Accadde
a Teano il 15 ottobre del 1969
UCCISE IL MARITO CON UN VELENO NELLA PASTA E FAGIOLI
Accusò l’amante che respinse l’addebito. La
Corte di Assise condannò la donna all’ergastolo e assolse – per insufficienza
di prove – il giovane amante – Una storia di tradimenti coniugali a vicenda
Il veleno è donna. Lo conferma
l’assassinio del marito di Maria Pensa, di anni 46 all’epoca dei fatti (un
piccolo precedente per furto ) casalinga,
belloccia, piacente, nonostante
la vita grama e la fatiche dei campi, che avvelenò il marito Gino Pompa di anni 42, da Teano. C’era, come sempre, però, l’immancabile terzetto: lei, lui
e l’amante Cosimo Cecere, e c’erano anche i presupposti per un menagè a trois: l’assenza del marito spesso fuori
regione per lavoro, e lui, bello, giovane e aitante, del posto. Il clichet è sempre lo stesso dopo il delitto si accusano a vicenda: “E’ stato lui ad avvelenare mio marito”.
Lui scrive un biglietto mentre lei è nel carcere: “Confessa, altrimenti mi arrestano… penso io a tuo figlio”. Epilogo: lei viene condannata all’ergastolo…
lui completamente scagionato del concorso in omicidio e dopo poco, si sposa, e se la spassa con un’altra donna. E’ un film
già visto. Ma vediamo i particolari.
Il 15 ottobre del 1969, il comandante della Stazione dei
Carabinieri di Teano, Mar. Domenico De Maria, mandava un fonogramma alla Procura della Repubblica
segnalando che il 49 enne coniugato, manovale Gino Pompa,
del luogo, alle ore 13 circa, in
Roccamonfina, ove si trovava per lavoro,
dopo aver ingerito due cucchiai di minestra,
composta da pasta e fagioli e avendo
accusato atroci dolori addominali veniva trasportato – dai compagni di lavoro -all’Ospedale
Civile di Teano dove, però, giungeva cadavere. Il dr. Lucio Salvi,
del nosocomio, riscontrava sospetto avvelenamento da anticrittogamici. Nel
contempo i carabinieri sequestravano il thermos che conteneva il cibo.
Oreste De Monaco, Armando De Iorio, Antonio Mottola e
Sebastiano Croce, tutti da Teano, alle
dipendenze della ditta Ilio De Filippi, che aveva un cantiere in atto in via Cesa di Roccamonfina, per la costruzione di un
fabbricato, compagni di lavoro del
Pompa, che lo avevano accompagnato in ospedale, confermarono che quest’ultimo,
in Roccamonfina, ove lavoravano poco prima, dopo aver ingerito due cucchiai di minestra,
composta da pasta e fagioli, accusava atroci dolori addominali, per cui avevano
subito provveduto a trasportarlo presso il detto nosocomio. Fu quindi ordinata
l’autopsia del cadavere.
La stessa sera del 15 ottobre I969, veniva interrogata la
moglie del defunto Maria Pensa, la quale
dichiarava che la minestra che suo marito aveva portata sul posto di lavoro, l’aveva preparata egli
stesso, essendovi dei fagioli già lessati, avanzati dal pranzo del giorno precedente.
Soggiungeva che suo marito di solito si levava verso le 5 del mattino, poi verso le ore 6 si recava al lavoro. Lei
quella mattina non si alzò in quanto si sentiva poco bene. Ad una specifica
domanda la donna dichiarò che i rapporti con il marito erano buoni ma che in
passato non erano andati mai d’accordo perché il marito intratteneva una tresca con una donna sposata che abitava
nel loro stesso palazzo. Tale stato di cose era notorio in pubblico e lei per
la disperazione voleva anche promuovere la
separazione da suo marito. La donna raccontò inoltre che in una fase successiva la donna – amante del
marito – si era trasferita a Mondragone ( suo paese natìo) e il marito era
andato a lavorare in Calabria rimanendovi addirittura per circa sette-otto
anni, fino ad un mese prima del delitto.
Precisava, inoltre, che il marito ritornava a Teano una volta al mese solo per
consegnarle i soldi per vivere. A domanda specifica del magistrato inquirente
la donna dichiarò, infine, che il marito non aveva manifestato propositi
suicidi.
Subito dopo venne interrogato anche Felice Pompa, figlio della vittima, il quale dichiarava che i rapporti
tra suoi genitori in atto erano buoni, cosa
che non era stata in passato per via che suo padre aveva relazioni con altra
donna. A domanda soggiungeva che di solito era sua madre e preparare la
colazione che suo padre portava sul posto di lavoro, però la mattina del 15
ottobre 1969 siccome dormiva, non si accorse se sua madre fece altrettanto o meno. Emilia Faella, Consiglia Amato, Angelina De Nunzio e Antonio Coppeta, tutti vicini di casa dei coniugi Pompa – dichiararono
che non avevano mai sentito litigare i due.
Ma, purtroppo, c’era un morto
avvelenato e qualcuno pure aveva dovuto mettere il veleno nella pasta e
fagioli. Ma il paese è piccolo e la gente mormora… e venne fuori la tresca con
il giovane amante e quindi gli inquirenti ancora senza prove continuavano a
tartassare di domande la Pensa che venne nuovamente convocata in caserma.
GLI INTERROGATORI
“Ci vuole dire da quanti anni è coniugata
con Pompa Gino? Quali erano i rapporti tra lei e suo marito? Quanti figli ha
avuto con lo stesso?” chiese il
giudice inquirente e Maria Pensa rispose: “Sono coniugata con Gino Pompa da circa 24 anni e ho avuto un solo
figlio che oggi conta anni 13. I rapporti tra me e mio marito in atto erano
buoni. In passato invece non andavamo d’accordo e spesso litigavamo e non
nascondo che egli una volta voleva pure accoltellarmi e ciò perchè io lo
rimproveravo per il fatto che aveva relazioni extra coniugali con una donna a nome Dora da Mondragone – Anzi
lei con il marito abitava a Teano nello
stesso stabile, ove abitavamo noi. Questa ultima è pure coniugata, ed ha
quattro figli. Mio marito allora tutti i giorni andava in casa dell’amante predetta e tale
fatto era notorio, tanto che io per la disperazione mi volevo
separare da mio marito, ma poi questo mi ha chiesto perdono asserendo che
non avrebbe più continuato con la predetta Dora, cosa che apparentemente ho riscontrato vero,
per cui i rapporti sono divenuti nuovamente normali. Mio marito ha avuto
rapporti con l’amante anzidetta par diverso tempo. Successivamente la precitata
Dora della quale non conosco il cognome con tutta la famiglia si trasferita a
Mondragone e mio marito da allora andato lavorare con una ditta in Calabria ed
è rimasto assente da casa circa 7-8 anni. Durante questi anni egli si portava in Teano, saltuariamente
(ogni 15 del mese) per portare i soldi a casa. Durante queste
visite in via di massima siamo andati
d’accordo. Ha fatto ritorno a casa definitivamente da circa un mese e lavorava nella
zona, quale manovale edili”.
Il magistrato inquirente – che non
credeva nella innocenza della donna – e del resto nella casistica dei casi di uxoricidio
è sempre il coniuge superstite che viene per primo sospettato, incalzava nelle
domande, anche perché era alla ricerca del movente che come si sa è il
periscopio del delitto. Dopo aver chiesto delle caratteristiche del
pranzo ( pasta e fagioli ) e di chi avesse preparato il pasto chiese: “In casa
sua esistono sostanze velenose? Usate dello zolfo, dei veleni per la campagna?
Suo marito aveva mai esternato propositi suicidi? La risposta fu negativa per tutte le domande.
Poi venne interrogato nuovamente il
figlio della vittima, Felice che aveva
appena 13 anni, al quale fu chiesto con
chi e che cosa aveva mangiato.
“Ieri a mezzogiorno – rispose - io, mia
madre e mio padre, abbiamo mangiato
della pasta e fagioli. Non so se ne è
avanzata. Ieri sera invece, sempre tutti e tre, abbiamo mangiato delle patatine fritte e del fegato. Durante la
cena mio padre ha detto a mia madre di preparargli il pranzo per oggi –
siccome doveva andare presto al lavoro a
Roccamonfina - mia madre ha risposto di
sì, però non ho visto se poi glielo lo
ha preparato realmente o meno. Mio padre nella circostanza non ha detto che
cosa desiderava portarsi per pranzo. Mia madre ieri sera è andata per prima a
letto, asserendo di non sentirsi bene. Questa mattina io dormivo e non mi sono
affatto accorto quando mio padre si è alzato per andare al lavoro, né mi sono
accorto se mia madre si sia alzata per preparare qualcosa da
mangiare durante il giorno, come di solito fa”.
“Vi risulta – chiese ancora il giudice inquirente - se vostro padre era sofferente di qualche
malattia?”. “Mio padre è stato e
stava bene in salute. Rispose il ragazzo - Io non l’ho mai
visto prendere medicine e so che quando mangiava
con noi mangiava di tutto. Non l’ho mai sentito lamentarsi di qualche malanno”. “Voi dormite in
camera a parte o quella dei vostri genitori? Quali erano i rapporti tra i
vostri genitori?. “Io dormo nella camera ove dormono i miei
genitori. Tra di loro da un periodo a questa
parte intercorrevano buoni rapporti,
invece diversi Anni or sono non andavano affatto d’accordo e spesso
litigavano perchè mio padre aveva
relazioni con altra donna del luogo, che ora so essersi trasferita a
Mondragone”. “Vi risulta che in
questi ultimi giorni i vostri genitori abbiano litigato? “Per quanto mi
risulta non hanno litigato affatto”.
Poi gli investigatori ordinarono una
perquisizione a casa dei coniugi alla ricerca di elementi che potessero
avvalorare la tesi dell’avvelenamento (anticrittogamici antiparassitari, zolfo etc)
ed una esplicita missiva della Procura ordinava ai carabinieri di indagare più
a fondo nei confronti della Maria Pensa, ritenuta dagli inquirenti fortemente indiziata
del reato di omicidio volontario. Ed infatti i carabinieri convocarono
nuovamente in caserma Maria Pensa ( la vedova allegra di Teano come fu subito
battezzata dai media dell’epoca) e la sottoposero a stringenti e pressanti
interrogatori… ma dopo ore ed ore… non ci fu la confessione “regina” anche se il velo dell’omertà cominciava
a presentare delle crepe.
“Lei asserisce di esplicare l’attività di bracciante
agricola. Ci vuole dire presso quali datori di lavoro ha prestato la sua opera durante l’annata
agraria 1968-69?”. ”Durante l’annata
agraria 1968-69 ho lavorato quale braccianta agricola per circa 50 giornate
lavorative in Mondragone, presso tre datori di lavoro dei quali non conosco i nomi – ad
eccezione di uno che so chiamarsi Don Salvatore. Presso questi ho scavato
cipolle ed ho raccolto fagioli. Non ho mai prestato la mia opera in
Teano da circa 5-6 anni in qua. Negli anni precedenti ho lavorato pure in Mondragone e per
circa una settimana in Villa Literno, però
non sono in grado di indicare i nomi dei miei datori di lavoro”.
Intanto i carabinieri inoltravano un primo rapporto alla
Procura e chiarivano che
“ulteriori e più approfondite indagini
sulle circostanze di modo di tempo e di luogo che determinarono il decesso di Gino Pompa - erano in corso - e tenuto conto dell’esito della perizia dei
medici che procedettero all’autopsia del cadavere le indagini veniva orientate nell’ambito familiare e
tendevano ad acclarare: a) il movente
del delitto indagava; b) cosa successe esattamente e in ordine
cronologico la sera precedente al delitto nell’abitazione dei coniugi Pompa; c)
sul passato dei predetti coniugi; D)eventuali loro dissapori
familiari nonché sulle cause che avessero potuto determinarli.
Da una prima sommaria indagine si
poteva stabilire che - in Teano - era
unanime la convinzione dell’opinione pubblica che la morte
del povero operaio era stata causata dalla moglie Maria Pensa. Da
un più approfondito esame sulla personalità della predetta prendeva sempre più forma
e consistenza la figura di una donna infedele che tradiva il coniuge
durante le prolungate assenze da casa, di
quest’ultimo per ragione di lavoro con molti concittadini. Tale stato di cose
veniva confermato da Raffaele
Pompa, fratello del defunto Gino. Una ulteriore conforma la forniva Sante Mannarelli, un playboy
locale, il quale tempo addietro aveva coltivato una relazione
intima con la Pensa. Ed inoltre – precisarono i carabinieri nella
loro missiva – che numerose e concordi voci confidenziali - indicavano in tale “Cosimino o figlio du ferracavallo” l’amante ufficiale della donna.
Tuttavia –precisarono ancora i rappresentanti della Fedelissima – che “fedeli
assertori di una certa mentalità ambientale – che domina incontrastata –
l’operoso agglomerato di Teano – i testi escussi – “non se la sentivano di mettere per
iscritto quelli che erano i rapporti tra i succitati amanti”.
Per avere, però, delle prove concrete
delle loro ipotesi i carabinieri disponevano una serie di servizi di appiattamenti
e di vigilanza nei pressi dell’abitazione della Maria Pensa. Si accertava che
frequentemente ma in prevalenza di sera tardi – un giovane dall’apparente età
di anni 30 –leggermente stempiato e vestito piuttosto dimessamente, era solito
frequentare la casa della Maria Pensa ove si intratteneva per qualche ora
nell’arco diurno della giornata e qualche volta per l’intera nottata. Tale
giovane veniva identificato per Cosimo
Cecere ( detto Cosimino o figlio du ferracavallo).
Sentito in caserma il Cecere in un primo momento assumeva di conoscere da diversi anni la Maria Pensa nella cui abitazione sovente
si portava per consumare dei pasti. Ciò
avveniva solitamente allorquando il coniuge della predetta tornava in Teano dalla
Calabria ove lavorava. Negava poi decisamente sia di aver coltivato una
relazione con la donna sia di aver trascorso la sera del 14 ottobre 1969 ( il
giorno prima del delitto ) in compagnia e nell’abitazione della stessa. A
più precise contestazioni e su
specifiche domande il Cecere testualmente dichiarava:
“Ho
avuto paura di ammettere di essere stato
l’amante della Pensa perché temevo di essere coinvolto nell’episodio della morte del coniuge della stessa. Mi sono
deciso proprio adesso a fare
l’ammissione di cui sopra, perché proprio non ce la facevo più. Quando ho detto
che non ce la facevo più intendevo dire che non riuscivo più a dire la bugia negando
cioè la mia relazione intima con la Maria Pensa. Avevo negato in precedenza la
mia relazione con la Penza perchè subito dopo la morte del coniuge di quest’ultima,
si era sparsa la voce che Gino Pompa era stato avvelenato. Poiché la mia
relazione con la stessa poteva in qualche modo compromettere la mia posizione-
ho sempre negato di essere il suo amante. Ora che ci penso meglio sono stato a
cena dalla Maria Pensa non la sera del
14, bensì la sera di domenica 12. Per
quanto ricordo nel corso di tale serata – era presente anche il marito Gino –
non avvennero litigi”.
Sentita
nuovamente la Pensa gli fu contestato il fatto di avere un amante e di avere
per questo avvelenato il marito. La donna si protestò nuovamente e con veemenza
innocente, negò di avere un amante e confermò le precedenti dichiarazioni adducendo che il suo defunto marito era un donnaiolo
e che la trascurava per altre donne e che la sera precedente al delitto aveva
preparato broccoletti stufati ed era andata a letto lasciando figlio e marito
innanzi alla tv”.
L’epilogo della
tresca: ERGASTOLO PER LA DONNA ASSASSINA
Gli indizi di colpevolezza: “Se scendi questa notte per andare a
gabinetto non toccare i fagioli che ho preparato per tuo padre perché ti
faranno male alla pancia”.
I carabinieri accertarono diverse
bugie nel racconto della Pensa. Non aveva cucinato broccoletti la sera precedente
bensì fagioli; aveva un amante ( Cosimino) nonostante lo avesse negato. Il marito – secondo le indagini dei carabinieri
– non era affatto un donnaiolo mentre la moglie era quasi una prostituta che si
dava a tutti solo per sesso. Non era vero altresì che era andata a letto
lasciando il marito ed il figlio a vedere la tv. Anzi risultò la presenza del
suo amante la sera del 14 ottobre. Le
circostanze furono acclarate dal Pretore
di Caserta Avv. Francesco Gentile, che interrogò nel suo ufficio il figlio
Felice. Era stato appurato, inoltre, che tra i coniugi Pompa era scoppiata una
vivace discussione, che degenerò, fino ad arrivare al punto che il Pompa
schiaffeggiò la moglie ed il figlio che si era schierato in difesa della
madre -
“perché il Gino non voleva
consegnare alla moglie una somma di 150 mila lire che aveva riscosso dal suo
datore di lavoro”. Placati gli animi il Pompa chiese alla moglie di mettere
da parte due porzioni di fagioli per il pranzo dell’indomani al lavoro. La
donna – secondo le affermazioni del figlio – aderì all’invito versando i
fagioli in un recipiente e lasciandolo sul fornello a gas della cucina. E
mentre il giovane Felice stava salendo in camera per dormire la madre gli
disse:” Se scendi questa notte per andare a gabinetto non toccare i fagioli che
ho preparato per tuo padre perché ti faranno male alla pancia”.
Per avere conferma
dell’assunto del figlio della vittima – in contrasto con quanto dichiarato dal
suo amante Cosimino Cecere – il giudice fece interrogare nuovamente lo stesso,
il quale, contrariamente alla prima
versione, confermò di aver cenato la
sera precedente al delitto presso la sua amante. E di aver negato la
circostanza perché gli era stato suggerito dalla donna. Poi gli amanti
diabolici si tradirono. Lei continuò a vedere il suo uomo. Fu arrestata e
accusata di omicidio e mentre era detenuta il Cecere le mandò un biglietto
consigliandola di confessare il delitto che lui “avrebbe provveduto a mantenere il figlio rimasto orfano”. Fu
arrestato anche lui. Si tenne il processo in Corte di Assise. Emersero altri
sconcertanti particolari sulla vita libertina della donna. In particolare tre
testi: Violanta De Pari, Carmela
Gliottone e Iolanda Croce, riferivano
che mentre si intrattenevano – in attesa dei funerali – nella cucina
della abitazione dei coniugi Pompa – giungeva la sorella della Maria, Antonietta Pompa, la quale cominciò a rovistare in ogni dove. Dopo
qualche minuto la Antonietta e la di lei madre uscivano nascondendo qualcosa
poi la madre esclamò: “E truvato”?. E la figlia rispose: “Sì, aggio fatto”. Nello stesso tempo
si sentì lo scarico del gabinetto. Il veleno era sparito. Sul comportamento
libertino della donna il fratello della vittima Raffaele Pompa, ebbe a
dichiarare alla Corte: ”Fin da quando ero molto giovane ricordo di
aver sentito parlare male di mia cognata considerata da tutti una donna molto
leggera. In paese si diceva che la stessa faceva entrare molti uomini in casa –
in assenza di mio fratello fuori per lavoro -
e per sincerarmene un giorno mi
appostai e notai nella circostanza che dalla sua abitazione usciva tale
Giuseppe Iannuccilli, un geometra di Teano”. Altre volte l’ho colta in
flagranza con Cosimino Cecere. Anche un tale Sante Mannarelli, che era
stato datore di lavoro della Maria Pensa, dichiarò di averla posseduta più volte in aperta
compagna: ”Mi fece capire che si sarebbe concessa facilmente ed infatti la
predetta non si fece molto pregare. Divenni suo amante per un certo periodo di
tempo e la sera mi trattenevo in colloqui intimi nella sua abitazione”.
Il collegio difensivo comprendeva gli avvocati
Giuseppe Garofalo, Ciro Maffuccini e
Mauro Borgia. La sentenza fu di
assoluzione per il Cecere e di condanna all’ergastolo per la donna. Sentenza
confermata nei successivi gradi.
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