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domenica 29 marzo 2015

CONTINUA IL NOSTRO VIAGGIO ATTRAVERSO I PIU' EFFERATI DELITTI DI TERRA DI LAVORO





Accadde il 7 settembre del 1947 a S. Cipriano d’Aversa

UN FEROCE DELITTO PER IL FURTO DI UNA PIGNA D’UVA

Pasquale Di Donato uccise in un agguato Antonio Paolella  che riteneva avesse fatto sparare al figlio. Vendetta trasversale? Nelle zone dei Mazzoni lo schiaffo rappresentava una caparra di morte. Quando al figlioccio si regalava la pistola e non il Rolex… una usanza per fortuna ora  scomparsa. 

 


Lo schiaffo caparra di morte?

A Casal di Principe o S. Cipriano, nella zona dei Mazzoni, lo  schiaffo è caparra di morte? Sembra proprio di sì e questa storia lo conferma. “Andate in via Michelangelo Diana, a S. Cipriano, è stato ucciso un uomo”. La notizia, giunta ai carabinieri era purtroppo vera e questi recatisi sul posto accertarono che Pasquale De Donato, un possidente del posto di anni 72, aveva poco tempo prima freddato con vari colpi di pistola tale Antonio Paolella,  un  agricoltore, facoltoso, rissoso e più vendicativo del suo assassino. I carabinieri accertarono inoltre che il cadavere era stato rimosso dai familiari e portato nella propria abitazione. Ricercarono subito Pasquale Di Donato (che alcuni testimoni avevano indicato come il probabile assassino) ma lo stesso,  a conferma dei sospetti,  si era già dato alla latitanza. L’esame del cadavere in sede di autopsia rilevò che era stato attinto alla regione dorsale con uscita del proiettile dalla parte anteriore del torace nella zona sternale. I periti settore diagnosticarono che addirittura un proiettile gli aveva spaccato il cuore in due provocando, così, la morte immediata.



Il movente



Nella circostanza fu accertato che  Girolamo Di Donato, figlio di Pasquale, aveva sorpreso il giovane Benito Guida nell’atto di rubare dell’uva in un fondo tenuto in fitto dallo zio di esso,  tale Antonio Paolella,(uva che era di spettanza – a norma di contratto – della proprietà del fondo signora Clorinda Tancredi). Incollerito, perché credeva di essere incolpato, quale autore del furto Girolamo Di Donato – che coltivava un fondo attiguo – aveva redarguito Benito Guida e ne era scaturito un violento litigio nel corso del quale erano volati ceffoni e minacce. Avendo il Guida avuto la peggio Pasquale Di Donato, padre di Girolamo,  si era preoccupato (ben conoscendo i rancori che covavano in zona) di evitare le prevedibili reazioni dell’altra parte ed aveva preso l’iniziativa di una riconciliazione, pregando tale Domenico Diana, di recarsi a casa di Antonio Paolella, zio del Guida, e chiarire la situazione per poter addivenire alla pacificazione. Purtroppo il Paolella aveva risposto che se ne sarebbe parlato il giorno successivo, e il Di Donato, informato dal Diana di tale risposta se ne era allarmato fino al punto di manifestare la preoccupazione che il Paolella avesse in animo di spingere il nipote a sparare nel giorno successivo  al figlio con il quale il Guida aveva litigato.

La preoccupazione del vecchio agricoltore –conoscitore di uomini e usanze della zona dei Mazzoni – si era avverata. Il giorno successivo, infatti, la mattina del 7 settembre del 1947, - come il Pasquale Di Donato aveva previsto – il figlio  Girolamo Di Donato, mentre si trovava sul suo fondo, intento a raccogliere noci, era stato fatto segno a tre colpi di pistola,  fortunatamente andati a vuoto,  esplosigli contro da Benito Guida.    
La vendetta  
Quanto era accaduto aveva fatto nascere un proposito di vendetta nell’animo di Pasquale Di Donato - fermamente convinto – naturalmente che il giovane Guida avesse sparato per istigazione dello zio Antonio Paolella, appunto, per attuare la sua vendetta. La mattina del successivo giorno 8 settembre,  Pasquale Di Donato,  si era appostato all’imboccatura del vicolo in cui abitava,  in attesa che Antonio Paolella passasse – come faceva di solito per recarsi ogni mattina in campagna – ed infatti verso le ore 7 il bersaglio comparve. Appena Antonio Paolella gli era passato davanti, egli si era tenuto dietro di qualche passo –e senza proferire parola gli aveva esploso contro due colpi di pistola da una distanza di circa 3 metri ferendolo mortalmente. Naturalmente, subito dopo il delitto, si era reso latitante. Un classico! Il tempo della latitanza, spesso, però, non serve per sfuggire alla giustizia… ma per preparare la propria difesa. E così fu! Dopo 3 giorni dal delitto il Di Donato si costituì ai carabinieri e fu tratto in arresto. Interrogato dal magistrato inquirente, nel carcere di S. Francesco a Santa Maria Capua Vetere, dichiarò di aver sparato contro il Paolella perché questi lo aveva provocato con parole offensive e bestemmie all’indirizzo dei morti per non aver risposto al suo saluto quando gli era passato davanti. Una tesi concordata evidentemente con il proprio difensore per attenuare le responsabilità del suo proditorio assassinio. Precisò, inoltre, che i suoi congiunti – cioè moglie ed i figli Girolamo e Paolo,  non erano stati informati di quanto egli aveva in animo fare e che egli aveva ucciso il Paolella perché –conoscendone il carattere violento – temeva che costui facesse uccidere suo figlio Girolamo. Tuttavia le successive indagini esclusero che i figli avessero partecipato alla esecuzione del delitto. I carabinieri infatti denunciarono all’Autorità Giudiziaria  soltanto il Pasquale Di Donato,  per omicidio volontario e Benito Guida per tentato omicidio nei confronti del figlio dell’assassino.

Ma spesso, come in questo caso, la voce popolare indicava un movente diverso e coinvolgeva anche i due figli nella preparazione ed esecuzione del delitto. Gli inquirenti richiesero ai carabinieri un approfondimento delle indagini e gli stessi dopo un certo periodo di tempo relazionarono. “Nonostante le più attive indagini, non è risultato, nemmeno in base a voci correnti nel pubblico, che i figli del Di Donato fossero coinvolti nel delitto di omicidio e che è da escludere che costoro avessero potuto istigare il padre a commettere l’omicidio per la considerazione che il padre, essendo di età avanzata, e perciò prossimo a morire, non avrebbe potuto scontare un lungo periodo di detenzione laddove essi, ancora giovani, avrebbero dovuto scontare l’intera pena.”
Quanto a Girolamo Di Donato i carabinieri, avevano riferito   che pur essendo risultato fin dalle prime indagini che egli si trovava a circa 200 metri di distanza dal luogo in cui era stato ucciso il Paolella nei momenti il padre aveva sparato, non era da escludersi che egli avesse indotto il padre ad uccidere dato che unicamente ad esso Girolamo Di donato si riferiva la causale dell’omicidio, costituita dalle offese che gli aveva fatto Benito Guida. Riferirono, infine, che tanto Girolamo che il fratello Paolo si erano resi irreperibili subito dopo la consumazione dell’omicidio. Dando così ad interpretare che il delitto sarebbe  stato concertato dall’intera famiglia di Pasquale Di Donato.
Da  un ulteriore approfondimento investigativo, invece, vennero fuori altri interessanti particolari. Si accertò, infatti, che la mattina del 7 settembre, dopo che Benito Guida aveva esploso i tre colpi di pistola contro Girolamo Di Donato, la madre di costui, Rosa Miele (moglie dell’assassino) si era recata a fare vive rimostranze nella casa di Antonio Paolella, zio del Guida e aveva pronunziato, all’atto di allontanarsi la frase:” Compare Antonio, qua non ne viene bene”,  che poteva considerarsi, secondo una restrittiva interpretazione degli inquirenti, come un preannunzio del delitto di omicidio commesso nel giorno successivo dal marito di lei. Si appurò, inoltre - secondo la dichiarazione di tale Gennaro De Laurentis -  che Paolo De Donato,  (figlio dell’omicida), verso le 5,30 del giorno 8 settembre era stato visto mentre tornava,  armato di fucile, dalla campagna e si dirigeva verso la propria abitazione. I carabinieri ipotizzarono – ma ciò poi fu smentito dalle risultanze processuali – che Paolo Di Donato si fosse recato in campagna per sincerarsi se il Paolella vi fosse o non andato prima di lui e una volta assicuratosi che non vi era, avrebbe avvisato il padre che a sua volta poi si sarebbe appostato nel vicolo e commesso il delitto.

La via della follia come difesa
 Secondo gli inquirenti, quindi, il Di Donato agì per uccidere e premeditò il delitto  attuandolo freddamente, con  un proposito   che egli aveva sicuramente maturato fin dal 7 settembre. Ciò  risulta dalla testimonianza  di Domenico Diana; la cui veridicità è rivelata dalla obiettività con la quale egli ha riferito circostanze sfavorevoli, ora al  Di Donato e ora al Paolella ed ora al Benito Guida – e risulta, infine, che Pasquale Di Donato essendo fermamente convinto che Benito Guida aveva sparato per istigazione della zio Antonio Paolella contro il figlio Girolamo non esitò a dichiarare che Antonio Paolella “meritava una buona lezione, appunto, che esso Di Donato gli diede, la mattina del giorno successivo uccidendolo”.

Per Benito Guida, come in ogni processo, quando non vi sono motivi validi da addurre,  si cerca la  cosiddetta “terza via” quella della follia. Gli avvocati tentarono di farlo passare per pazzo e di evidenziare  un gesto isolato e non suggerito dalla vittima. Ma una perizia - ordinata dal Giudice Istruttore  – diagnosticò la sua capacita “di intendere e  di volere”.

Spiegarono i periti – “non si può parlare di incapacità laddove il soggetto ha ammesso formalmente di aver esploso ben tre colpi di pistola all’indirizzo del Girolamo Di Donato (circostanze di tempo e di luogo riferite dallo stesso Di Donato). Vorrebbe far credere, però, che egli li esplose in aria e ciò al solo scopo di intimorire il Di Donato, il quale, invece, nel vederlo arrivare nel suo fondo in località “Fossalevole”, aveva abbozzato la mossa di prendere un fucile che teneva a portata di mano, poggiato al tronco di un albero, per servirsene contro di lui. Confermò il Girolamo Di Donato che i tre colpi furono esplosi dal Guida contro di lui senza che lui avesse minimamente provocato il Guida e che lo stesso desistette dal reiterare i colpi perché lui gridando al primo colpo aveva detto: ”Madonna mia mi ha ucciso”.
Due testimoni, tuttavia, Raffele Diana e Adelaide Basile,  dichiararono che il Guida aveva sparato in aria. Ma su queste deposizioni i giudici dissero che si trattava di “due testimoni falsi e compiacenti”, i quali caddero in numerose  contraddizione,  tra l’altro, non videro materialmente se il Guida avesse sparato in aria o al Di Donato. Addirittura non seppero spiegare se l’arma era una pistola o un fucile. Certo è che il Guida portava rancore per essere stato il giorno precedente schiaffeggiato dal Di Donato. Questi, però aveva ragione di ribellarsi perché era stato accusato del furto di uva già in precedenza, uva che invece aveva rubato sempre il Guida.  


  

IL PROCESSO


La condanna definitiva, dopo i tre gradi di giudizio fu per  Pasquale Di Donato, con la concessione della provocazione a 14 anni di reclusione.  Mentre il Guida venne condannato – per tentate lesioni – soltanto a sei mesi.


Furono impegnati gli avvocati:  Michele Crispo, Pasquale De Gennaro, Ciro Maffuccini e Giuseppe Garofalo. Alla parte civile il prof. Alberto Martucci
    

Prof. Avv. Alberto Martucci 

Chiusa l’istruttoria preliminare gli accusati Pasquale Di Donato, di anni 72; Paolo Di Donato, di anni 34 anni; Girolamo Di Donato,  di anni 37;  Benito Guida, di anni 17; il primo, accusato di omicidio volontario aggravato mentre il secondo e terzo furono  accusati di concorso in  omicidio volontario in danno di Antonio Paolella con colpi di pistola. Il Guida con premeditazione al fine di ucciderlo esplosi 3 colpi di pistola contro Girolamo Di Donato  in S. Cipriano d’Aversa il 7 settembre 1947, tutti furono  rinviati alò giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere.   Alla difesa degli imputati si schierarono gli avvocati: Michele Crispo, Pasquale De Gennaro, Ciro Maffuccini e Giuseppe Garofalo. Gli interessi della famiglia della vittima, in persona della vedova Maria Michela Noviello, furono affidati al prof. Alberto Martucci.   
Nonostante le insistenza degli avvocati difensori della parte civile che propendevano per la condanna anche dei figli dell’omicida – già in sede di rinvio a  giudizio ai due fu notificato un ordine di comparizione e non un ordine di cattura – così come avevano prospettato anche i carabinieri. Fu emesso invece mandato di cattura contro Benito Guida che fu arrestato il giorno dopo il delitto. A dibattimento la situazione era la seguente: Pasquale Di Donato era stato rinviato a giudizio per omicidio volontario, mentre i due figli Girolamo e Paolo erano stati assolti per insufficienza di prove dal concorso in omicidio. Per Guida il reato era stato derubricato da tentato omicidio a tentato lesioni con armi.
Avv. Giuseppe Garofalo 

I difensori dell’imputato si  battettero per la esclusione dell’aggravante della premeditazione per l’omicidio e per i due figli che fossero prosciolti con la più ampia formula e non con quella dubitativa. La parte civile – invece – attraverso il prof. Avv. Alberto Martucci - insisteva per la condanna anche dei due figli del Di Donato.
I difensori di Benito Guida,  addirittura, avevano avanzato una richiesta di completa esclusione del loro assistito “perché il fatto non costituisce reato”. La pubblica accusa, invece, affermava che  Pasquale Di Donato non potendo fare a meno di confessarsi autore dell’omicidio ( perchè le prove acquisite,  sin dalle prime indagini conclamavano la sua responsabilità) ha tentato nei suoi interrogatori di far apparire che abbia agito in stato di provocazione. Anzi – tuonò il pubblico ministero – “egli ha tentato addirittura di dare ad intendere di aver sparato nella opinione che il Paolella volesse assalirlo;  opinione questa che era una evidente ed interessata creazione della sua fantasia perché anche a voler accettare integralmente tutto ciò che esso Di Donato aveva esposto nella sua narrazione, nel comportamento del Paolella non vi era stato nulla che potesse costituire manifestazione di propositi aggressivi.

A riprova di ciò il pubblico ministero fece deporre numerosi testi: Paolo Capasso, Antonietta Venosa, Bianca Bodin de Chateland,  i quali  confermarono che il Paolella non aveva provocato il Di Donato. Il pubblico ministero,  nel chiedere la condanna dell’imputato disse testualmente: “E’ stato apoditticamente accertato invece – che Pasquale Di Donato lo attendeva all’imbocco del vicolo (come i bravi attendevano Don Abbondio)e quando il Paolella gli passò davanti e proseguì pacificamente per la sua strada – senza sospettare minimamente,  che la morte fosse in agguato contro di lui- seguì il Paolella per alcuni passi e gli sparò consecutivamente i due colpi di pistola alle spalle e da una distanza non superiore ai 2 tre metri abbattendolo spietatamente: né aggressione né provocazione”.

 Nel corso del dibattimento – ai fini della esclusione dei due figli alla partecipazione  del delitto – si accertò che Paolo Di Donato  era a lavoro a Napoli presso la ditta dei Fratelli Caserta e quindi non sul posto del delitto. La condanna definitiva, dopo i tre gradi di giudizio fu per  Pasquale Di Donato, con la concessione della provocazione a 14 anni di reclusione. Mentre il Guida venne condannato – per tentate lesioni – soltanto a sei mesi.

    

       
 
  




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