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domenica 7 giugno 2015

 

 

Accadde a Grazzanise il 21 marzo del 1949



Giuseppina Di Chiara uccise il suo fidanzato  con quattro colpi  di pistola  partorì subito dopo l’arresto.

Portava in grembo il frutto del suo amore ma,  Vittorio  Zerbino, la vittima,   non voleva più sposarsela perché non era convinto che lui fosse il padre del bimbo. La vita di campagna,  la promessa di nozze,  la violenza.  Una dolorante storia di seduzione e di inganno.



Fu il culmine, forse l’ultima fase di un dramma che serpeggiava da tempo nell’area. Erano da poco passate le ore 12 del 21 marzo del 1949, allorquando in agro di Grazzanise, Giuseppina Di Chiara, bella e fiera contadinotta, di anni 25, penetrava nella casa colonica del podere n° 128 di cui era concessionario Aronne Zerbino, ed esplodeva 4 colpi di pistola contro Vittorio Zerbino il quale,  gravemente ferito, moriva dopo 36 ore,  presso l‘ospedale di Capua.  La ragazza, dopo il fatto criminoso,  si dava alla fuga  invano inseguita per  un certo tratto dai familiari della vittima. I carabinieri di Grazzanise -  informati dopo un’ora e mezza dal delitto – si portavano nel podere e apprendevano da Aronne Zerbino, padre della vittima - l’ultima fase di un dramma – le cui lontane radici risalivano all’autunno del 1948. Il vecchio genitore della vittima dichiarava che quella stessa mattina, verso le 11,30 informato dai familiari dell’arrivo della Di Chiara – già fidanzata di suo figlio sciagurato – le era andato incontro per evitare che la discussione – che si annunciava vivace – in prosieguo di precedenti colloqui – si dilatasse con l’intervento dei suoi congiunti. Egli invitò la giovane a seguirlo nella stalla. La ragazza aderì all’invito. Dopo dichiarò di essersi recata da loro per invocare il loro soccorso, perché attendeva un bambino ed era sfornita di mezzi e dell’appoggio dei suoi. Insisteva, infine, perché i due genitori del Vittorio consentissero al matrimonio del giovane con lei, in considerazione del fatto che,  il bimbo che ella portava in grembo, era frutto del loro amore. Alla richiesta della giovane Aronne Zerbino l’avrebbe invitata ad attendere, dovendo egli consigliarsi sull’oggetto con la moglie, il cui pensiero era, del resto, già noto alla Di Chiara.   Prometteva, comunque, lo Zerbino almeno aiuti concreti in vista del parto quasi imminente.  Se non che egli era appena rientrato ed aveva raggiunto la moglie al piano elevato, quando sentì con raccapriccio le detonazioni di vari colpi di pistola nell’ambiante sottostante, dove si tratteneva presso il camino il figlio Vittorio. Lo rinvennero, infatti, boccheggiante e riverso a poca distanza dal camino dal quale non  era riuscito ad allontanarsi neppure di un centimetro fulminato dalla scarica letale.  Il fratello di Vittorio, Giannetto, unico testimone della scena selvaggia, dichiarava di aver visto entrare la giovane che si fermò sulla soglia restando nell’atteggiamento per pochi secondi. La donna cavò quindi di tasca l’arma senza pronunciare parola,  fece  fuoco contro il fratello con rapidissima successione di colpi. Egli Giannetto, fu sopraffatto dal panico e non tentò neppure l’intervento che gli sarebbe forse riuscito fatale. Era seduto sui gradini della scala che porta al piano superiore. Serbò della scena un vivido ricordo. Il fratello raggiunto dai colpi si abbattete subito, forse senza neppure percepire in quell’istante la presenza nemica. 


Lo Zerbino aveva conosciuto la giovane tramite un suo amico, tale Guido Destro, fidanzato e poi marito di una sorella di Giuseppina Di Chiara. Ricevette una buona impressione e manifestò all’amico il suo interessamento per la stessa. Il Destro offrì subito la sua mediazione ed accelerò i tempi. Il 1° gennaio del 1948 dopo sommari preamboli, i due giovani si fidanzarono. Le rispettive famiglie sembravano restare estranee alla faccenda, non essendovi stato alcuno scambio di visita. La Di Chiara frequentò subito la casa degli Zerbino offrendosi anche per la confezione di abiti per le sorelle del fidanzato. Costui prestò il proprio lavoro nell’azienda della famiglia di lei. I migliori auspici presiedevano questi rapporti. Improvvisamente un cattivo genio gettò la sua ombra nefasta su quelle zolle. Durante la trebbiatura al podere di Guido Destro, dove era affaccendato anche Vittorio Zerbino, si presentava certo Pasquale Iannucci da S. Andrea del Pizzone, chiedendo di parlare col fidanzato della Giuseppina. Vittorio ebbe con lo stesso il colloquio richiestogli apprendendo dallo Iannucci che la Di Chiara era stata la sua amante fin dal 1939; che ella lo aveva finanche seguito a Vibo Valentia durante il suo servizio militare, trattenendosi oltre un mese; che la donna aveva numerose volte abortito, per sua confessione, per celare la sua condotta immorale. L’improvvisa rivelazione – di un passato così abietto – non vietò però al giovane di dare la possibilità alla sua donna di discolparsi. D’accordo coi genitori – pensosi dell’avvenire del figliolo – fu stabilito un incontro in casa Zerbino tra lo Iannucci e la Di Chiara. Soluzione suggerita anche da un amico di famiglia, il Dott. Nicola Lepore di  Casale di Carinola. Quest’ultimo, infatti, si pose alla ricerca dello Iannucci,  che rinvenne in una cantina in compagnia di tal Domenico Di Chiara che, per invito dello Iannucci lo seguì   in casa Zerbino. Lo Iannucci riportò ai familiari dello Zerbino quanto aveva manifestato a quest’ultimo e sostenne l’urto della Di Chiara convocata dal fidanzato la quale energicamente confutò le accuse dello Iannucci ammettendo soltanto d’essersi fidanzata  con lui molti anni prima e per un periodo non eccedente i 15 giorni.  Fu una discussione vivace con spunti di violenza. Dal contegno, però, la Di Chiara usciva moralmente distrutta  e le rosee prospettive d’un matrimonio felice istantaneamente sfiorivano.
Ancora preghiere e querimonie: infine tortuosamente va delineandosi un truce proposito.  

Senza una comunicazione ufficiale, tuttavia, il fidanzamento veniva rotto. Il contegno del giovane assolutamente inerte e distante convinse la giovane dei propositi di quello cui l’assidua sollecitazione materna prospettava la necessità di troncare ogni rapporto con la donna   a tutela del buon nome e dell’onore familiare. Ai primi di settembre – perché l’inesperienza e l’esuberanza giovanile non compromettessero la soluzione raggiunta – i coniugi Zerbino divisarono di allontanare il loro Vittorio dalla sede dell’impuro contagio e lo spedivano a Cerignola di Bari affidandolo alla cure e alla saggezza dei nonni materni. Ivi il giovane restò per circa due mesi  non dando contezza di sé all’amica ripudiata. La Di Chiara si macerava nell’esasperazione e nello sgomento e intanto  la gravidanza progrediva. L’inflessibile risoluzione degli altri non accennava a modificarsi. Ancora preghiere e querimonie: infine tortuosamente va delineandosi un truce proposito. Guido Destro, infausto pronubo, intuisce foschi disegni nella mente della cognata – che anche nei suoi confronti in epoca anteriore aveva fatto ricorso al coltello per vincere la resistenza  manifestata in ordine al celebrando matrimonio con la sorella e pone sull’avviso  Vittorio Zerbino a mezzo di tali  Romero Barbierato e Aldo Cella,  ma lo Zerbino ostentava indifferenza. I giorni volano. La situazione matura e si avvia all’epilogo. Ai fini di marzo del 1949,  la Di Chiara si porta in casa Zerbino chiedendo cosa fare. Attende un bimbo. Le si risponde che deve rivolgersi allo Iannucci (il suo ex amante) unico colpevole dell’incresciosa situazione…
Poi Vittorio Zerbino comunicò alla pressante giovane che egli condivideva in pieno il pensiero dei genitori e che considerava chiusa la vertenza. La Di Chiara – al contrario – inseguiva sempre il suo sogno – forte dei diritti che, a suo avviso, le derivavano dalla maternità che le fiorisce in grembo. Alla fine un ultimo tentativo, la mediazione del parroco del luogo Don  Francesco Guerriero e più tardi quella di tal Gaetano Conte, legato alla sua famiglia da vincoli di parentela spirituale.  I buoni uffici di costoro non sortiscono alcun effetto. Gli Zerbino sono irremovibili nelle loro decisioni. Avevano consentito al matrimonio benché la ragazza “fosse povera in canna”,  nel comune desiderio di dare al loro figliuolo una compagna degna ed operosa. Come avrebbero potuto ora transigere sui requisiti morali? Quando era da mettere in dubbio perfino la paternità del nascituro che la Di Chiara intendeva attribuire al loro figliuolo? Quando – addirittura – si vociferava di relazione ancora in atto tra lo Iannucci e la giovane? L’ultima ripulsa   confermata agli intermediari data al 18 marzo.
Aveva troppo sofferto e troppo tollerato, lei misera, perché ancora le reggesse il cuore di fronte a tanta disumana insensibilità


Il 21 successivo la Di Chiara in possesso di una rivoltella – acquistata come ella stessa dichiara – nel settembre del 1948 allorché ebbe la sensazione esatta che tutto fosse finito per lei, si reca dagli Zerbino col disperato proposito di giungere,  comunque,  ad una soluzione. O le si offrirà una mano soccorrevole o sopprimerà il  fedifrago. Alle 14,30 di quello stesso giorno la Di Chiara si costituiva nelle mani dei vigili Giovanni Palazzo e Francesco Parente nei quali si imbatteva dirigendosi alla caserma dei carabinieri di Grazzanise. Interrogata in ordine al delitto commesso e sui motivi della sua azione  la Di Chiara assumeva di essere stata scacciata  - anche quella mattina – dallo Aronne Zerbino al quale si era rivolta per ottenere almeno un aiuto per le sue condizioni disperate – essendo stata allontanata da casa dalla madre preoccupata dei riflessi di un parto nella sua abitazione nei riguardi degli altri figlioli. Le atroci parole profferite nei suoi confronti da Aronne Zerbino le avevano vieppiù esacerbata l’anima. Un’ultima speranza la guidò verso Vittorio – che però non volle darle ascolto e la scacciò in malo modo. Aveva troppo sofferto e troppo tollerato, lei misera, perché ancora le reggesse il cuore di fronte a tanta disumana insensibilità. Il contegno degli Zerbino era del tutto ingiustificato. Quando ella cedette  alle bramosie del giovane – il 2 luglio del 1948 – in campagna,  costui ben potette constatare l’integrità fisica tanto è vero che i rapporti continuarono e si era anche fissata la data delle nozze per l’ottobre. Questo dato obiettivo doveva da solo costituire d’ogni credito alla base insinuazioni fatte sul suo conto dallo Iannucci al quale ella non aveva mai concesso alcunché. Quest’uomo voleva rientrare nella sua vita e sbarrarle il passo nella speranza che – alla  fine – avrebbe ceduto. Invenzioni diaboliche sui precedenti di siffatto abominevole disegno. Responsabili tutti quanti del suo gesto. Un mese dopo la Di Chiara – nel carcere femminile di Arienzo – dava alla luce una bambina. 





  Una condanna definitiva a 14 anni.  Il Pubblico ministero chiese  una condanna ad anni 20 e mesi sei di reclusione.
Chiusa l’istruttoria formale la Di Chiara veniva rinviata a giudizio per omicidio e  i genitori della vittima Aronne Zerbino e Domenica Mariotto si costituivano parte civile col beneficio del gratuito patrocinio.  Il Pubblico ministero, a conclusione  della sua requisitoria chiese per la donna, con la concessione delle attenuanti generiche, una condanna ad anni 20 e mesi sei di reclusione. “E’ evidente la volontà e la premeditazione – disse il pubblico ministero – in quanto la pistola fu acquistata quando la vittima era a Cerignola; la confessione della imputata che fece l’acquisto per consumare la sua vendetta; l’esternazione dei suoi propositi di vendetta esternati anche ai familiari ed in definitiva – disse il p.m. – il radicarsi del proposito criminoso nella psiche dell’agente in modo persistente e definitivo, determinazione  ferma incrollabile tetragona a qualsiasi controspinta dei poteri inibitori”.
La difesa della Di Chiara chiedeva, invece, escludersi l’aggravante della premeditazione, la concessione delle attenuanti generiche, e le diminuenti dello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui e dei motivi di particolare valore morale. La Corte accolse parzialmente e motivò la sua decisione esaminando il fatto che la Di Chiara aveva divisato di sopprimere il giovane nel caso che costui non avesse soddisfatto i doveri  nascenti dalla sua condotta nei confronti di lei. Inoltre la Corte sulle attenuanti chieste dalla difesa accolse soltanto la non premeditazione chiarendo che “la riflessione, che non è solo il contrapposto del dolo d‘impeto, né si concreta nel semplice proposito di commettere il delitto richiedendo “un quid pluris” della riflessione semplice una maggiore intensità di propositi; ed è  costituito dalla persistenza,  della riflessione per un congruo spazio di tempo si che nell’intervallo tra determinazione ed attuazione, procedono di pari grado l’attuazione progressiva dei poteri inibitori – contro il delitto – fino all’annullamento e l’affinamento nell’organizzazione del delitto, nello apprestamento dei mezzi, onde emerga giusto l’obiettivo specifico dell’aggravante una maggiore intensità di dolo nell’imputato ad una conseguente minorata difesa della vittima. Come la condotta della Di Chiara – motivò la Corte – solarmente denuncia,  nell’animo dei costei, fino a qualche istante prima della consumazione del delitto – si alternarono fino al delirio gli opposti sentimenti della speranza invocante e persistente e della cupa disperazione che la sospingeva fatalmente al tragico gesto finale. In  questo giuoco allucinante – scrivono ancora i giudici nella loro motivazione -  di contrapposti impulsi psichici, non può affermarsi che quel conflitto di opposti atteggiamenti dello spirito sia cessato  in un certo momento e che sia in essa succeduta la statuazione  di commettere il reato che sia rimasta ferma, definitiva, inflessibile per il congruo periodo di tempo prima  dell’attuazione. La “ratio” era ancora da venire,  la cosiddetta premeditazione condizionata. La Corte concesse anche l’attenuante dello stato d’ira. Dopo le rivelazioni dello Iannucci la donna appariva agli occhi dello Zerbino come “una volgare commediante piena di libidine e di turpitudini disposta forsanche  a continuare la  farsa associando alla sua vicenda matrimoniale l’amante di ieri”.  Lo Zerbino aveva diritto di troncare ogni rapporto “ex post”  per sopravvenuto inganno. Non si sa quale esperienza avesse in fatto di donne lo Zerbino tuttavia è chiaro che egli dovette indulgere a simile constatazione per la diversa  valutazione che i settentrionali – in genere – danno dell’integrità della “nubenda”. Può infatti perdonarsi un attimo di smarrimento ma non può pretendersi che si obliteri una condotta pervicace e lussuriosa. La donna non profferì parola  - concludono i giudici – ma sparò solamente l’azione fulminea. Non può essere concessa l’attenuante dei particolari motivi di valore morale e sociale.  Questa la  sentenza emessa il 15 giugno del 19512 contro Giuseppina Di Chiara. In grado di Appello giudicava la Corte di Assise di Napoli, che confermava la sentenza della Corte di Assise di S. Maria C.V. emessa il 15 giugno del 1951, (Presidente Paolo De Lisi, giudice a latere Victor Ugo De Donato, pubblico ministero, Gabriele Migliacci. Giudici popolari: Riccardo Ricciardi, Gennaro Cervo, Gaetano Papa, Giuseppe Di  Chiara e Domenico Barbato). Difensori di parte civile Avv. Franz Zaccaria e Avv. Antonio Giordano,  con la quale la Di Chiara  veniva condannata ad anni 14 di reclusione. A difesa della donna uno dei più quotati avvocati dell’epoca,  Ciro Maffuccini, ed in appello il prof. Giuseppe Fusco.  
Fonte: Archivio di Stato di Caserta





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