordine era stato categorico:
fermare l’assassino vivo o morto.
Il dramma
- come detto – era accaduto nella
fattoria “Chiusa”, in agro di Villa
Literno, di proprietà di Nicola Capoluongo, il padre dell’assassino. Una
famiglia agiata, i Capoluongo, poiché, oltre agli altri beni, la sola tenuta,
di una trentina di moggia avrebbe un valore di
venti milioni di allora. Ma nonostante questa ricchezza, sia pure
recente, fatta nella scia del dopoguerra, erano rimasti contadini che coltivavano la loro
terra, pur avendo una lussuosa automobile “Ardea”
fuori serie e, come primo segno dell’evoluzione, un figlio agli studi, l’ultimo
dei cinque, Peppino.
Eppure, intorno ai Capoluongo, v’è sempre
stata come una cupa foschia, che teneva la gente lontana da essi. Infatti nella
gioventù del ricco massaro, don Nicola, vi era stato un dramma. Suo padre, Marcantonio, uomo violento è sanguinario,
poiché un figlio, Saverio, un giorno
gli aveva risposto sgarbatamente, aveva staccato dal muro la doppietta e,
puntategliela contro, lo aveva freddato
con un colpo. Deciso a vendicare il
fratello. Nicola, appena n’ebbe il pretesto, rivolse la stessa arma contro il
padre e lo uccise: anche questa volta bastò un colpo. Al processo i giudici
accettarono la tesi della “lue” e dell’infermità mentale ereditaria. Cosi Nicola,
dopo pochi anni, uscì, ritornò alla fattoria e prese moglie. Nacquero una
figliola e un maschio, che, per rispettare la tradizione, egli chiamò col nome
del padre da lui ucciso: Marcantonio. Ma, nel parto, la moglie morì ed egli si
sposò di nuovo, avendo altri due maschi, Salvatore
e Beppe. Fra Marcantonio e
Salvatore, figli dello stesso padre, ma
di madri diverse, da tempo v’era rancore e per più d’un motivo.
“La provincia di Terra di Lavoro – chiosa
il solito inviato di un giornale del Nord - ha una vasta zona, detta dei
“mazzoni”, tutta a pascolo brado, che è la Maremma del Sud, con le sue mandrie
di bufali e cavalli, i nidi, selvatici butteri e i numerosi negozi con la
scritta “qua si vendono cartucce”, che ne fanno il “Far West” d’Italia. Fra i paesi di questo
West ve ne sono due, San Cipriano di Aversa e Casale di Principe dove,
statistiche alla mano, l’ottanta per cento degli uomini, dai sedici anni in su, ha qualche macchia scarlatta sul certificato
penale”.
“Ma, fra questa gente, il senso della
gerarchia familiare è radicato e tirannico. Perciò, spesso Marcantonio dava al
fratello minore ordini bruschi, mal tollerati. E v’è un terzo motivo che è chiave
principale del dramma: una donna. Viola
Iorio. Bruna, procace, e dedita “alla vita” (come qua dicono delle Veneri agresti), era
piaciuta a Marcantonio, che ne aveva fatto l’amante. In queste campagne, dove
la donna è custodita con feroce gelosia, una femmina che non sia moglie è cosa
rara e preziosa”.
Ed è stata Viola, sia pure
involontariamente, la causa di tutto. Infatti da tempo Salvatore, il fratello
del suo amante, la circuiva, e l’altro ieri aveva rinnovato le sue insistenze,
cosa di cui la donna aveva informato Marcantonio. Così ne era nato un litigio,
sedato dallo zio, Giuseppe. Ma il
fuoco covava, e ieri la tragedia è esplosa. Mentre entrambi i fratelli erano
nel podere, intenti al lavoro, senza parlarsi, improvvisamente Salvatore estraeva
una pistola sparando contro Marcantonio sette colpi. Poi, mentre richiamato
dagli spari accorreva il padre Nicola,
che subito provvedeva a trasportare il giovane, ferito, a Napoli, nell’Ospedale
dei Pellegrini (dove è tuttora ricoverato in pericolo di vita) accecato da
una grossa vampa di follia, Salvatore
iniziava il carosello della morte.
Piombava
- come detto - nella vicina fattoria dei Martino (essendo i Martino amici di famiglia, egli era ben pratico della
casa), si impadroniva di un fucile da caccia calibro 12 e di una pistola “Glisenti”
a rotazione. Poiché il proprietario, Raffaele
Martino, sorpreso dall’irruzione, gli si faceva incontro seguito da un
garzone, Michele Fabozzi,
immediatamente, per avere libera la via, egli sparava all’impazzata,
lasciandoli a terra cadaveri. Subito dopo si avviava alla fattoria “Capoluongo” (è un’omonimia) e visto il
padrone Corrado, che era col garzone
Michele Martino, apriva ancora il
fuoco: il primo si abbatteva ferito (verrà poi portato all’ospedale di Aversa,
dove è ancora ricoverato), l’altro morto. Quindi continuando nella sua fuga,
passava vicino alla fattoria “Fornara”
e quivi vedeva il padrone, Giuseppe
Diana, e gli sparava tre colpi, ammazzandolo.
Poi entrò giù, nel tinello, afferrava un
secondo fucile da caccia e fuggiva. Si fermava anche in un’altra fattoria, ma
il padrone, certo Luigi Cavaliere,
che aveva udito gli spari, gli urlò da dentro casa di andarsene, altrimenti l’avrebbe ammazzato.
Il “pazzo” rinsavì subito e si
allontanò.
Perchè -
si chiedeva la polizia - egli
aveva commesso la strage? Per
impadronirsi delle armi in un impeto di pazzia?
Era possibile, ma, fino ad allora, non era chiaro il vero movente. Forse aveva anche sparato credendo che quella gente volesse
sbarrargli il passo. Ma v’è ancora un
altro oscuro e scatenante motivo. E su quello che si stava indagando. Intanto, nel pomeriggio, le quattro salme
erano state portate alla sala mortuaria
del cimitero di Villa Literno, dove, presenti i tre giudici istruttori inviati
dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere,
Mario Mancuso, Bernardino De Luca
e Antonio Masturzo, e i quattro
periti settori i dottori Mario Pugliese,
Pasquale Tagliacozzi, Emilio Farina e
Michele Sanvitale, hanno fatto le
autopsie. Il giorno successi le salme furono portate a San Cipriano, il paese cui
appartengono tutti i protagonisti del dramma, compresa Viola Iorio, per le
esequie.
Intanto il questore di Caserta, Alfonso Buccarelli, poiché l’omicida si era allontanato armato e aveva la possibilità di avere altre armi (la zona
era – ed è - fra le più fertili per i sistematici ritrovamenti
di fucili e munizioni) distaccò il comandante della “Mobile”, commissario Raffaele Rossi, che insieme con il
comandante la Compagnia dei carabinieri di Santa Maria Capua Vetere, tenente Fortunato Messina, dirigeva, nella zona
dei “Regi Lagni” (una pianura acquitrinosa oggi bonificata dove era più probabile che il sanguinario si fosse
nascosto) la drammatica caccia all’uomo: caccia compiuta con pattuglie a piedi,
oltre che su jeeps e motociclette, e con l’aiuto di decine di cani poliziotti
chiesti alla Scuola degli agenti di polizia di Caserta.
Potenti
fari falciavano i campi, ma il grano era alto e ciò rendeva indubbiamente più difficile la cattura
dell’assassino. Fra l’altro egli era un esperto automobilista e i carabinieri
vigilavano perchè non affrontasse le auto per impadronirsi di un mezzo e
recarsi fuori della Campania, i cui confini, come riteneva la polizia, egli non
aveva ancora varcato.
Mentre continuava la drammatica caccia a
Salvatore Capoluongo, la tragedia di Villa Literno non aveva più ombre. Quella mattina, verso le 10 (dopo essersi resa introvabile
fino ad allora ) era entrata nella
caserma di S. Cipriano, per essere interrogata, la contadina ventottenne Viola Iorio, che veramente si dovrebbe chiamare Merda, dal cognome del marito Pasquale, sposato nel 1942 e lasciato nel 1943, allorché, per
“incompatibilità di carattere”, essa si diede a battere la campagna iniziando a
esercitare il … mestiere più antico del mondo. Rispose con calma alle domande
degli inquirenti. “E’ vero, sì – disse -
non sono una donna perbene, faccio il mestiere,
ma è per vivere, perché ho lasciato mio marito, e adesso ho un figlio di 9
anni… “Vieni qua Augusto, fatti
vedere dai signori” (e il bambino che era con la madre, sollevava smarrito,
senza capire, gli occhi dal pezzo di pane bigio che andava sbocconcellando).
“Marcantonio?
Se lo amavo? Ma sentite! Qualche biglietto da mille, e ogni tanto un sacco di
farina o di fagioli, ecco tutto.
Salvatore? Si, mi voleva per lui,
è vero, ed ero stata da lui più di una volta. Voleva che io non trattassi con
nessun altro, e io non potevo... Ma tutta questa gelosia, all’improvviso e in
questo modo, per me, per una donna come me, me la spiegate voi?”.
Cosi, la donna della tragedia, concluse il
suo sfogo. Furono anche interrogati due ragazzi, Giovanni Veneziano e Vincenzo Schiavo, garzoni alla fattoria della
“Chiusa”, e due braccianti (pure
lavoranti nel fondo), Caterina
Annunziata e Rosa D’Aniello, che era venuta con la madre Luisa.
Tutte queste persone furono presenti alla scena della prima lite tra i
due fratelli. Tutte, eccetto la Iorio, che era in stato di fermo, furono poi
rilasciate.
Le cose, dunque, stavano così, si mormorava
tra i contadini, che Salvatore, l’omicida, facesse più di un complimento alla Rosa D’Aniello. Marcantonio, come
primogenito, aveva rimproverato il fratello che gli disse: “Non è vero, ma, se anche lo fosse, è sempre
una ragazza onesta, mentre quella che tieni tu (la Viola) è una donna che tutti gli uomini hanno
conosciuto”.
Sentendo disprezzare l’amante, l’altro,
esasperato, gli gridò che facesse attenzione; egli come primo dei fratelli
avrebbe fatto valere il rispetto dovutogli, e Salvatore gli era già venuto
meno, perchè egli sapeva delle premure di lui per Viola.
“Chi
te l’ha detto?” Domandò Salvatore. E l’altro fece una fila di nomi: sono i
quattro morti e il ferito. E’ questa la chiave della strage? Salvatore Capoluongo
aveva ucciso gli uomini che era andato a cercare (meno due, sfuggitigli: Michele Diana, che aveva lasciato da
poco la fattoria, e Antonio Cavaliere
che, intuendo le intenzioni si rifiutò di aprirgli) per questa prima ragione:
essi avevano sparso la voce del suo tentativo di togliere Viola al fratello.
E ve ne è una seconda: essi tutti
(compreso il garzone di 16 anni Michele
Fabozzi) avevano posseduto la Viola.
Gelosia verso questi uomini che lo guardavano con aria di derisione? Forse, ma
soprattutto rancore, anzi odio. Per essi e per il fratello. E poi c’era un
altro motivo: tutti questi uomini erano stati contagiati da un grave male; la “sifilide”, una grave malattia venerea,
che potrebbe paragonarsi all’aids di oggi ed essi sapevano che anche
Salvatore la portava nel sangue. Non solo. Ma essi, conoscendo che il giovane
voleva sposarsi con una ragazza bella e illibata di queste parti, per colpirlo,
poiché egli voleva solo per sè la Viola, avevano divulgato il comune segreto.
E’ per questo che Salvatore ha ucciso?. “Mi
vietano l’amante, mi tolgono la sposa”, ragionò, e la vita gli sembrò senza
più orizzonti.
Frattanto,
malgrado l’impegno col quale centinaia di carabinieri gli davano la caccia, il folle assassino non era
stato ancora catturato. Nella tarda
nottata si era appreso che le ricerche
erano state estese dove il Capoluongo avrebbe
potuto tentare di recarsi avendovi
parenti e amici. L’altra notte, un agricoltore, Cipriano D’Alessandro, lo aveva visto aggirarsi vicino alla sua fattoria, che non
dista molto da quella della “Chiusa”.
Secondo voci sempre più diffuse, poiché il padre di Salvatore, il vecchio
Nicola, sa che la “siepe di bocche da
fuoco” (cioè i fucili dei carabinieri) era pronta a stroncare ogni altro tentativo
omicida del delinquente, che teneva in orgasmo quelle campagne, per salvare la
vita del figlio vorrebbe fare il tentativo di indurlo a costituirsi, e forse
all’alba Salvatore Capoluongo sarà già fra le mura del carcere di Santa Maria
Capua Vetere.
L’ottimismo
che ieri faceva sperare ai carabinieri la fine della sanguinosa vicenda di
Villa Literno, con la presentazione spontanea di Salvatore Capoluongo, convinto
sulla impossibilita della sua ulteriore resistenza, era, purtroppo, svanito. Il pericolosissimo criminale, carico
di armi e di cartucce, continuava a nascondersi, non solo per sfuggire
all’arresto, ma, come fu accertato, per completare la strage. Purtroppo -
come confermò il comandante la stazione
di Villa Literno - vi erano fondati elementi per temere che Salvatore
Capoluongo, prima di cedere ai mitra o alle manette, intendesse falciare ancora vite colpendo a morte molte
altre persone sfuggite per caso alla sua vendetta: gli agricoltori Antonio Cavaliere (il fattore che si
salvò non avendogli aperto), Michele
Diana, cugino del Giuseppe Diana, abbattuto
nella fattoria “Fornara” ( Michele
era andato a comperare delle sigarette al paese), Renato Capoluongo, fratello di Corrado,
degente all’ospedale civile di Aversa (l’uguale cognome con l’assassino è solo
una omonimia) e l’intera famiglia di Peppinotto
Reccia (otto componenti), abitante in una tenuta vicina a quella della “Chiusa”.
E l’inviato di turno chiosò ancora:
“Consta ai carabinieri e ai contadini di queste campagne che, passando
attraverso la rete tesagli, l’omicida, armi in pugno, è stato alla fattoria
paterna per rifornirsi di viveri, denaro e altre munizioni. E sembra spronarlo
nella sua feroce ostinazione la visione d’un futuro senza speranze. Ad oriente
di Villa Literno, si leva nella pianura l’abitato di Aversa con le alte mura
grige del “manicomio criminale”,
mentre a sud del litorale tirrenico, quasi a portata di mano delle spiagge
flegree appare, nitida, Procida, con i dadi bianchi delle casette fra il verde
delle vigne e, a picco sulla roccia, il castello aragonese, oggi ergastolo, con
la sua mole cupa dalle orbite nere: le inferriate delle celle. E queste due
sono, a vista d’occhio, le uniche prospettive che si aprono al sanguinario oggi
in fuga: i giorni tutti eguali, fino alla fine, di una vita dove al di là della
grata appare l’uniforme del secondino o il camice dell’infermiere. Perciò egli,
pur braccato, è in agguato più che mai assetato di vendetta”.
“Nè è valso l’argomento, fattogli giungere
dai familiari, che, essendo stato egli riformato per “vizio di mente”, può anche sperare, domani, in una certa clemenza
dei giudici. Niente. Rifocillatosi, riempita la cartucciera, messo sotto la
camicia un fascio di biglietti di grosso taglio, s’è dileguato nel grano, per avventarsi
ancora sui suoi nemici”.
“Dovrebbe essere solo benedizione dei
campi il grano, ma qui, nelle selvagge campagne dei “mazzoni” è un’insidia da cui può lampeggiare la morte, improvvisa
e misteriosa. Conosciutisi i propositi di Salvatore Capoluongo, s’è avuto un
fatto nuovo nella caccia al criminale: i carabinieri hanno trovato degli
alleati improvvisati nelle famiglie di
tutti quanti coloro che vedono la loro
vita in pericolo, e, ormai, pistole e doppiette vigilano pronte da siepi e
staccionate. Per farla finita con quest’incubo e per meglio perlustrare l’ampia
insidiosa brughiera lungo il mare, verso Castelvolturno, Ischitella e Licola, tutte macchie di
quercioli e cespugli di lentischi e odorose ginestre, da stamane, levandosi
dall’aeroporto di Capodichino sono entrati in azione, bassi e silenziosi, due
elicotteri collegati via radio con gli automezzi della Benemerita, mentre a sua
volta la Stazione di Varcaturo, una delle poche in Italia che faccia regolare
uso di cavalli (la stessa controlla per un largo raggio i butteri di questi pascoli) ha lanciato nelle battute
i suoi carabinieri che solo così possono efficacemente percorrere la vasta
pianura dal terreno umido che impaccerebbe piedi e ruote”.
Intanto i carabinieri delle varie Stazioni
avevano interrogato molti altri
contadini e rilasciata Viola Iorio, invitandola
ad abbandonare col figlio Augusto
il paese, almeno momentaneamente, anche per evitare a lei e al bambino le
possibili vendette delle varie famiglie che la ritengono moralmente
responsabile della strage ( una sorta di “Bocca
di Rosa” della famosa canzone di Fabrizio De Andrè) .
Le cronache informavano ancora che, un
passo era stato fatto dal vescovo di
Aversa, monsignor Antonio Teutonico
che, preoccupato delle assai probabili conseguenze della vicenda ( perchè i
familiari dei morti, secondo la legge dei mazzoni, aggiungeranno altri anelli
alla catena di sangue) aveva sollecitato
i reverendi don Angelo Corvino, don Bernardo Coronella e don Michele Natale, rispettivamente parroci
di Villa Literno, San Cipriano di Aversa e Casal di Principe, perchè facessero opera di distensione, tanto più che, un pò per
attaccare il Governo (causa la mancata cattura) e un pò per presentare il fatto
come una forma di “sfruttamento padronale” i comunisti stavano soffiando sul fuoco, già bene acceso da sè.
Perciò, molti comizi, previsti per la domenica,
erano stati sospesi - sia pure
solo per un giorno – nella zona dove il fatto aveva causato più emozione.
Finalmente
la buona notizia dell’Ansa: “Il terrore e la caccia all’uomo sono
terminati nelle campagne del Casertano,
Salvatore Capoluogo è stato finalmente
catturato, dove meno ci si aspettava, in piena città, a Santa Maria
Capua Vetere. Venuti a conoscenza che il Capoluongo si aggirava nei pressi di
Santa Maria, i carabinieri avevano stretto il cerchio attorno alla città,
mentre nelle vie venivano intensificate le perlustrazioni. Precisamente alle
ore 22,30 alcuni militi in appostamento, avendo notato un’Aprilia attraversare il corso Garibaldi e fermarsi
dinanzi all’abitazione di un noto avvocato, circondavano la macchina: in essa
(nascosto nel cofano ) era il Capoluongo assieme a due suoi parenti”.
“Il giovane assassino si dirigeva appunto dal
legale, per essere da lui accompagnato a costituirsi nelle mani della
giustizia. I carabinieri lo prendevano immediatamente in consegna, traducendolo
alle carceri. Il Capoluongo avrebbe dichiarato di essersi deciso a costituirsi
per sfuggire alle possibili vendette da parte dei parenti delle sue vittime.
Sin da questa mattina i carabinieri battevano, instancabili, qualunque pista
potesse fare serrare in una morsa il sanguinario. D’altra parte Salvatore Capoluongo, convinto che stendere a terra
quattro o cento vittime era la stessa cosa, perché, in fondo, più
dell’ergastolo non potevano dargli, come una tigre in agguato, attento al più
lieve “stormir di fronde”, al
movimento fulmineo e silenzioso nella canapa, nel grano e nelle macchie della
brughiera, lungo il litorale, pronto a premere il grilletto sui suoi nemici o
su qualunque sconosciuto si accostasse dove egli si nascondeva invisibile”.
“E’ stato dopo il tramonto che egli si è posto al volante
dell’auto (celata in un pagliaio) per uscire dal cerchio in cui veniva
braccato. La soddisfazione nella zona, adesso, è vivissima, perchè
all’improvviso la tragica rosa di sangue poteva allargarsi. Infatti il
brigadiere Fabio Russo, comandante
del vigili di San Cipriano di Aversa (il paese cui appartenevano tutti i
protagonisti della vicenda, che si recavano solo per il lavoro alle fattorie di
Villa Literno), ci spiegava stasera che se il criminale avesse aperto il fuoco
sull’aia della tenuta “Cardogna”,
dove abitano i Reccia, una delle
famiglie minacciate, vi sarebbe stata certamente una strage, poiché i Reccia si
compongono di tre fratelli, Salvatore,
Giacomo e Michele, ognuno sposato con molti figli (solo Salvatore ne ha
otto)”.
“E’ riapparsa stasera ( Bocca di Rosa) alias Viola Iorio che,
avendo la sua casa a San Cipriano, in via Andrea Diana 12, dove l’abbiamo
rivista, v’è ritornata, nonostante il
consiglio dei carabinieri. “E’ facile
dire: andatevene lontano - ha detto.
Ma dove? E poi, chi pensa a mia madre?”. Sulla parte avuta dalla donna si conoscono
solo ora più precisi particolari. Non è esatto che Salvatore Capoluongo non
fece il soldato per “vizio di mente”.
La “tabe” ereditaria scorreva nelle
vene della sua famiglia ed è già più volte esplosa tragicamente, ma la causa
precisa per cui il giovane criminale (che ha 21 anni) venne riformato
all’ospedale militare di Caserta, nella scorsa primavera, fu una “anormalità anatomica”, ( aveva il pisello piccolo ) avente i suoi
riflessi sessuali, cosa che la donna rivelò agli altri giovani del suo clan
agreste, e quelli, a loro volta, di ciò sparlarono e risero, aumentando l’odio
del dileggiato”.
“Questa sera le condizioni dei due feriti
migliorano, come ci è stato confermato ad Aversa dal prof. Emanuele Repetto, direttore dell'Ospedale civile, dov’è ricoverato
(con quattro colpi di pistola) Corrado Capoluongo (erroneamente dato per morto
da alcuni giornali, che hanno fatto salire a cinque le vittime) e a Napoli dal
prof. Giuseppe De Sanctis, che cura
ai “Pellegrini”, Marcantonio Capoluongo (il giovane ha
ricevuto stamane una visita dei genitori), forato da sette proiettili: quanti
ve n’erano nella pistola impugnata dal fratello”.
“A Marcantonio, ricoverato nel reparto
chirurgia abbiamo chiesto un cenno sull’accaduto, ma si è rifiutato di parlare,
come fece anche il padre Nicola quando l'accompagnò: “Ero lontano dalla fattoria e non so nulla su come si svolsero i fatti”…
è scritto nel registro… Che si fosse all’ultimo atto del dramma era già chiaro.
Infatti verso le ore 22, a Casal di
Principe, prima, e a Villa Literno poi, rientrando impolverati da una battuta,
i marescialli Renato De Benedictis
e Zefferino
Esposito ci avevano confermato che, esauriti i tentativi per ridurre il
criminale alla spontanea costituzione, l’azione delle pattuglie e la vigilanza dei carabinieri era di entrata ormai nella fase decisiva. “Speriamo di catturarlo vivo - aveva
concluso un sottufficiale - e prima che
compia altri omicidi. Comunque, vivo o morto, non sfuggirà”.
“E cosi è stato. E appunto in questa
convinzione, per salvare la vita del figlio, ieri, quando era già buio, Rosa, la mamma, era uscita dalla
fattoria gridando forte per i campi, perchè il figlio, cui andavano le sue
invocazioni, l’udisse e si presentasse. “Fallo
per me, non far spargere altro sangue”,
implorava ad alta voce la donna, piangendo. Ma nessuno aveva risposto.
Ora, con l’arresto dell’assassino, il selvaggio “rodeo da vecchio West” è
terminato”.
Poi la chiosatura finale da parte dei
giornali dell’epoca: ”Interrogato per dieci ore e inviato al manicomio di Aversa per una
perizia psichiatrica. Il primo giorno di espiazione dell’assassino di
Villa Literno è trascorso nel locale carcere giudiziario, sotto il martellio
d’un interrogatorio di dieci ore, dalle 8 alle 19, con un breve intervallo,
fatto dal giudice Ugo Del Matto,
unitamente al Sostituto Procuratore della Repubblica Antonio De Franciscis, assistito dal suo difensore di fiducia
l’avv. Giuseppe Garofalo, presso il quale si era recato per farsi
accompagnare al carcere. (Don Peppino Garofalo a quei tempi abitava in un
appartamento all’angolo del Corso Garibaldi di fronte alla Upim. N.d.R.)
“Stasera egli è stato nuovamente rinchiuso
nella cella dove, per disposizioni del
direttore del carcere, il criminale è sottoposto a speciale vigilanza, anche
per evitare, dati i precedenti morbosi, qualsiasi tentativo di suicidio. La sostanza delle dichiarazioni rese dal
criminale vede stagliarsi ora più
nettamente nella vicenda (sempre però secondo la tesi del Capoluongo) un quarto
personaggio: quella Rosa D’Aniello,
la contadinotta prosperosa già apparsa nelle pieghe delle cause che
determinarono il delitto. L’omicida, nonostante le sue “non perfette condizioni fisiologiche”, aveva intensi rapporti con
più di una delle donne che frequentavano la fattoria, ma particolarmente
intime, per confessione della stessa contadinotta, erano le sue relazioni con Rosa”.
“L’offensivo
giudizio di Marcantonio per la fanciulla e non la contesa per la Viola - dice
l’assassino forse nell’intento di avanzare un alibi - sarebbe stata la causa
principale della lite con il fratello.
Ma, anche ammesso ciò, di fronte all’interrogativo che i giudici e i
carabinieri gli hanno rivolto, cioè quale nesso vi possa essere tra questo suo
risentimento e la strage successiva, il Capoluongo non ha saputo o voluto dare
risposta”.
“I carabinieri proseguono le
indagini per accertare due elementi: dove stanno nascoste le armi (fucili e
pistole) di cui era in possesso il Capoluongo e chi sono stati i favoreggiatori
(specialmente nell’agro di Giugliano) che per quattro giorni, mentre vaste zone
di due province vivevano ore di angoscia, si sono adoperati per nascondere il
criminale, nonostante la carneficina compiuta”.
Intanto la popolazione, che
attende di conoscere i nomi di questi
complici, chiede che il processo si faccia per direttissima, come appare da
numerose lettere all’Arcivescovo di Capua, e a vari magistrati, e allo stesso
comandante la Compagnia dei carabinieri, capitano Ettore Messina, che ha informato di ciò le autorità provinciali.
Tuttavia, sebbene la strage di Villa Literno sia proprio uno dei casi previsti
dall’ordinamento giudiziario (un delitto che ha profondamente turbato e
commosso la opinione pubblica) sembra che ciò non sia possibile, non solo
perchè è stata già disposta una istruttoria formale, ma per un altro più grave
motivo: la necessità d’una perizia psichiatrica che sarà sicuramente chiesta,
dato che fra i famigliari dell’imputato
si annoverano vari ammalati mentali di cui uno morto al manicomio criminale di
Aversa, dove si ritiene che Salvatore Capoluongo sarà inviato fra breve.
Si afferma anzi questa sera, che la perizia è
stata già disposta. Sembra che essa sarà affidata al prof. Filippo Saporito,
che non è più il direttore di quell’istituto, ma continua intensamente il suo
lavoro scientifico. Se il giudizio clinico accerterà l’infermità totale e la
magistratura accoglierà questa tesi, il processo non si farà, venendo applicata
per un minimo di cinque anni la misura di sicurezza (l’internamento, che può
essere prolungato o no a criterio del magistrato). Perciò, nonostante il furore
popolare, Salvatore Capoluongo non dispera, tanto più che anche suo padre e suo
nonno uccisero e finirono col tornare presto o tardi al paese.
Circa l’epilogo della
vicenda, i carabinieri negano che il Capoluongo si sia costituito, sostenendo
che v’è presentazione spontanea solo quando il ricercato si presenta
all’autorità giudiziaria, mentre il Capoluongo è stato arrestato, invece, sotto
il portone dell’avvocato Giuseppe
Garofalo, al n. 151 del Corso Umberto. Ma i familiari del Capoluongo
continuano ad affermare che il giovane, su consiglio loro e del legale, si è
costituito spontaneamente perchè pentito, come è provato oltre che dal
preavviso dato alla Procura della Repubblica, dalla presenza dei parenti
nell’auto, venuta in piena città e sotto l’abitazione dell'avvocato che tutti
sapevano accerchiata dai carabinieri.
In Corte di Assise la “belva
di Villa Literno”- Dopo due anni il processo - Riconosciuto seminfermo di mente
condannato a pochi anni di manicomio criminale.
L'autore della strage di
Villa Literno, Salvatore Capoluongo di 22 anni (all’epoca del suo incredibile
delitto ne contava appena venti), che in meno di dodici ore ucciso quattro
persone ferendone altre due, compare oggi dinanzi al giudici della Corte
d'Assise di S. Maria Capua Vetere. L’attesa per questo processo è immensa in
tutto il Casertano e anche nel Napoletano data la risonanza che a suo tempo
(due anni fa) ebbe la sanguinosa vicenda. Si
era anzi creduto in un primo momento che
il dibattito non avrebbe avuto luogo, dato che erano sorte voci che il Capoluongo fosse pazzo. A tal uopo, dopo
l’arresto, l'imputato venne trasferito nell’ospedale psichiatrico criminale S.
Maria Maddalena di Aversa. Ma dopo un anno di permanenza nel manicomio e una
serie di attenti esami da parte dei medici specialisti, il Capoluongo, con una dichiarazione firmata dal
prof. Annibale Puca, direttore dell’ospedale di Aversa, fu riconosciuto perfettamente sano di mente.
Di parere opposto la perizia dei consulenti di parte
che decretarono in lui uno stato di seminfermità mentale tanto da usufruire del
manicomio invece del carcere. Nel corso del dibattimento per ragioni di
sicurezza il Presidente della Corte di Assise fece perquisire il pubblico per
scongiurare eventuali ritorsioni poiché
nell’aula vi erano numerosi parenti delle vittime (sono state notate
almeno venti persone vestite a lutto) per misura di precauzione, temendosi una
vendetta, e perciò tutti i presenti
furono perquisiti dai carabinieri. Il Capoluongo giunse in cellulare scortato da
due camionette di militi che lo circondarono per impedire gesti di violenza.
Durante l’interrogatorio l’imputato narrò
i fatti secondo la sua versione ripetendo che uccise per vendicarsi
delle calunnie sparse sul suo conto. Il verdetto fu di manicomio criminale.
Accadde a Villa Literno e dintorni nel maggio del 1953
Nessun commento:
Posta un commento