Accadde a Mondragone il l’Otto agosto del 1949
UN DELITTO PER IL TESTAMENTO INIQUO
Giuseppe
Taglialatela uccise con sei colpi di pistola il nipote Giuseppe
Aversario perché riteneva che avesse
influenzato il padre nelle decisioni testamentarie.
Il fatto
Quel giorno, l’otto agosto del
1949, la contadina Margherita Palumbo,
come ogni giorno, assieme ai nipoti Giuseppe
e Giovanni Aversario, con un
carretto agricolo, trainato da un asino
di loro proprietà, si recavano in agro di Mondragone, su un fondo di proprietà della Palumbo
in contrada Pottiglia per raccogliere e trasportare a casa cime di
granturco secche ( messe qualche giorno prima al sole su alcuni teli ). Secondo una prima ricostruzione del delitto - fatta dai carabinieri - mentre la Palumbo, lontana dagli altri raccoglieva
per terra le cime di granturco, i fratelli Aversario caricavano sul carretto i
fascetti di semi – allorquando e proditoriamente - si avvicinò a loro il cugino Giuseppe Taglialatela, 35 anni
all’epoca dei fatti, che esclamando all’indirizzo di Giuseppe Aversario disse: ”Voltatati da questa parte”, ma nello
stesso istante – non gli diede neppure il tempo di voltarsi – sparò tre colpi a
ripetizione con la sua pistola. Giuseppe Aversario, spinto dagli spari, cadde a terra supino. Era morto. Intanto il fratello minore Giovanni,
sotto shock, alla vista dei
colpi sparati dal cugino incominciò a gridare invocando soccorso ma il cugino
con la pistola in pugno – come si dice
in questo caso, ancora fumante, gli
ingiunse di tacere e poi si avviò a passi svelti verso l’ergine del torrente Savone,
montò su una bicicletta e si allontanò
verso il cantiere Mazzafarro.
Nel frangente, Giovanni Aversario corse ad avvertire
la zia materna Maria Palumbo, che
stava lavorando, come detto, a circa 200 metri di distanza dal luogo ove
era avvenuta la sparatoria. La donna, però,
non aveva sentito le detonazioni degli spari perché – come è noto – in
aperta campagna i rumori si disperdono e
vengono ovattati, ma, aveva notato il proprio figlio Giuseppe che si
allontanava velocemente in bicicletta.
Invece, sul posto accorse il
contadino Francesco Rota, che
lavorava in vicinanza e che aveva
sentito sia gli spari che le grida di invocazione di soccorso del giovane. Fu
lo stesso Rota, pregato dal giovane, a
correre per avvertire i carabinieri che il fratello Giuseppe era stato
ammazzato dal cugino Giuseppe
Taglialatela.
Sulla
scena del crimine
Il Rota, infatti, corse di
filato in caserma e riferì dell’accaduto ed una pattuglia di carabinieri si recò immediatamente sul posto
per i rilievi di rito. Giunti sul luogo i rappresentanti della Fedelissima
constatarono che giaceva supino il cadavere di Giuseppe Aversario che
dall’apparenza sembrava non aver subito ferite. I testimoni oculari,
prontamente interrogati - confermarono,
per sommi capi, quanto era stato già
riferito, ma ai carabinieri premeva accertare i motivi che avevano spinto Giuseppe
Taglialatela ad uccidere il cugino. Un primo movente apparve il dissidio
sorto perché la vittima si era fidanzato con una sorella dell’assassino a nome Margherita Taglialatela,
dopo che era andato a monte un altro lungo fidanzamento con una sorella della
moglie dello stesso. Un movente alternativo, secondo gli inquirenti – poteva essere stato il fatto che il padre dell’assassino, Pasquale Taglialatela, ricoverato di
urgenza, qualche mese prima del delitto,
presso l’ospedale di Formia, in fin di vita aveva fatto testamento assegnando, però,
qualche pezzo di terreno e qualche vano in più agli altri figli tralasciando
volontariamente i figlio Giuseppe che, già da tempo per la sua vita sregolata (
con donne e giochi), aveva dato fondo a varie proprietà del padre. Da quel
momento Giuseppe Taglialatela, aveva covato un sordo rancore nei confronti
della madre, delle sorelle e del
fidanzato di Margherita ( la vittima appunto ), si era chiuso in un
incomprensibile mutismo ed aveva addirittura tolto il saluto a tutti.
In effetti, Giuseppe
Taglialatela – come poi accertarono i carabinieri – avrebbe preferito che
suo cugino Giuseppe Aversario avesse
sposato la sorella della moglie e non la propria sorella Margherita.
Sulla scena del delitto si
erano anche recati – assieme ai carabinieri – il Pretore di Carinola ed il perito settore
Dr. Saverio Stefanelli. Il medico constatò che “il cadavere di Giuseppe Aversario era giacente a terra supino, presso
un carretto agricolo trainato da un asino ( testimone oculare del delitto!
) che presentava una ferita di arma da
fuoco con forame di entrata alla regione del meniscolo sinistro e foro di
uscita alla base del pene, alla regione posteriore e emitorace sinistro con
uscita pettorale, all’altezza dell’ascella, e altre ferite di entrata e di uscita al braccio. Nel
referto il medico aveva anche descritto le condizioni psichiche (trovato gravemente scosso nel sistema
nervoso ) del testimone oculare il
giovane Giovanni, fratello della vittima.
Intanto i carabinieri aveva
denunciato il Taglialatela per omicidio
volontario aggravato che, però, si era già dato alla latitanza. La
successiva autopsia del cadavere accertò che la vittima aveva avuto il cuore
spaccato per metà da una pallottola e che era colpito dalla micidiale arma a
distanza ravvicinata e dal basso verso l’alto. La vittima, infatti, era sul
carretto e l’assassino per terra. Dopo alcuni giorni – dopo essersi
evidentemente consigliato con i propri legali l’assassino si costituì nella
caserma dei carabinieri. Interrogato diede la sua versione dei fatti. Disse che
il cugino l’aveva provocato ingiungendogli arrogantemente di uscire dal
fondo, dove, peraltro,
lui era comproprietario. Che la vittima l’aveva minacciato anche con una
forca
( tridente ) dicendo: “Ti faccio vedere
io se te ne vai!”. Si giustificava, inoltre, per il rancore che egli
nutriva nei confronti del cugino anche per la circostanza che aveva appreso sul
fatto che la vittima aveva accompagnato presso il notaio Valentino
Gramegna di Sessa Aurunca, il
proprio genitore che aveva testato a favore della sorella Margherita sua fidanzata. Negò di aver
minacciato con la pistola il Giovanni. Tutte circostanze che – come vedremmo -
nel corso del dibattimento furono smentite.
Furono sentiti moltissimi
testimoni. Maria Palumbo, madre dell’assassino;
Margherita Taglialatela, sorella e Francesco Rota, Giovanni Aversario,
Giuseppina Correggia, Assunta Rota, Rocco Rota, e Antonio Sorrentino, i quali in buona sostanza, confermarono la
veridicità di quanto accertato dai carabinieri della Squadra Giudiziaria: Brig.
Vincenzo Latella e carabinieri Domenico Timpani e Vincenzo
Terracciano. Venne anche sentito il prof. Nicola Stefanelli in qualità di conciliatore che si era occupato della divisione di alcuni
terreni della famiglia Taglialatela. La madre dell’ucciso, in particolare, Belardina Palumbo – ignara delle circostanze del tragico episodio –
confermò che il cognato Pasquale Taglialatela aveva lasciato alla figlia
Margherita “una piccola parte in più dell’eredità”, il che aveva provocato nel figlio Giuseppe un
certo risentimento contro essa madre e sorelle.
Furono confermate anche le
minacce fatte dell’assassino al giovane cugino: ”Non gridare e taci altrimenti ti uccido”. Questa frase determinò
l’imputazione oltre che di omicidio volontario aggravato anche da violenza
privata aggravata e dal porto abusivo di arma.
dalla Il Dr. Mario Fusco,
incaricato dai magistrati inquirenti
certificò lo stato di shock del giovane Giovanni Aversario che era
stato ignaro testimone dell’efferato delitto.
“Non vi è dubbio – scrissero i giudici della sezione istruttoria
nella loro richiesta di rinvio a giudizio, per omicidio volontario, doppiamente aggravato dai motivi futili e
dalla premeditazione ( stessa richiesta era stata avanzata dalla pubblica
accusa con il deposito della requisitoria scritta del pubblico ministero) della volontà omicida dell’imputato il quale approfittò che l’Aversario gli voltasse
le spalle per colpirlo proditoriamente,
che rappresentava un bersaglio
facile da colpire, se usò un’arma
micidiale, se sparò i colpi da distanza ravvicinata e li reiterò: uno,
due, tre! Finchè non vide precipitare al
suolo la vittima designata. La quale vittima – conclusero i giudici – e questo rende più obbrobrioso il delitto
– era del suo stesso sangue”.
La
condanna fu di anni 22 di reclusione. Il P.M. ne aveva chiesto 26. In Appello e
Cassazione (con esclusione delle aggravanti) fu ridotta a 18 anni.
Si
impegnarono gli avvocati Arturo Tucci, Ciro Maffuccini e nei processi di
Appello e Cassazione, Enrico Altavilla e
Giovanni Leone.
IL
PROCESSO
Giuseppe
Taglialatela, rinviato dalla sezione istruttoria ( una
sorta di Gup di oggi ) a giudizio per
omicidio volontario aggravato, il
relativo processo si celebrò il 10
aprile del 1954, innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere: Presidente Paolo De Lisi, giudice a latere Victor Ugo De Donato, rappresentante della pubblica accusa P.M. Pasquale Allegretti. L’imputato, reo confesso, ammise di aver sparato tre colpi e tutti i
testimoni confermarono al versione dei fatti. Fu smentita la circostanza delle
minacce con la forca addotta dall’imputato.
Il teste Francesco Rota, in particolare, affermò che lui si trovava a
poca distanza dal luogo del delitto e sul posto non rinvenne alcun tridente né
vi fu scambio di minacce o di parole prima delle tre detonazioni. Né i
carabinieri ed il Pretore di Carinola, arrivati sul posto subito dopo il delitto, rinvennero l’attrezzo di cui parlava
l’imputato.
La sentenza, dopo la requisitoria della pubblica
accusa, con la richiesta di anni 26 di
reclusione e le arringhe degli avvocati Arturo
Tucci e Ciro Maffuccini ( in appello
subentrarono Enrico Altavilla e Giovanni Leone) fu di condanna ad anni
18 di reclusione. “Motivi futili e di puntiglio - scrissero i giudice nella sentenza
di condanna – che stavano a
caratterizzare la efferatezza del delitto e la brutale malvagità dell’ autore stesso. L’assalto del
Taglialatela – spiegarono i magistrati
nella loro sentenza – fu
improvviso e proditorio e nessuna
minaccia fu fatta dalla vittima né prima né recente”.
Nella ricerca del movente –
che pur vi deve essere, perché nessun
delitto – a meno che non germinato da mente malata – viene consumato senza motivo – i giudici individuarono il
rancore accumulatosi nel periodo in cui la vittima era fidanzato con la sorella
dell’imputato, rompendo nello stesso
momento, il fidanzamento con la cognata
(sorella della moglie) aggravato dalla circostanza emersa che la vittima aveva
accompagnato il vecchio genitore dell’imputato presso il notaio Valentino Gramegna, in
Sessa Aurunca, per farle
effettuare un lascito testamentario a favore della figlia Margherita all’epoca
sua fidanzata.
“Questa causale lontana e così inconsistente – scrissero i giudici
nella loro sentenza di condanna – così
sproporzionata al raccapricciante crimine commesso – sta a dimostrare fino
all’evidenza due cose: 1°- che il Taglialatela meditò a lungo sul delitto da
consumare; 2°- Senza che l’Aversario gli desse la minima occasione e l’altro
che fu spinto al delitto per motivi assolutamente futili rivelatori della
brutalità del suo animo.”. Il che giuridicamente si traduce negli artt.
577, n° 3 e 61 n°1 del codice penale: omicidio volontario doppiamente aggravato
dai futili motivi e dalla premeditazione. La condanna fu di anni 22 di reclusione.
Il P.M. ne aveva chiesto 26. In Appello e Cassazione (con esclusione delle
aggravanti) fu ridotta a 18 anni.
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