Accadde il 31 gennaio del 1983
NICANDRO IZZO: L’agente di custodia di Calvi Risorta ammazzato
tra la gente mentre usciva dal carcere di Poggioreale
Rivendicazione con
una telefonata alla redazione di un
quotidiano:” Qui Fronte delle carceri Abbiamo giustiziato con un colpo di
pistola calibro 9 in via Nuova Poggioreale il vile appuntato Izzo”, disse una voce maschile. “Se i soprusi e i
maltrattamenti all’interno dell’Istituto di pena non finiranno, il massacro continuerà”.
Sandro Pertini,
Presidente della Repubblica dell’epoca :
“Il tragico agguato nel quale ha perso la sua giovane vita l’appuntato
degli agenti di custodia Nicandro lzzo suscita nel mio animo sentimenti di
dolore e di sdegno”.
Il delitto porta alla
pista dei boss della camorra e del clan dei casalesi. Una esecuzione
rimasta impunita
A Nicandro Izzo, riconosciuto “vittima del dovere” dal
ministro dell’Interno, il Comune di Calvi Risorta ha dedicato una piazza. Il
suo assassino non è mai stato individuato.
“C’è il corpo di un uomo a
terra, correte!”. La telefonata concitata di una persona che chiama i vigili
urbani arrivò poco dopo le nove del mattino. Era di un “mercataro”, di uno di
quelli che vendono la loro mercanzia nelle fiere settimanali dei paesi della
regione. Fu lui ad accorgersi del corpo senza vita di Nicandro Izzo, agente di custodia, in servizio a Napoli, presso il
carcere di Poggioreale. Era la mattina del 31 gennaio del 1983, un lunedì. Il
corpo di Izzo fu rinvenuto tra le bancarelle del mercato che si svolge due
volte a settimana (il lunedì e il venerdì) a poca distanza dall’uscita del
penitenziario di Poggioreale, poco dopo l’incrocio di corso Malta. Era il suo
ultimo giorno di lavoro nel carcere napoletano. Dal primo febbraio avrebbe
dovuto prendere servizio nel carcere di Rebibbia. Nicandro Izzo, trentotto
anni, era a Napoli dal ’76 col grado di appuntato e da due anni lavorava alla “accettazione pacchi” di Poggioreale. Un
posto molto delicato che i detenuti dei clan di camorra tenevano sotto pressione,
perché era da lì che potevano essere introdotte armi per combattere la “guerra” in corso nelle carceri tra
bande rivali. La dinamica dell’agguato non è chiara. Gli inquirenti cercano di
ricostruirla dagli elementi in loro possesso. Nicandro Izzo alle otto e quarantacinque,
dopo aver salutato i colleghi, stava lasciando il penitenziario e in abiti
borghesi si era incamminato per via Poggioreale per poi raggiungere Piazza
Nazionale. Doveva prendere l’autobus e partire alla volta di Santa Maria Capua
Vetere, dove risiedeva con la sua famiglia. All’improvviso venne avvicinato
alle spalle da un giovane che era alla guida di un motorino. Lo sconosciuto
estrasse la pistola, una calibro 7,65 munita di silenziatore, e gli sparò un
colpo alla nuca. L’appuntato Izzo morì sul colpo. Nessun passante udì lo sparo
e l’omicida poté fuggire facendo perdere le tracce. I primi soccorritori si
avvicinarono ad Izzo convinti che fosse stato colto da malore. Solo
successivamente si accorsero che l’uomo era stato raggiunto al capo da un proiettile.
“Quella notte mio marito
prestò l’ultimo turno di servizio alla seconda porta carrata, fino a mezzanotte», racconta Maria Senese, la moglie di Nicandro Izzo, che aveva ventinove anni
quando le uccisero il coniuge, «ma a quell’ora non aveva come tornare a casa.
Dormì nella camerata riservata agli agenti di custodia. Poi, la mattina dopo,
salutò colleghi e superiori e si avviò verso piazza Principe Umberto I, dove
sarebbe salito sul pullman che lo avrebbe portato a Santa Maria Capua Vetere.
Dopo cento metri, o poco più, l’agguato. Quella mattina, come facevo sempre,
accompagnai i miei due bambini a scuola e ritornai a casa. Fu Mario Marrandino a telefonarmi, il
ragioniere di Poggioreale, amico di famiglia. “Maria, ti volevo dire che
Nicandro è caduto e si è fatto male. Ma non ti preoccupare. Niente di grave”.
Ovviamente mi preoccupai, perché se non fosse stato nulla di grave sarebbe
stato mio marito a telefonarmi. Così chiamai mia mamma a Pignataro Maggiore.
Lei mi consigliò di andare a riprendere i bambini a scuola e di portarli a casa
sua. E così poi io sarei andata a Napoli per vedere di cosa si trattava. Così
feci. Non guidavo e quindi speravo di trovare un autobus o qualche amico che mi
avrebbe dato un passaggio. Dopo che presi i bambini, invece, aspettai più di
un’ora alla fermata dell’autobus, ma senza fortuna. I pensieri nella mia testa
cominciavano a camminare. Pensai anche al peggio. Ma mio marito non era capace
di fare male a una mosca. Non mi aveva mai parlato di minacce, di problemi sul
lavoro, niente. Stanca di aspettare un autobus, pensai di recarmi nel vicino
carcere di Santa Maria Capua Vetere. Mi presentai al piantone come la moglie di
Nicandro Izzo, un suo collega. Al che, quel signore, appena sentì il nome di
mio marito, sgranò gli occhi e mi accompagnò immediatamente dal direttore del
carcere. Cominciai ad andare sempre più in ansia. Mi fecero accomodare. I
bambini li portò via un altro agente di custodia e il direttore, in risposta
alle mie domande, mi disse: “Sì, signora, abbiamo saputo che suo marito è
caduto, ma nulla di grave”. Nessuno se la sentiva di dirmi che lo avevano
ucciso. Mi misero un’auto a disposizione che prima mi accompagnò a casa di mia
mamma, dove lasciai i bambini, e poi di corsa a Napoli. E lì il direttore del
carcere di Poggioreale mi disse che l’avevano ucciso e che il corpo era stato
portato all’istituto di medicina legale per l’autopsia. Potevo vederlo il
giorno dopo”.
Subito dopo l’omicidio,
all’interno del carcere scattarono provvedimenti restrittivi nei confronti dei
detenuti. Vennero sospesi i colloqui e le visite dei familiari dei detenuti. Si
cercava una pista per capire il movente di un omicidio che per la sesta volta
in due anni vedeva come vittime agenti di custodia e dirigenti del carcere di
Poggioreale. Il primo a essere ucciso fu il vicedirettore del penitenziario Giuseppe Salvia (il 14 aprile 1981).
Poi toccò agli agenti Agostino Battaglia
(5 giugno 1981), Alfredo Paragnano
(13 febbraio 1982), Antimo Graziano
(14 settembre 1982) e Gennaro De Angelis
(15 ottobre 1982).
In serata arrivò una
rivendicazione telefonica dell’agguato a Nicandro Izzo. Uno sconosciuto telefonò
alla redazione napoletana del quotidiano “Il
Mattino”. L’anonimo interlocutore parlava a nome di un sedicente “Fronte delle carceri”: “Abbiamo
giustiziato con un colpo di pistola calibro 9 in via Nuova Poggioreale il vile
appuntato Izzo”, dice una voce maschile. “Se i soprusi e i maltrattamenti
all’interno dell’Istituto di pena non finiranno, il massacro continuerà”. Una
rivendicazione poco attendibile, perché Izzo era stato ucciso con una pistola
calibro 7,65. Nel carcere di Poggioreale erano state trovate pistole, coltelli,
stupefacenti ed erano stati denunciati anche episodi di pestaggi da parte delle
guardie ai danni di detenuti.
Nicandro Izzo era il terzo di
cinque figli. Era nato a Calvi Risorta il primo dicembre 1944 da Antonio e da Carmela Sotis. Si era arruolato giovanissimo nel corpo degli agenti
di custodia. La sua prima destinazione fu Livorno, dopo il corso a Portici.
“Dopo sette mesi di fidanzamento”, racconta ancora la moglie Maria Senese, “ci
sposammo. Lui era in servizio a La Spezia e veniva ogni sei o sette mesi. Non
era come adesso. Eravamo una coppia felice. Mi diceva sempre che ero una moglie
d’oro. Poi nacquero Orsola e Antonio. E la nostra casa era sempre
piena di gioia. Dopo il matrimonio abbiamo vissuto dieci anni assieme. I
bambini, quando l’hanno ammazzato, avevano sette e cinque anni. E stata dura
crescerli. All’inizio ho fatto di tutto per non far capire che il papà era
morto. Dicevo sempre che il papà era fuori e che quando tornava aveva promesso
di portare un bel regalo a tutti e due. Poi un giorno li ho portati al cimitero,
a Pignataro. E gli ho fatto vedere dov’era sepolto il padre. Non ce la facevo
più a mentire. E il più piccolo mi diceva sempre: “E che ci fa qui papà, perché
non se ne viene a casa?”. Quante notti insonni e quante lacrime ho versato. Ci
sono stati momenti in cui mi sono sentita persa. Ho lasciato la casa di Santa
Maria Capua Vetere. Troppi ricordi. Non riuscivo più a starci, e sono andata a
stare con mia mamma. Sono stata male. Non volevo più uscire di casa. Se non era
per mia mamma non ce l’avrei fatta ad uscire dalla depressione. Poi ho riscoperto
la fede. Sono diventata una volontaria. Davo una mano nella mensa della
Caritas. Frequentare la Chiesa mi ha aiutato molto. Ho ritrovato la voglia di
vivere. Però, se avessi avuto tra le mani chi ha ucciso mio marito, chi ha
distrutto la mia famiglia, gli avrei fatto non so che cosa. Una notte ho
sognato Padre Pio. Io piangevo inginocchiata ai suoi piedi e lui mi ha messo
una mano sulla testa e mi ha detto: “Non piangere, perché quelli che hanno
ucciso tuo marito faranno una fine peggiore”. Oggi ho trovato una mia
dimensione della vita. I miei figli lavorano entrambi. Il maschio presso la
presidenza del Consiglio dei Ministri e la ragazza in Questura a Rimini. Ma non
mi sono mai rassegnata alla perdita di mio marito”.
Ai funerali di Nicandro Izzo,
una folla commossa. Nella chiesa della Misericordia, in piazza Umberto a
Pignataro Maggiore, c’erano tantissimi colleghi. Ma c’era anche tutto il paese
ad accompagnarlo al cimitero per l’ultimo saluto. Il presidente della
Repubblica, Sandro Pertini, inviò al
ministro della Giustizia Clelio Darida
il seguente telegramma: “Il tragico agguato nel quale ha perso la sua giovane
vita l’appuntato degli agenti di custodia Nicandro lzzo suscita nel mio animo
sentimenti di dolore e di sdegno. La prego, onorevole ministro, di voler recare
ai familiari del caduto l’espressione di commosso orgoglio dell’intera Nazione.
Al personale tutto dell’amministrazione penitenziaria che in difficili
condizioni continua con coraggio e valore a servire fedelmente lo Stato
giungano i sentimenti di solidarietà e riconoscenza”.
A Nicandro Izzo, riconosciuto
“vittima del dovere” dal ministro dell’Interno, il Comune di Calvi Risorta ha
dedicato una piazza. Il suo assassino non è mai stato individuato.
In
Campania 364 i morti ammazzati nel 1983
La catena dei delitti prosegue con lo
sterminio nel Casertano della famiglia di Vittorio Simeone, “O' comandante”.
Sono sterminati il capoclan, i due giovani figli, due nipoti e tre fratelli.
Quel 1983 sul fronte della
camorra e della delinquenza si aprì con la strage di San Cipriano d’Aversa: tre
giovani vite stroncate, tre cugini uccisi e bruciati all’interno di un’auto in
un macabro rituale. Un gesto di efferatezza e di ferocia, foriero di altre
vendette, di altri delitti. E’ una tragica eredità dell’anno appena concluso
che ha fatto registrare nella cronaca quotidiana dodici mesi di fuoco, di
violenze e di barbarie, una lunga scia di sangue, di cadaveri eccellenti. Il 1982 segnò un record sinistro
e denunciato una logica criminale improntata al
terrore, al simbolismo delle esecuzioni, ad una triste specializzazione di
malvagità. Teste mozzate, cuori strappati dal petto, persone incatenate alle
vetture e bruciate vive, mutilazioni delle mani e degli organi genitali, gente
strappata nel cuore della notte da falsi carabinieri per finire i loro giorni
crivellata da proiettili o in agguati mortali. Un’indicibile disumanità dai
coltelli, ai dichiaramenti, ai duelli e alle sfide regolate dai canoni del
vecchio codice d’onore della “bella
succità riformata”; i camorristi degli Anni Ottanta hanno sostituito il
mitra, le pistole automatiche, il tritolo, la tanica di benzina, una tecnica
imitata da “Cosa nostra”, dalla
mafia e dalla ‘ndrangheta.
In Campania 364 i morti ammazzati nel 1983 con
un aumento in percentuale del 16 per cento. L’elevato numero delle vittime
sgomenta, suscita terrore, sdegno e pietà: dà la misura dell’inquinamento della
convivenza civile, dell’annientamento degli sforzi compiuti per riscattare una
regione colpita da una preoccupante disgregazione sociale, ed economica. Una
lotta cieca e sorda che ha coinvolto non soltanto cutoliani ed anticutoliani,
avversari di mestiere; ma anche magistrati, forze dell’ordine, impegnati ad
arginare il fenomeno camorristico; donne e ragazzi estranei alle faide,
testimoni involontari di qualche esecuzione o semplicemente colpevoli di essere
parenti di qualcuno - raggiunto dalla sentenza di morte del tribunale ombra per
una “infamia” compiuta verso l’organizzazione. E si hanno le “vendette
trasversali”. Una sintesi dei crimini registrati nello scorso anno chiuso
sull'uccisione di Umberto Javarone,
33 anni, uno dei rapitori del prof. Guido
De Martino, figlio del vecchio leader socialista, mette in luce aspetti scottanti,
oscure connessioni tra malavita organizzata e terrorismo politico, come è
avvenuto per il delitto del vicequestore Antonio
Ammaturo e dell’agente di scorta e quando alcuni brigatisti in fuga e
feriti nello scontro a fuoco con i poliziotti sono sottratti alla cattura da
giovani camorristi. Altre aberranti
conferme sulla virulenza del fenomeno camorristico vengono dal turbolento
carcere di Poggioreale, tanto sconvolto da episodi di brutalità, eccidi,
sgozzamenti, trasformatosi in una sede della “S.p.A. Omicidi” della malavita
organizzata. Dal chiuso delle celle si impartiscono punizioni mortali, si
dirigono i traffici della droga, si guida un piccolo esercito di luogotenenti
fedelissimi e di gregari per il racket delle estorsioni, si infittiscono i collegamenti
con personaggi al di sopra di ogni sospetto per l’impiego dell’imponente
movimento di denaro investito in vere holding finanziarie. La catena dei delitti prosegue con lo
sterminio nel Casertano della famiglia di Vittorio
Simeone, “O' comandante”. Sono sterminati il capoclan, i due giovani figli,
due nipoti e tre fratelli. Le vittime sono legate a Nuova Famiglia in cui
confluiscono vari clan dell’entroterra napoletano, del casertano e del
Salernitano.
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