Translate

domenica 1 marzo 2015



Accadde a Teano il 15 ottobre del 1969

 

UCCISE IL MARITO CON UN VELENO   NELLA PASTA E FAGIOLI

Accusò l’amante che respinse l’addebito. La Corte di Assise condannò la donna all’ergastolo e assolse – per insufficienza di prove – il giovane amante – Una storia di tradimenti coniugali a vicenda



 

Il veleno è donna. Lo conferma l’assassinio del marito di Maria Pensa, di anni 46 all’epoca dei fatti (un piccolo precedente per furto ) casalinga,  belloccia, piacente,  nonostante la vita grama e la fatiche dei campi, che avvelenò il marito Gino Pompa di anni 42,  da Teano. C’era,  come sempre, però,  l’immancabile terzetto:  lei, lui  e l’amante Cosimo Cecere, e c’erano anche i presupposti per un menagè a trois: l’assenza del marito spesso fuori regione per lavoro, e lui, bello, giovane e aitante, del posto. Il clichet è sempre lo stesso dopo il delitto si accusano a vicenda: “E’ stato lui ad avvelenare mio marito”.  Lui scrive un biglietto mentre lei è nel carcere: “Confessa, altrimenti mi arrestano… penso io a tuo figlio”.    Epilogo: lei viene condannata all’ergastolo… lui completamente scagionato del concorso in omicidio e dopo poco,  si sposa,  e se la spassa con un’altra donna. E’ un film già visto. Ma vediamo i particolari.

Il 15 ottobre del 1969, il comandante della Stazione dei Carabinieri di Teano,  Mar. Domenico De Maria,  mandava  un fonogramma alla Procura della Repubblica segnalando che il 49 enne  coniugato, manovale Gino Pompa, del luogo, alle  ore 13 circa, in Roccamonfina, ove  si trovava per lavoro, dopo aver ingerito due cucchiai di  minestra, composta da pasta e  fagioli e avendo accusato atroci dolori addominali veniva trasportato – dai compagni di lavoro -all’Ospedale Civile di Teano dove, però, giungeva cadavere. Il dr. Lucio Salvi, del nosocomio, riscontrava sospetto avvelenamento da anticrittogamici. Nel contempo i carabinieri sequestravano il thermos che conteneva il cibo.


Oreste De Monaco, Armando De Iorio, Antonio Mottola e Sebastiano Croce, tutti da Teano,  alle dipendenze della ditta Ilio De Filippi, che aveva un cantiere in atto in via  Cesa di Roccamonfina, per la costruzione di un fabbricato,  compagni di lavoro del Pompa, che lo avevano accompagnato in ospedale, confermarono che quest’ultimo, in Roccamonfina, ove lavoravano poco prima, dopo  aver ingerito due cucchiai di minestra, composta da pasta e fagioli, accusava atroci dolori addominali, per cui avevano subito provveduto a trasportarlo presso il detto nosocomio. Fu quindi ordinata l’autopsia del cadavere.  

La stessa sera del 15 ottobre I969,  veniva interrogata la moglie del defunto Maria Pensa,  la quale dichiarava che la minestra che suo marito aveva portata sul  posto di lavoro, l’aveva preparata egli stesso, essendovi dei fagioli già lessati, avanzati dal pranzo del giorno precedente. Soggiungeva che suo marito di solito si levava verso le 5 del mattino, poi verso le ore 6 si recava al lavoro. Lei quella mattina non si alzò in quanto si sentiva poco bene. Ad una specifica domanda la donna dichiarò che i rapporti con il marito erano buoni ma che in passato non erano andati mai d’accordo perché il marito intratteneva  una tresca con una donna sposata che abitava nel loro stesso palazzo. Tale stato di cose era notorio in pubblico e lei per la disperazione voleva anche promuovere  la separazione da suo marito. La donna raccontò inoltre che  in una fase successiva la donna – amante del marito – si era trasferita a Mondragone ( suo paese natìo) e il marito era andato a lavorare in Calabria rimanendovi addirittura per circa sette-otto anni,  fino ad un mese prima del delitto. Precisava, inoltre, che il marito ritornava a Teano una volta al mese solo per consegnarle i soldi per vivere. A domanda specifica del magistrato inquirente la donna dichiarò, infine, che il marito non aveva manifestato propositi suicidi.


Subito dopo venne interrogato anche Felice Pompa, figlio della vittima, il quale dichiarava che i rapporti tra suoi genitori in atto erano  buoni, cosa che non era stata in passato per via che suo padre aveva relazioni con altra donna. A domanda soggiungeva che di solito era sua madre e preparare la colazione che suo padre portava sul posto di lavoro, però la mattina del 15 ottobre 1969 siccome dormiva, non si accorse se sua madre  fece altrettanto o meno. Emilia Faella, Consiglia Amato, Angelina De Nunzio e Antonio Coppeta,  tutti vicini di casa dei coniugi Pompa – dichiararono che non avevano mai sentito litigare i due. 

Ma, purtroppo, c’era un morto avvelenato e qualcuno pure aveva dovuto mettere il veleno nella pasta e fagioli. Ma il paese è piccolo e la gente mormora… e venne fuori la tresca con il giovane amante e quindi gli inquirenti ancora senza prove continuavano a tartassare di domande la Pensa che venne nuovamente convocata in caserma.

GLI INTERROGATORI

“Ci vuole dire da quanti anni è coniu­gata con Pompa Gino? Quali erano i rapporti tra lei e suo marito? Quanti figli ha avuto con lo stesso?” chiese il giudice inquirente e Maria Pensa rispose: “Sono coniugata con  Gino Pompa da circa 24 anni e ho avuto un solo figlio che oggi con­ta anni 13. I rapporti tra me e mio marito in atto erano buoni. In passato invece non an­davamo d’accordo e spesso litigavamo e non nascondo che egli una volta voleva pure accoltel­larmi e ciò perchè io lo rimproveravo per il fatto che aveva relazioni extra coniugali con una donna a  nome Dora da Mondragone – Anzi lei con il marito  abitava a Teano nello stesso stabile, ove abitavamo noi. Questa ultima è pure coniugata, ed ha quattro figli. Mio marito allora tutti i giorni  andava in casa dell’amante predetta e tale fatto era notorio, tanto che io per la disperazione  mi volevo  separare da mio marito, ma poi questo mi ha chiesto perdono asserendo che non avrebbe più continuato con la predetta  Dora, cosa che apparentemente ho riscontrato vero, per cui i rapporti sono divenuti nuovamente normali. Mio marito ha avuto rapporti con l’amante anzidetta par diverso tempo. Successivamente la precitata Dora della quale non conosco il cognome con tutta la famiglia si trasferita a Mondragone e mio marito da allora andato lavorare con una ditta in Calabria ed è  rimasto assente da casa circa 7-8 anni. Durante questi anni egli si portava in Teano, saltuariamente  (ogni 15 del mese) per portare i soldi a casa. Durante queste visite  in via di massima siamo andati d’accordo. Ha fatto ritorno a casa definitivamente da circa un mese e lavorava nella zona, quale manovale edili”.


Il magistrato inquirente – che non credeva nella innocenza della donna – e del resto nella casistica dei casi di uxoricidio è sempre il coniuge superstite che viene per primo sospettato, incalzava nelle domande, anche perché era alla ricerca del movente che come si sa è il periscopio del delitto. Dopo aver chiesto delle caratteristiche del pranzo ( pasta e fagioli ) e di chi avesse preparato il pasto chiese: “In casa sua esistono sostanze velenose? Usate dello zolfo, dei veleni per la campagna? Suo marito aveva mai esternato propositi suicidi?  La risposta fu negativa per tutte le domande.

Poi venne interrogato nuovamente il figlio della vittima,  Felice che aveva appena 13 anni,  al quale fu chiesto con chi e che cosa aveva mangiato.




Ieri a mezzogiorno – rispose -  io,  mia madre e mio padre,  abbiamo mangiato della  pasta e fagioli. Non so se ne è avanzata. Ieri sera invece, sempre tutti e tre, abbiamo mangiato  delle patatine fritte e del fegato. Durante la cena mio padre ha detto a mia madre di preparargli il pranzo per oggi – siccome doveva andare  presto al lavoro a Roccamonfina -  mia madre ha risposto di sì, però non ho  visto se poi glielo lo ha preparato realmente o meno. Mio padre nella circostanza non ha detto che cosa desiderava portarsi per pranzo. Mia madre ieri sera è andata per prima a letto, asserendo di non sentirsi bene. Questa mattina io dormivo e non mi sono affatto accorto quando mio padre si è alzato per andare al lavoro, né mi sono accorto se mia madre si sia alzata per preparare qualcosa da mangiare durante il giorno, come di solito fa”.



 “Vi risulta – chiese ancora il giudice inquirente -  se vostro padre era sofferente di qualche malattia?”. “Mio padre è stato e stava bene in salute.  Rispose il ragazzo - Io non l’ho mai visto prendere medicine e so  che quando mangiava con noi mangiava di tutto. Non l’ho mai sentito lamentarsi di qualche malanno”.  “Voi dormite in camera a parte o quella dei vostri genitori? Quali erano i rapporti tra i vostri genitori?. “Io     dormo nella camera ove dormono i miei genitori. Tra di loro da un periodo a questa  parte intercorrevano buoni rapporti,  invece diversi Anni or sono non andavano affatto d’accordo e spesso litigavano  perchè mio padre aveva relazioni con altra donna del luogo, che ora so essersi trasferita a Mondragone”.   “Vi risulta che in questi ultimi giorni i vostri genitori abbiano litigato? “Per quanto mi risulta non hanno litigato affatto”.

Poi  gli investigatori ordinarono una perquisizione a casa dei coniugi alla ricerca di elementi che potessero avvalorare la tesi dell’avvelenamento  (anticrittogamici antiparassitari, zolfo etc) ed una esplicita missiva della Procura ordinava ai carabinieri di indagare più a fondo nei confronti della Maria Pensa,  ritenuta dagli inquirenti fortemente indiziata del reato di omicidio volontario. Ed infatti i carabinieri convocarono nuovamente in caserma Maria Pensa ( la vedova allegra di Teano come fu subito battezzata dai media dell’epoca) e la sottoposero a stringenti e pressanti interrogatori… ma dopo ore ed ore… non ci fu la confessione “regina”  anche se il velo dell’omertà cominciava a presentare delle crepe.
 
“Lei asserisce di esplicare l’attività di bracciante agricola. Ci vuole dire presso quali  datori di  lavoro ha prestato la sua opera durante l’annata agraria 1968-69?”.  ”Durante l’annata agraria 1968-69 ho lavorato quale braccianta agricola per circa 50 giornate lavorative in Mondragone, presso tre datori di lavoro dei quali non conosco i nomi – ad eccezione di uno che so chiamarsi Don Salvatore. Presso questi ho scavato cipolle ed ho raccolto fagioli.  Non ho mai prestato la mia opera in Teano da circa 5-6 anni in qua. Negli anni precedenti ho lavorato pure in Mondragone e per circa una settimana in Villa  Literno, però non sono in grado di indicare i nomi dei miei datori di lavoro”.


Intanto i carabinieri inoltravano un primo rapporto alla Procura e chiarivano che


“ulteriori e più approfondite indagini sulle circostanze di modo di tempo e di luogo che determinarono il decesso di  Gino Pompa - erano in corso -  e tenuto conto dell’esito della perizia dei medici che procedettero all’autopsia del cadavere le indagini  veniva orientate nell’ambito familiare e tendevano ad acclarare: a)  il movente del delitto indagava; b) cosa successe esattamente e in ordine cronologico la sera precedente al delitto nell’abitazione dei coniugi Pompa; c) sul passato dei predetti coniugi; D)eventuali loro dissapori familiari nonché sulle cause che avessero potuto determinarli.

Da una prima sommaria indagine si poteva stabilire che - in Teano -  era unanime la convinzione dell’opinione pubblica che la morte del povero operaio  era stata  causata dalla moglie Maria Pensa. Da un più approfondito esame sulla personalità della predetta prendeva sempre più forma e consistenza la figura di una donna infe­dele che tradiva il coniuge durante   le prolun­gate assenze da casa, di quest’ultimo per ragione di lavoro con molti concittadini.  Tale  stato di cose  veniva confermato da Raffaele Pompa, fratello del defunto Gino.  Una ulteriore conforma la forniva Sante Mannarelli, un playboy locale,  il quale tempo addietro aveva  coltivato una relazione intima con la Pensa. Ed inoltre – precisarono i carabinieri nella loro missiva – che numerose e concordi voci confidenziali -  indicavano in tale “Cosimino o figlio du ferracavallo l’amante ufficiale della donna. Tuttavia –precisarono ancora i rappresentanti della Fedelissima – che “fedeli assertori di una certa mentalità ambientale – che domina incontrastata – l’operoso agglomerato di Teano – i testi escussi  – “non se la sentivano di mettere per iscritto quelli che erano i rapporti tra i succitati amanti”.
Per avere, però, delle prove concrete delle loro ipotesi i carabinieri disponevano una serie di servizi di appiattamenti e di vigilanza nei pressi dell’abitazione della Maria Pensa. Si accertava che frequentemente ma in prevalenza di sera tardi – un giovane dall’apparente età di anni 30 –leggermente stempiato e vestito piuttosto dimessamente, era solito frequentare la casa della Maria Pensa ove si intratteneva per qualche ora nell’arco diurno della giornata e qualche volta per l’intera nottata. Tale giovane veniva identificato per Cosimo Cecere ( detto Cosimino o figlio du ferracavallo).



Sentito in caserma il  Cecere  in un primo momento assumeva di conoscere da diversi anni la  Maria Pensa nella cui abitazione sovente si  portava per consumare dei pasti. Ciò avveniva solitamente allorquando il coniuge della predetta tornava in Teano dalla Calabria ove lavorava. Negava poi decisamente sia di aver coltivato una relazione con la donna sia di aver trascorso la sera del 14 ottobre 1969 ( il giorno prima del delitto ) in compagnia e nell’abitazione della stessa. A più  precise contestazioni e su specifiche domande il Cecere testualmente dichiarava:

“Ho avuto paura di ammettere di essere stato  l’amante della Pensa perché temevo di essere coinvolto nell’episodio della morte del coniuge della stessa. Mi sono deciso proprio adesso  a fare l’ammissione di cui sopra, perché proprio non ce la facevo più. Quando ho detto che non ce la facevo più intendevo dire che non riuscivo più a dire la bugia negando cioè la mia relazione intima con la Maria Pensa. Avevo negato in precedenza la mia relazione con la Penza perchè subito dopo la morte del coniuge di quest’ultima, si era sparsa la voce che Gino Pompa era stato avvelenato. Poiché la mia relazione con la stessa poteva in qualche modo compromettere la mia posizione- ho sempre negato di essere il suo amante. Ora che ci penso meglio sono stato a cena dalla Maria Pensa  non la sera del 14,  bensì la sera di domenica 12. Per quanto ricordo nel corso di tale serata – era presente anche il marito Gino – non avvennero litigi”.

Sentita nuovamente la Pensa gli fu contestato il fatto di avere un amante e di avere per questo avvelenato il marito. La donna si protestò nuovamente e con veemenza innocente, negò di avere un amante e confermò le precedenti dichiarazioni  adducendo che il suo defunto marito era un donnaiolo e che la trascurava per altre donne e che la sera precedente al delitto aveva preparato broccoletti stufati ed era andata a letto lasciando figlio e marito innanzi alla tv”.

L’epilogo della tresca: ERGASTOLO PER LA DONNA ASSASSINA

 Gli indizi di colpevolezza: “Se scendi questa notte per andare a gabinetto non toccare i fagioli che ho preparato per tuo padre perché ti faranno male alla pancia”.

I carabinieri accertarono diverse bugie nel racconto della Pensa. Non aveva cucinato broccoletti la sera precedente bensì fagioli; aveva un amante ( Cosimino) nonostante lo avesse negato. Il  marito – secondo le indagini dei carabinieri – non era affatto un donnaiolo mentre la moglie era quasi una prostituta che si dava a tutti solo per sesso. Non era vero altresì che era andata a letto lasciando il marito ed il figlio a vedere la tv. Anzi risultò la presenza del suo amante la sera del 14 ottobre.  Le circostanze furono  acclarate dal Pretore di Caserta Avv. Francesco Gentile,  che interrogò nel suo ufficio il figlio Felice. Era stato appurato, inoltre,   che tra i coniugi Pompa era scoppiata una vivace discussione,  che degenerò,  fino ad arrivare al punto che il Pompa schiaffeggiò la moglie ed il figlio che si era schierato in difesa della madre  -  “perché il Gino non voleva consegnare alla moglie una somma di 150 mila lire che aveva riscosso dal suo datore di lavoro”. Placati gli animi il Pompa chiese alla moglie di mettere da parte due porzioni di fagioli per il pranzo dell’indomani al lavoro. La donna – secondo le affermazioni del figlio – aderì all’invito versando i fagioli in un recipiente e lasciandolo sul fornello a gas della cucina. E mentre il giovane Felice stava salendo in camera per dormire la madre gli disse:” Se scendi questa notte per andare a gabinetto non toccare i fagioli che ho preparato per tuo padre perché ti faranno male alla pancia”.

Per avere conferma dell’assunto del figlio della vittima – in contrasto con quanto dichiarato dal suo amante  Cosimino Cecere – il giudice fece interrogare nuovamente lo stesso, il quale,  contrariamente alla prima versione,  confermò di aver cenato la sera precedente al delitto presso la sua amante. E di aver negato la circostanza perché gli era stato suggerito dalla donna. Poi gli amanti diabolici si tradirono. Lei continuò a vedere il suo uomo. Fu arrestata e accusata di omicidio e mentre era detenuta il Cecere le mandò un biglietto consigliandola di confessare il delitto che lui “avrebbe provveduto a mantenere il figlio rimasto orfano”. Fu arrestato anche lui. Si tenne il processo in Corte di Assise. Emersero altri sconcertanti particolari sulla vita libertina della donna. In particolare tre testi: Violanta De Pari, Carmela Gliottone e Iolanda Croce,   riferivano  che mentre si intrattenevano – in attesa dei funerali – nella cucina della abitazione dei coniugi Pompa – giungeva la sorella della Maria, Antonietta Pompa,  la quale cominciò a rovistare in ogni dove. Dopo qualche minuto la Antonietta e la di lei madre uscivano nascondendo qualcosa poi la madre esclamò: “E truvato”?. E la figlia rispose: “Sì, aggio fatto”. Nello stesso tempo si sentì lo scarico del gabinetto. Il veleno era sparito. Sul comportamento libertino della donna il fratello della vittima Raffaele Pompa,  ebbe a dichiarare alla Corte: ”Fin da quando ero molto giovane ricordo di aver sentito parlare male di mia cognata considerata da tutti una donna molto leggera. In paese si diceva che la stessa faceva entrare molti uomini in casa – in assenza di mio fratello fuori per lavoro -   e per sincerarmene un giorno mi appostai e notai nella circostanza che dalla sua abitazione usciva tale Giuseppe Iannuccilli, un geometra di Teano”. Altre volte l’ho colta in flagranza con Cosimino Cecere.  Anche un tale Sante Mannarelli,  che era stato datore di lavoro della Maria Pensa,  dichiarò di averla posseduta più volte in aperta compagna: ”Mi fece capire che si sarebbe concessa facilmente ed infatti la predetta non si fece molto pregare. Divenni suo amante per un certo periodo di tempo e la sera mi trattenevo in colloqui intimi nella sua abitazione”.    
 Il collegio difensivo comprendeva gli avvocati Giuseppe Garofalo, Ciro Maffuccini e Mauro Borgia. La sentenza fu di assoluzione per il Cecere e di condanna all’ergastolo per la donna. Sentenza confermata nei successivi gradi. 
 


    

Nessun commento:

Posta un commento