Accadde
a Maddaloni il 1° ottobre del 1983
VENDETTA TRASVERALE ASSASSINATO IL FRATELLO DEL
GIUDICE IMPOSIMATO
La sentenza di primo
grado per l’omicidio di Franco Imposimato è arrivata dopo diciassette anni.
Sono stati processati e condannati i mandanti
Pippo Calò e Vincenzo Lubrano (morto nel 2007) e gli esecutori materiali,
Antonio Abbate e Raffaele Ligato.
Tutti condannati
all’ergastolo con sentenza definitiva della Cassazione. Lorenzo Nuvoletta, uno dei
mandanti, non è mai stato processato, perché morto prima che venissero riaperte
le indagini.
Una "vendetta
trasversale", frutto di un patto tra Cosa Nostra, Camorra e Banda della
Magliana.
Suo fratello è il
giudice istruttore Ferdinando, impegnato al tempo con indagini sull'omicidio
del boss Domenico Balducci e su una serie di speculazioni edilizie nella
capitale.
IL
RACCONTO DELLA SUPERSTITE
La signora Maria Luisa Rossi, moglie di Francesco Imposimato raccontò: “... era un giorno lavorativo e con mio marito
stavamo uscendo dalla fabbrica. Potevano essere le 17,20. Salimmo nella nostra
Ford Escort di colore verde per andare a prendere i bambini a scuola. A pochi
metri dall’uscita della fabbrica trovammo una macchina parcheggiata in curva
che ci impediva quasi di girare. Mio marito nel fare la manovra di sorpasso
rallentò. La macchina, una Fiat Ritmo, era ferma. Chiunque fosse passato di lì,
doveva per forza rallentare. A quel punto intravidi delle persone. Si avvicinavano
a piedi, di corsa. Di uno ho visto solo le gambe, perché stava davanti alla
macchina. Un altro si è messo dalla parte di mio marito. E stata questione di
attimi. Non ci eravamo resi conto di quello che stava succedendo. In auto con
noi avevamo il nostro barboncino, Puffi che abbaiava come un ossesso. Forse
aveva percepito il pericolo. All’improvviso questi due tizi cominciarono a
sparare. Si sentivano solo colpi di pistola, e tanto fumo che non riuscivamo
più a respirare. Nell’attimo stesso che mi girai per guardare il cane, mio marito
mi chiese: “Ma che sta succedendo?”. Ci incrociammo con gli sguardi. E fu anche
l’ul¬tima volta che ci guardammo negli occhi. Franco venne colpito da undici
colpi di pistola. Morì quasi subito. Nell’autopsia è scruto che morì per shock
emorragico e traumatico. Il killer che era davanti non l’ho visto bene in
faccia. Ma l’altro sì. Era un uomo non molto alto, giovane, grassottello,
piuttosto scuro di pelle, con due rughe che solcavano le guance, con i capelli
di colore nero tirati all’indietro. Venni colpita al petto. Un colpo mi perforò
tutti e due i polmoni. Riuscii appena ad aprire lo sportello, perché in
macchina non respiravo. Ricordo solo che il fumo aveva invaso la Ford Escori.
Non riuscivo a vedere più niente. Aprii lo sportello e caddi a terra svenuta...
non ricordo altro”.
IL
CLAN LUBRANO, I NUVOLETTA e la cupola
della mafia
I due killer della camorra di cui parla Maria Luisa Rossi, sono Raffaele Ligato e Antonio Abbate, appartenenti al clan Lubrano-Nuvoletta di Pignataro
Maggiore. Un clan affiliato a “Cosa nostra” siciliana e fedele alleato dei
Corleonesi di Totò Riina. A chiedere
di eseguire la vendetta trasversale contro Franco
Imposimato e la moglie, fu Pippo
Calò, il “Papa” di Cosa Nostra. Voleva fermare in questo modo le indagini
che Ferdinando Imposimato, giudice a
Roma, stava conducendo sulla morte di Domenico
Balducci, un usuraio romano esponente della banda della Magliana che
operava per conto del “Papa”, allora a capo della famiglia mafiosa nel
quartiere palermitano di Porta Nuova. Il magistrato aveva scoperto che Domenico
Balducci prestava soldi negli ambienti dell’alta borghesia romana dove
bazzicavano anche uomini dei servizi segreti e che era stato ucciso per uno
sgarro nei confronti di Calò. Per questo doveva essere fermato a tutti i costi:
le sue indagini, partite da quel delitto, stavano arrivando al cuore di Cosa
Nostra.
Su Pippo Calò e la banda della
Magliana il giudice Imposimato aveva cominciato a indagare fin da! 1975.
assieme a un altro magistrato, Vittorio
Occorsio, ucciso nel 1976 dopo aver scoperto l’intreccio perverso tra
stragi, eversione nera e massoneria deviata. I due avevano istruito insieme
molti processi importanti di quegli anni, incrociando sulla loro strada qualche
elemento della banda della Magliana, la famigerata banda che prendeva il nome
dal quartiere di Roma in cui aveva la sua base operativa; una specie di supermarket
del crimine, dove andavano a “spendere”
mafiosi, terroristi, persone senza scrupoli, ma anche i colletti bianchi
dell’alta finanza che dovevano regolare qualche conto salato all’interno del
loro mondo.
Della banda facevano parte
uomini come Danilo Abbruciati,
legati alla loggia P2 di Licio Gelli,
alla mafia e ai servizi segreti. La condanna a morte di Ferdinando Imposimato
fu decretata proprio da quelle sue indagini, che compromettevano gli interessi
di Cosa Nostra. L’ordine di fermarlo venne dato alcuni anni prima dei l’agguato
di Maddaloni.
A raccontarlo fu il mafioso Antonio Mancini. La testimonianza è
contenuta nell’ordinanza di rinvio a giudizio datata 13 agosto 1994, contro Maurizio Abatino, altro esponente della
banda della Magliana. Fu Mancini a dire al giudice, Otello Lupacchini, che verso la fine del 1979 o i primi del 1980
ebbe un incontro in un ristorante di Trastevere, “L’antica pesa” o “Checco il carrettiere”, con Danilo Abbruciati, Edoardo Toscano, i fratelli Antonio e Alfio Pellegrinetti, Maurizio Andreucci e Claudio Vannicola. In quell’occasione, mentre si discuteva del
controllo del territorio del Tufello per il traffico di stupefacenti, si parlò
di un attentato al giudice. “Dal discorso si capiva che non si trattava di
un’idea estemporanea - dichiarò Antonio Mancini nella sua deposizione - ; era
evidente, cioè, che erano stati effettuati dei pedinamenti nei confronti del
magistrato e della moglie; che erano stati verificati i luoghi nei quali
l’attentato non avrebbe potuto essere eseguito con successo; si era stabilito
che comunque non si trattava di un obiettivo impossibile, per carenze della sua
difesa nella fase degli spostamenti in auto: il luogo dove l’attentato poteva
essere realizzato era in prossimità del carcere di Rebibbia dove la strada di
accesso all’istituto si restringeva e non vi erano presidi militari di alcun
genere”. “Quando sentimmo il discorso
che si fece a tavola, - è sempre il mafioso Antonio Mancini a parlare - io e
Toscano pensammo che l’attentato dovesse essere una sorta di vendetta per
l’impegno profuso dal magistrato nei processi per sequestri di persona da lui
istruiti e che avevano visto coinvolti i commensali, i quali parlavano del
giudice Imposimato definendolo “quel
cornuto che ci ha portato al processo”. Successivamente, Danilo Abbruciati
mi spiegò che, al di là delle ragioni
personali, aveva ricevuto una richiesta in tal senso “da personaggi legati alla massoneria”, dei quali il giudice
Imposimato aveva toccato gli interessi”.
ALL’OBITORIO
IL SEN. IMPOSIMATO: ”AL SUO POSTO DOVEVO ESSERCI IO”
Il progetto di un attentato a
Ferdinando Imposimato fece capolino anche nel processo a carico di Giulio Andreotti per l’omicidio del giornalista di OP Mino
Pecorelli. Fu il procuratore della Repubblica di Perugia ad accertare che
alla riunione in cui si parlò di uccidere il giudice maddalonese parteciparono
pure due uomini dei servizi segreti militari italiani, che furono poi
incriminati e rinviati a giudizio per favoreggiamento. E lo stesso Ferdinando Imposimato a ricordare la
vicenda: “I due funzionari dei servizi mi
avvicinarono dicendomi che “loro due non c’entravano niente con quella
riunione” e che “evidentemente c’era stato uno scambio di persone da parte di
Mancini”. Erano altri i due uomini dei
servizi che avevano preso parte a quell’incontro in cui venne annunciata la mia
condanna a morte”. “Solo che nessuno si preoccupò mai di stabilire la loro
identità”.
Per anni dell’omicidio di
Franco Imposimato non si seppe nulla. Buio assoluto. Passarono dieci anni prima
di imboccare la pista giusta. A dare le indicazioni necessarie fu il primo
pentito del clan dei casalesi, Carmine
Schiavone, morto proprio in questi giorni per una caduta dal tetto della
sua casa di campagna. Eppure molti
segnali di quanto poteva accadere erano evidenti già prima di quell’11 ottobre
del 1983. Tant’è che a Franco Imposimato
era stata assegnata una scorta. E che il fratello giudice la sera
dell’omicidio, davanti all’obitorio, continuava a ripetere come una cantilena “Al suo posto dovevo esserci io, al suo
posto dovevo esserci io”.
In parlamento ci furono
numerose interrogazioni. Il sottosegretario all’interno, l’onorevole Marino Corder, il 23 ottobre 1983, nel
rispondere alle interrogazioni a nome del governo, diede l’impressione che si
brancolasse nel buio. Non c’era alcuna pista, né sui mandanti, né sugli
esecutori materiali dell’agguato. Lo fece notare l’onorevole Luciano Violante nella replica concessa
agli interroganti. Il deputato del PCI criticò la visione governativa della
camorra campana, considerata poco più che un conglomerato di piccole bande di
malviventi di provincia. Lo stesso Violante alcuni mesi prima aveva lanciato
l’allarme: la camorra era organizzata
come la mafia siciliana; con una struttura piramidale, una cassa comune, una
capacità imprenditoriale ad altissimi livelli, un controllo del territorio
capillare e un vero e proprio esercito di uomini armati, capaci di imporre con
la violenza le loro regole.
Non si sbagliava, tanto più
che il clan Nuvoletta-Lubrano era anche diventato - come si è visto - uno degli
avamposti dei siciliani sul territorio napoletano e casertano. Dagli anni ’60
la mafia siciliana aveva spostato suL litorale Domizio parte dei suoi traffici
per il controllo dei contrabbando di tabacco, dopo che nel 1959 era stato
chiuso il porto franco di Tangeri. E a questo si aggiungeva l’arrivo in
Campania al soggiorno obbligato di diversi uomini d’onore siciliani: da Stefano Bontade a Totò Riina, da Salvatore
Bagarella a Filippo Gioè Imperiale. Lo stesso Antonio Bardellino, capo del clan dei casalesi, fu affiliato a Cosa
Nostra sin dal 1973-’74.
La sentenza di primo grado per
l’omicidio di Franco Imposimato è arrivata dopo diciassette anni. Alla fine
sono stati processati e condannati i mandanti Pippo Calò e Vincenzo
Lubrano (morto nel 2007) e gli esecutori materiali, Antonio Abbate e Raffaele
Ligato. Tutti condannati all’ergastolo con sentenza definitiva della
Cassazione. Lorenzo Nuvoletta, uno
dei mandanti, non è mai stato processato, perché morto prima che venissero
riaperte le indagini.
IL RACCONTO DEI FIGLI GIUSEPPE
E FILIBERTO
“Sì,
racconta uno dei figli - fu proprio una
vendetta trasversale nei confronti di zio Ferdinando.
Ma allora nessuno ci volle credere. Era uno dei primi casi. Ne abbiamo subite
di mortificazioni negli anni. Alla nostra famiglia era stata assegnata per un
certo periodo la scorta. A casa arrivavano telefonate mute a tutte le ore. Poi
sotto casa passavano persone sconosciute, facce che non lasciavano presagire
nulla di buono e che chiedevano a vari negozianti dove abitasse Franco Imposimato. Andarono a chiedere
anche in fabbrica. Mio padre non voleva la scorta perché non riusciva a vivere
in quel modo. Riferì a mio zio delle minacce. Mamma mi ha raccontato due anni
fa che quando papà era minacciato e pedinato, la prima cosa che aveva fatto era
stata quella di rivolgersi ai carabinieri. Non ricordo bene se era un
maresciallo o chi altri, ma questo carabiniere ridendogli in faccia gli disse: “Eh’
vabbuò. Mò vieni tu e dici che sei minacciato. Ma chi ti credi di essere?”.
Mio padre ci rimase male. Molto male. Non s’aspettava di essere preso per un
visionario. Raccontò tutto a mamma. Anche perché quel carabiniere loro lo
conoscevano. Dopo la morte di papà, questo stesso carabiniere, si presentò alla
porta di casa per le indagini. Mia mamma non lo voleva far entrare. Gli
rinfacciò le sue risate di scherno nei confronti di papà. Dovetti essere io a
calmarla mentre continuava a inveire contro di lui. Ma ricordo ancora il
periodo in cui papà aveva la scorta. La macchina dei carabinieri che ci
seguiva, che ci veniva dietro quando andavamo a fare la spesa. La cosa durò
circa quattro mesi. Poi un giorno papà disse: “Ma io non ce la faccio a vivere
così. La scorta non voglio averla. Se mi devono fare qualcosa non voglio la
responsabilità di fare ammazzare anche loro”. Non voleva coinvolgere
altre persone. Era un suo chiodo fisso. Così ci rinunciò. Mamma, poi, negli
anni, ha ripensato molto a questa cosa. E ne ha pianto. Se non avesse
rinunciato alla scorta, continuava a dire, forse ora sarebbe ancora vivo. E
certo chi doveva organizzare l’agguato, quando ha visto che non c’era alcuna
protezione per la mia famiglia, ha capito di avere un compito più facile.
“Mia
madre riconobbe Antonio Abbate
- dice il figlio Giuseppe - uno dei killer che le sparò. Stava sul lato destro della
macchina ed esplose due colpi diretti al torace. Uno di questi fuoriuscì dalla
schiena fratturandole una costola e sfiorandole il cuore di qualche centimetro.
L’altro, invece, rimase conficcato nel braccio sinistro. Quell’attentato
continua a produrre effetti devastanti. Mia madre non ne è mai uscita
psicologicamente, nonostante sia stata particolarmente forte in tutti questi
anni. Era impiegata anche lei nell’ufficio acquisti
della Face Standard, come mio padre.
Le lasciarono lo stesso posto. Adesso la fabbrica ha cambiato nome, si chiama MF distribuzioni. Operai e impiegati di
quella fabbrica ci sono stati molto vicini. Tutti quelli che lavoravano con
mamma e papà erano come una seconda famiglia per noi. Non parliamo poi di zio Ferdinando ( senatore Pc, scrittore, magistrato, regista, ultimamente candidato alla
Presidenza della Repubblica per 5Stelle, un vero lustro per Madaloni N.d.R. ) della moglie, Annamaria Giorgione, una famiglia originaria di Sessa Aurunca. Certo, loro
abitano a Roma, c’è la distanza, ognuno ha i suoi problemi, ma ci sono stati
sempre vicinissimi”.
L’altro
figlio Filiberto annuisce. E anche
lui comincia a riordinare i ricordi: “Man mano che passava il tempo ci
rendevamo conto che era accaduto qualcosa di grave. Anche perché da subito
c’eravamo accorti che nella nostra vita mancava papà e invece era subentrata un
scorta che da Caserta ci accompagnava a Maddaloni. A scuola ci venivano a
prendere persone di famiglia o conoscenti. In seguito fu lo stesso personale
della scuola ad accompagnarci. Ricordo, in particolare, due persone che per
mesi fecero la spola dalla scuola a casa per noi: Salvatore Bucciero e Michele
Santonastaso. Ne nacque una grande riconoscenza, un’amicizia intensa”.
“Quando siamo cresciuti, le difficoltà sono
aumentate. Ci sono stati problemi nella vita di tutti i giorni, accresciuti
dalle difficoltà della vicenda giudiziaria che ci riguardava. Le indagini, il
processo. All’inizio non si sapeva come fossero andate esattamente le cose. Non
si conoscevano né i mandanti né gli esecutori dell’agguato. Ci sono stati anche
tentativi di depistaggio. Si disse di tutto: che erano state le Brigate Rosse. Arrivò una telefonata
all’Ansa di Napoli che rivendicava
l’attentato, perché mio zio si era occupato anche di terrorismo. Poi si parlò
di criminalità, ma non collegata ad alcun filone particolare. Poi, addirittura,
si disse che era stata una vicenda di donne. Un classico, in questi casi. Il
primo a parlare dell’assassinio di nostro padre, fu il pentito del clan dei
casalesi, Carmine Schiavone.
“Per
anni non si è saputo niente su chi erano gli autori dell’agguato, fino a quando
non ne hanno parlato alcuni pentiti - dice Giuseppe
Imposimato - oggi affermato avvocato
penalista - Mi chiedevo sempre: ma chi può essere che ha ucciso mio padre? Che
faccia ha questa gente? Poi li ho incontrati gli assassini di mio padre. E
successo in tribunale durante il processo. E non ho provato alcun sentimento di
odio nei loro confronti. Solo indifferenza. Eravamo lì, perché con mio zio Ferdinando ci siamo costituiti parte
civile. In più io facevo praticantato presso lo studio dell’avvocato Italo Madonna che era anche il nostro
difensore nel processo. Un paio di volte li ho incrociati in aula. Lubrano mi
venne vicino quando capì chi ero. L’avvocato mi diceva: “Qualsiasi cosa ti dicano, stai
calmo, lascia perdere”. Ma è stato Vincenzo
Lubrano ad avvicinarmi con insistenza: “Voi mi dovete credere - mi disse - io
non c’entro niente. Sul bene che voglio a mio figlio che è morto”. Era
accompagnato da un infermiere, per via del suo stato di salute. Mi fece vedere
la foto del figlio e continuò a ripetere: “Mi dovete credere, mi
dovete credere, io non c’entro niente”. Poi maledì Abbate. “Per
colpa di quello - disse - hanno ucciso mio figlio”. Poi ho incontrato anche l’altro che scappò in
Germania, che si presentò a Santa Maria Capua Vetere sulla sedia a rotelle, Raffaele Ligato. Lo ammetto: dopo ho
riflettuto e mi sono detto che in quell’occasione avrei potuto dirgli almeno le
cose che pensavo. Gli avrei voluto dire che nonostante uno come lui si fosse
arricchito, e si permettesse di esercitare violenza su tutto e tutti e finanche
uccidere, in fondo non valeva la pena vivere una vita così”. “Io, invece, le ho maledette quelle persone -
confessa con un filo di rabbia Filiberto
Imposimato - perché alla mia
famiglia hanno rovinato la vita. E, soprattutto, quando penso alla sofferenza
di mia madre, proprio non li perdono”.
Maria
Luisa Rossi è morta il pomeriggio del 5 febbraio 2008,
dopo un ennesimo ricovero in ospedale. Di tumore. Da quel giorno di ottobre
dell’83 non era più guarita. Franco
Imposimato il 19 dicembre di quel 1983 avrebbe compiuto 44 anni. La storia
di Francesco Imposimato è raccontata nel libro di Raffaella Notariale “Segreto
criminale” edito da Newton nel 2010.
Nel 2011 è stato inaugurato a Pignataro
Maggiore il “Polo civico Franco Imposimato”, nel bene confiscato al boss Raffaele Ligato. Il nastro dell’inaugurazione fu tagliato dal
sindaco Raimondo Cuccaro con i figli
di Franco Imposimato (Giuseppe e Filiberto), alla presenza di
varie autorità civili, religiose e militari.
La vicenda di Francesco è anche ricordata nel “Dizionario enciclopedico delle Mafie in Italia” apparso per
Castelvecchi nel 2013. Nell’ottobre 2013,
in occasione dei trent’anni dall’omicidio di Francesco Imposimato il
comune di Maddaloni ha voluto ricordare con diversi eventi la figura di questo
suo illustre cittadino. Tra le iniziative previste figura la presentazione di
un volume dedicato al sindacalista e l’organizzazione di una mostra artistica.
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