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lunedì 16 marzo 2015




Accadde a Mondragone il l’Otto agosto del 1949
UN DELITTO PER IL TESTAMENTO INIQUO

Giuseppe Taglialatela  uccise  con sei colpi di pistola il nipote Giuseppe Aversario perché  riteneva che avesse influenzato il padre nelle decisioni testamentarie.




 Il fatto

Quel giorno, l’otto agosto del 1949, la contadina Margherita Palumbo, come ogni giorno, assieme ai nipoti Giuseppe e Giovanni Aversario, con un carretto agricolo,  trainato da un asino di loro proprietà, si recavano in agro di Mondragone,  su un fondo di proprietà  della Palumbo  in contrada Pottiglia per raccogliere e trasportare a casa cime di granturco secche ( messe qualche giorno prima al sole su alcuni teli ).  Secondo una prima ricostruzione  del delitto - fatta dai carabinieri -  mentre la Palumbo, lontana dagli altri raccoglieva per terra le cime di granturco, i fratelli Aversario caricavano sul carretto i fascetti di semi – allorquando e proditoriamente  - si avvicinò a loro il cugino Giuseppe Taglialatela, 35 anni all’epoca dei fatti,  che esclamando all’indirizzo di Giuseppe Aversario disse: ”Voltatati da questa parte”, ma nello stesso istante – non gli diede neppure il tempo di voltarsi – sparò tre colpi a ripetizione con la sua pistola. Giuseppe Aversario,  spinto dagli spari,  cadde a terra supino. Era  morto. Intanto il fratello minore Giovanni, sotto shock,  alla vista dei colpi sparati dal cugino incominciò a gridare invocando soccorso ma il cugino con la pistola in pugno –  come si dice in questo caso,  ancora fumante, gli ingiunse di tacere e poi si avviò a passi svelti verso l’ergine del torrente Savone, montò su una bicicletta  e si allontanò verso il cantiere Mazzafarro.
Nel frangente, Giovanni Aversario corse ad avvertire la zia materna Maria Palumbo, che stava lavorando,  come detto,  a circa 200 metri di distanza dal luogo ove era avvenuta la sparatoria. La donna, però,  non aveva sentito le detonazioni degli spari perché – come è noto – in aperta campagna i rumori  si disperdono e vengono ovattati, ma, aveva notato il proprio figlio Giuseppe che si allontanava velocemente in bicicletta.
Invece, sul posto accorse il contadino Francesco Rota, che lavorava in vicinanza  e che aveva sentito sia gli spari che le grida di invocazione di soccorso del giovane. Fu lo stesso Rota, pregato dal giovane,  a correre per avvertire i carabinieri che il fratello Giuseppe era stato ammazzato dal cugino Giuseppe Taglialatela.
Sulla scena del crimine


Il Rota, infatti, corse di filato in caserma e riferì dell’accaduto ed una pattuglia di  carabinieri si recò immediatamente sul posto per i rilievi di rito. Giunti sul luogo i rappresentanti della Fedelissima constatarono che giaceva supino il cadavere di Giuseppe Aversario che dall’apparenza sembrava non aver subito ferite. I testimoni oculari, prontamente interrogati -  confermarono, per sommi capi,  quanto era stato già riferito, ma ai carabinieri premeva accertare i motivi che avevano spinto  Giuseppe  Taglialatela ad uccidere il cugino. Un primo movente apparve il dissidio sorto perché la vittima si era fidanzato con una sorella dell’assassino a nome Margherita  Taglialatela, dopo che era andato a monte un altro lungo fidanzamento con una sorella della moglie dello stesso. Un movente alternativo, secondo gli inquirenti – poteva essere stato il fatto che il padre dell’assassino, Pasquale Taglialatela, ricoverato di urgenza,  qualche mese prima del delitto, presso l’ospedale di Formia, in fin di vita  aveva fatto testamento assegnando, però, qualche pezzo di terreno e qualche vano in più agli altri figli tralasciando volontariamente i figlio Giuseppe che, già da tempo per la sua vita sregolata ( con donne e giochi), aveva dato fondo a varie proprietà del padre. Da quel momento Giuseppe Taglialatela, aveva covato un sordo rancore nei confronti della madre,  delle sorelle e del fidanzato di Margherita ( la vittima appunto ), si era chiuso in un incomprensibile mutismo ed aveva addirittura tolto il saluto a tutti.
In effetti,  Giuseppe Taglialatela – come poi accertarono i carabinieri – avrebbe preferito che suo cugino  Giuseppe Aversario avesse sposato la sorella della moglie e non la propria sorella Margherita.

Sulla scena del delitto si erano anche recati – assieme ai carabinieri –  il Pretore di Carinola ed il perito settore Dr. Saverio Stefanelli. Il  medico constatò che “il cadavere di Giuseppe Aversario era giacente a terra supino, presso un carretto agricolo trainato da un asino ( testimone oculare del delitto! ) che presentava una ferita di arma da fuoco con forame di entrata alla regione del meniscolo sinistro e foro di uscita alla base del pene, alla regione posteriore e emitorace sinistro con uscita pettorale, all’altezza dell’ascella, e altre  ferite di entrata e di uscita al braccio. Nel referto il medico aveva anche descritto le condizioni psichiche (trovato gravemente scosso nel sistema nervoso )  del testimone oculare il giovane Giovanni, fratello della vittima.  

Intanto i carabinieri aveva denunciato il Taglialatela per omicidio  volontario aggravato che, però, si era già dato alla latitanza. La successiva autopsia del cadavere accertò che la vittima aveva avuto il cuore spaccato per metà da una pallottola e che era colpito dalla micidiale arma a distanza ravvicinata e dal basso verso l’alto. La vittima, infatti, era sul carretto e l’assassino per terra. Dopo alcuni giorni – dopo essersi evidentemente consigliato con i propri legali l’assassino si costituì nella caserma dei carabinieri. Interrogato diede la sua versione dei fatti. Disse che il cugino l’aveva provocato ingiungendogli arrogantemente di uscire dal fondo,  dove,  peraltro,  lui era comproprietario. Che la vittima l’aveva minacciato anche con una forca ( tridente ) dicendo: “Ti faccio vedere io se te ne vai!”. Si giustificava, inoltre, per il rancore che egli nutriva nei confronti del cugino anche per la circostanza che aveva appreso sul fatto che la vittima aveva accompagnato presso il notaio  Valentino Gramegna di Sessa Aurunca,    il proprio genitore che aveva testato a favore della sorella  Margherita sua fidanzata. Negò di aver minacciato con la pistola il Giovanni. Tutte circostanze che – come vedremmo - nel corso del dibattimento furono smentite.
Furono sentiti moltissimi testimoni. Maria Palumbo, madre dell’assassino; Margherita Taglialatela, sorella e Francesco Rota, Giovanni Aversario, Giuseppina Correggia, Assunta Rota, Rocco Rota,  e Antonio Sorrentino, i quali in buona sostanza, confermarono la veridicità di quanto accertato dai carabinieri della Squadra Giudiziaria: Brig. Vincenzo Latella e  carabinieri Domenico Timpani e Vincenzo Terracciano. Venne anche sentito il prof. Nicola Stefanelli in qualità di conciliatore  che si era occupato della divisione di alcuni terreni della famiglia Taglialatela. La madre dell’ucciso,  in particolare, Belardina Palumbo – ignara delle circostanze del tragico episodio – confermò che il cognato Pasquale Taglialatela aveva lasciato alla figlia Margherita “una piccola parte in più dell’eredità”,  il che aveva provocato nel figlio Giuseppe un certo risentimento contro essa madre e sorelle.
Furono confermate anche le minacce fatte dell’assassino al giovane cugino: ”Non gridare e taci altrimenti ti uccido”. Questa frase determinò l’imputazione oltre che di omicidio volontario aggravato anche da violenza privata aggravata e dal porto abusivo di arma.  dalla Il Dr. Mario Fusco, incaricato dai magistrati inquirenti  certificò lo stato di shock del giovane  Giovanni Aversario che era stato ignaro testimone dell’efferato delitto. 
Non vi è dubbio – scrissero i giudici della sezione istruttoria nella loro richiesta di rinvio a giudizio,  per omicidio volontario,  doppiamente aggravato dai motivi futili e dalla premeditazione ( stessa richiesta era stata avanzata dalla pubblica accusa con il deposito della requisitoria scritta del pubblico ministero) della volontà omicida dell’imputato il quale approfittò che l’Aversario gli voltasse le spalle per colpirlo proditoriamente,  che rappresentava un  bersaglio facile da colpire, se  usò un’arma micidiale,  se sparò i colpi da distanza ravvicinata e li reiterò: uno, due,  tre! Finchè non vide precipitare al suolo la vittima designata. La quale vittima – conclusero i giudici – e questo rende più obbrobrioso il delittoera del suo stesso sangue”. 



     

La condanna fu di anni 22 di reclusione. Il P.M. ne aveva chiesto 26. In Appello e Cassazione (con esclusione delle aggravanti) fu ridotta a 18 anni.
Si impegnarono gli avvocati Arturo Tucci, Ciro Maffuccini e nei processi di Appello e Cassazione,  Enrico Altavilla e Giovanni Leone.



IL PROCESSO
Giuseppe Taglialatela, rinviato dalla sezione istruttoria ( una sorta di Gup di oggi )  a giudizio per omicidio volontario aggravato,  il relativo   processo si celebrò il 10 aprile del 1954, innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere:  Presidente Paolo De Lisi, giudice a latere Victor Ugo De Donato, rappresentante della pubblica accusa P.M. Pasquale Allegretti.  L’imputato,  reo confesso,  ammise di aver sparato tre colpi e tutti i testimoni confermarono al versione dei fatti. Fu smentita la circostanza delle minacce con la forca addotta dall’imputato.   Il teste Francesco Rota,  in particolare, affermò che lui si trovava a poca distanza dal luogo del delitto e sul posto non rinvenne alcun tridente né vi fu scambio di minacce o di parole prima delle tre detonazioni. Né i carabinieri ed il Pretore di Carinola,  arrivati sul posto subito  dopo il delitto,  rinvennero l’attrezzo di cui parlava l’imputato.    

La sentenza,  dopo la requisitoria della pubblica accusa,  con la richiesta di anni 26 di reclusione e le arringhe degli avvocati Arturo Tucci e Ciro Maffuccini ( in appello subentrarono Enrico Altavilla e Giovanni Leone) fu di condanna ad anni 18 di reclusione.   “Motivi futili e di puntiglio - scrissero i giudice nella sentenza di condanna – che stavano a caratterizzare la efferatezza del delitto e la brutale malvagità  dell’ autore stesso. L’assalto del Taglialatela – spiegarono i magistrati  nella loro sentenza – fu improvviso e proditorio  e nessuna minaccia fu fatta dalla vittima né prima né recente”.
Nella ricerca del movente – che pur vi deve essere,  perché nessun delitto – a meno che non germinato da mente malata – viene consumato  senza motivo – i giudici individuarono il rancore accumulatosi nel periodo in cui la vittima era fidanzato con la sorella dell’imputato, rompendo  nello stesso momento,  il fidanzamento con la cognata (sorella della moglie) aggravato dalla circostanza emersa che la vittima aveva accompagnato il vecchio genitore dell’imputato presso il notaio Valentino Gramegna,  in  Sessa Aurunca,  per farle effettuare un lascito testamentario a favore della figlia Margherita all’epoca sua fidanzata.
Questa causale lontana e così inconsistente – scrissero i giudici nella loro sentenza di condanna – così sproporzionata al raccapricciante crimine commesso – sta a dimostrare fino all’evidenza due cose: 1°- che il Taglialatela meditò a lungo sul delitto da consumare; 2°- Senza che l’Aversario gli desse la minima occasione e l’altro che fu spinto al delitto per motivi assolutamente futili rivelatori della brutalità del suo animo.”. Il che giuridicamente si traduce negli artt. 577, n° 3 e 61 n°1 del codice penale: omicidio volontario doppiamente aggravato dai futili motivi e dalla premeditazione. La condanna fu di anni 22 di reclusione. Il P.M. ne aveva chiesto 26. In Appello e Cassazione (con esclusione delle aggravanti) fu ridotta a 18 anni.   

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