Accadde
a Grazzanise il 21 marzo del 1949
Giuseppina Di Chiara uccise il suo fidanzato con quattro colpi di pistola
partorì subito dopo l’arresto.
Portava in grembo
il frutto del suo amore ma,
Vittorio Zerbino, la
vittima, non voleva più sposarsela
perché non era convinto che lui fosse il padre del bimbo. La vita di
campagna, la promessa di nozze, la violenza.
Una dolorante storia di seduzione e di inganno.
Fu il culmine, forse l’ultima
fase di un dramma che serpeggiava da tempo nell’area. Erano da poco passate le
ore 12 del 21 marzo del 1949, allorquando in agro di Grazzanise, Giuseppina Di Chiara, bella e fiera
contadinotta, di anni 25, penetrava nella casa colonica del podere n° 128 di
cui era concessionario Aronne Zerbino,
ed esplodeva 4 colpi di pistola contro Vittorio
Zerbino il quale, gravemente ferito,
moriva dopo 36 ore, presso l‘ospedale di
Capua. La ragazza, dopo il fatto
criminoso, si dava alla fuga invano inseguita per un certo tratto dai familiari della vittima.
I carabinieri di Grazzanise - informati
dopo un’ora e mezza dal delitto – si portavano nel podere e apprendevano da
Aronne Zerbino, padre della vittima - l’ultima fase di un dramma – le cui
lontane radici risalivano all’autunno del 1948. Il vecchio genitore della vittima
dichiarava che quella stessa mattina, verso le 11,30 informato dai familiari
dell’arrivo della Di Chiara – già fidanzata di suo figlio sciagurato – le era
andato incontro per evitare che la discussione – che si annunciava vivace – in
prosieguo di precedenti colloqui – si dilatasse con l’intervento dei suoi
congiunti. Egli invitò la giovane a seguirlo nella stalla. La ragazza aderì
all’invito. Dopo dichiarò di essersi recata da loro per invocare il loro
soccorso, perché attendeva un bambino ed era sfornita di mezzi e dell’appoggio
dei suoi. Insisteva, infine, perché i due genitori del Vittorio consentissero
al matrimonio del giovane con lei, in considerazione del fatto che, il bimbo che ella portava in grembo, era
frutto del loro amore. Alla richiesta della giovane Aronne Zerbino l’avrebbe
invitata ad attendere, dovendo egli consigliarsi sull’oggetto con la moglie, il
cui pensiero era, del resto, già noto alla Di Chiara. Prometteva, comunque, lo Zerbino almeno
aiuti concreti in vista del parto quasi imminente. Se non che egli era appena rientrato ed aveva
raggiunto la moglie al piano elevato, quando sentì con raccapriccio le
detonazioni di vari colpi di pistola nell’ambiante sottostante, dove si
tratteneva presso il camino il figlio Vittorio. Lo rinvennero, infatti,
boccheggiante e riverso a poca distanza dal camino dal quale non era riuscito ad allontanarsi neppure di un
centimetro fulminato dalla scarica letale.
Il fratello di Vittorio, Giannetto,
unico testimone della scena selvaggia, dichiarava di aver visto entrare la
giovane che si fermò sulla soglia restando nell’atteggiamento per pochi secondi.
La donna cavò quindi di tasca l’arma senza pronunciare parola, fece
fuoco contro il fratello con rapidissima successione di colpi. Egli
Giannetto, fu sopraffatto dal panico e non tentò neppure l’intervento che gli
sarebbe forse riuscito fatale. Era seduto sui gradini della scala che porta al
piano superiore. Serbò della scena un vivido ricordo. Il fratello raggiunto dai
colpi si abbattete subito, forse senza neppure percepire in quell’istante la
presenza nemica.
Lo Zerbino aveva conosciuto la
giovane tramite un suo amico, tale Guido
Destro, fidanzato e poi marito di una sorella di Giuseppina Di Chiara.
Ricevette una buona impressione e manifestò all’amico il suo interessamento per
la stessa. Il Destro offrì subito la sua mediazione ed accelerò i tempi. Il 1°
gennaio del 1948 dopo sommari preamboli, i due giovani si fidanzarono. Le
rispettive famiglie sembravano restare estranee alla faccenda, non essendovi
stato alcuno scambio di visita. La Di Chiara frequentò subito la casa degli
Zerbino offrendosi anche per la confezione di abiti per le sorelle del
fidanzato. Costui prestò il proprio lavoro nell’azienda della famiglia di lei.
I migliori auspici presiedevano questi rapporti. Improvvisamente un cattivo genio
gettò la sua ombra nefasta su quelle
zolle. Durante la trebbiatura al podere di Guido Destro, dove era affaccendato
anche Vittorio Zerbino, si presentava certo Pasquale Iannucci da S. Andrea del Pizzone, chiedendo di parlare
col fidanzato della Giuseppina. Vittorio ebbe con lo stesso il colloquio
richiestogli apprendendo dallo Iannucci che la Di Chiara era stata la sua
amante fin dal 1939; che ella lo aveva finanche seguito a Vibo Valentia durante
il suo servizio militare, trattenendosi oltre un mese; che la donna aveva
numerose volte abortito, per sua confessione, per celare la sua condotta
immorale. L’improvvisa rivelazione – di un passato così abietto – non vietò
però al giovane di dare la possibilità alla sua donna di discolparsi. D’accordo
coi genitori – pensosi dell’avvenire del figliolo – fu stabilito un incontro in
casa Zerbino tra lo Iannucci e la Di Chiara. Soluzione suggerita anche da un
amico di famiglia, il Dott. Nicola
Lepore di Casale di Carinola. Quest’ultimo,
infatti, si pose alla ricerca dello Iannucci,
che rinvenne in una cantina in compagnia di tal Domenico Di Chiara che, per invito dello Iannucci lo seguì in casa Zerbino. Lo Iannucci riportò ai
familiari dello Zerbino quanto aveva manifestato a quest’ultimo e sostenne
l’urto della Di Chiara convocata dal fidanzato la quale energicamente confutò
le accuse dello Iannucci ammettendo soltanto d’essersi fidanzata con lui molti anni prima e per un periodo non
eccedente i 15 giorni. Fu una
discussione vivace con spunti di violenza. Dal contegno, però, la Di Chiara
usciva moralmente distrutta e le rosee
prospettive d’un matrimonio felice istantaneamente sfiorivano.
Ancora preghiere e querimonie:
infine tortuosamente va delineandosi un truce proposito.
Senza una comunicazione
ufficiale, tuttavia, il fidanzamento veniva rotto. Il contegno del giovane
assolutamente inerte e distante convinse la giovane dei propositi di quello cui
l’assidua sollecitazione materna prospettava la necessità di troncare ogni rapporto
con la donna a tutela del buon nome e
dell’onore familiare. Ai primi di settembre – perché l’inesperienza e
l’esuberanza giovanile non compromettessero la soluzione raggiunta – i coniugi
Zerbino divisarono di allontanare il loro Vittorio dalla sede dell’impuro
contagio e lo spedivano a Cerignola di Bari affidandolo alla cure e alla
saggezza dei nonni materni. Ivi il giovane restò per circa due mesi non dando contezza di sé all’amica ripudiata.
La Di Chiara si macerava nell’esasperazione e nello sgomento e intanto la gravidanza progrediva. L’inflessibile
risoluzione degli altri non accennava a modificarsi. Ancora preghiere e querimonie: infine tortuosamente
va delineandosi un truce proposito. Guido Destro, infausto pronubo, intuisce foschi disegni nella mente della cognata
– che anche nei suoi confronti in epoca anteriore aveva fatto ricorso al
coltello per vincere la resistenza
manifestata in ordine al celebrando matrimonio con la sorella e pone
sull’avviso Vittorio Zerbino a mezzo di tali
Romero Barbierato e Aldo Cella, ma lo Zerbino ostentava
indifferenza. I giorni volano. La situazione matura e si avvia all’epilogo. Ai
fini di marzo del 1949, la Di Chiara si
porta in casa Zerbino chiedendo cosa fare. Attende un bimbo. Le si risponde che
deve rivolgersi allo Iannucci (il suo ex amante) unico colpevole
dell’incresciosa situazione…
Poi Vittorio Zerbino comunicò
alla pressante giovane che egli condivideva in pieno il pensiero dei genitori e
che considerava chiusa la vertenza. La Di Chiara – al contrario – inseguiva
sempre il suo sogno – forte dei diritti che, a suo avviso, le derivavano dalla
maternità che le fiorisce in grembo. Alla fine un ultimo tentativo, la
mediazione del parroco del luogo Don Francesco Guerriero e più tardi quella
di tal Gaetano Conte, legato alla
sua famiglia da vincoli di parentela spirituale. I buoni uffici di costoro non sortiscono alcun
effetto. Gli Zerbino sono irremovibili nelle loro decisioni. Avevano consentito
al matrimonio benché la ragazza “fosse
povera in canna”, nel comune
desiderio di dare al loro figliuolo una compagna degna ed operosa. Come
avrebbero potuto ora transigere sui requisiti morali? Quando era da mettere in
dubbio perfino la paternità del nascituro che la Di Chiara intendeva attribuire
al loro figliuolo? Quando – addirittura – si vociferava di relazione ancora in
atto tra lo Iannucci e la giovane? L’ultima ripulsa
confermata
agli intermediari data al 18 marzo.
Aveva troppo sofferto e troppo
tollerato, lei misera, perché ancora le reggesse il cuore di fronte a tanta
disumana insensibilità
Il 21 successivo la Di Chiara
in possesso di una rivoltella – acquistata come ella stessa dichiara – nel
settembre del 1948 allorché ebbe la sensazione esatta che tutto fosse finito
per lei, si reca dagli Zerbino col disperato proposito di giungere, comunque,
ad una soluzione. O le si offrirà una mano soccorrevole o sopprimerà
il fedifrago.
Alle 14,30 di quello stesso giorno la Di Chiara si costituiva nelle mani
dei vigili Giovanni Palazzo e Francesco Parente nei quali si
imbatteva dirigendosi alla caserma dei carabinieri di Grazzanise. Interrogata
in ordine al delitto commesso e sui motivi della sua azione la Di Chiara assumeva di essere stata
scacciata - anche quella mattina – dallo
Aronne Zerbino al quale si era rivolta per ottenere almeno un aiuto per le sue
condizioni disperate – essendo stata allontanata da casa dalla madre
preoccupata dei riflessi di un parto nella sua abitazione nei riguardi degli
altri figlioli. Le atroci parole profferite nei suoi confronti da Aronne
Zerbino le avevano vieppiù esacerbata l’anima. Un’ultima speranza la guidò
verso Vittorio – che però non volle darle ascolto e la scacciò in malo modo. Aveva
troppo sofferto e troppo tollerato, lei misera, perché ancora le reggesse il cuore
di fronte a tanta disumana insensibilità. Il contegno degli Zerbino era del
tutto ingiustificato. Quando ella cedette
alle bramosie del giovane – il 2
luglio del 1948 – in campagna, costui
ben potette constatare l’integrità fisica tanto è vero che i rapporti
continuarono e si era anche fissata la data delle nozze per l’ottobre. Questo
dato obiettivo doveva da solo costituire d’ogni credito alla base insinuazioni
fatte sul suo conto dallo Iannucci al quale ella non aveva mai concesso
alcunché. Quest’uomo voleva rientrare nella sua vita e sbarrarle il passo nella
speranza che – alla fine – avrebbe
ceduto. Invenzioni diaboliche sui precedenti di siffatto abominevole disegno.
Responsabili tutti quanti del suo gesto. Un mese dopo la Di Chiara – nel
carcere femminile di Arienzo – dava alla luce una bambina.
Una condanna
definitiva a 14 anni. Il Pubblico
ministero chiese una condanna ad anni 20
e mesi sei di reclusione.
Chiusa
l’istruttoria formale la Di Chiara veniva rinviata a giudizio per omicidio
e i genitori della vittima Aronne Zerbino e Domenica Mariotto si costituivano parte civile col beneficio del
gratuito patrocinio. Il Pubblico
ministero, a conclusione della sua
requisitoria chiese per la donna, con la concessione delle attenuanti generiche,
una condanna ad anni 20 e mesi sei di reclusione. “E’ evidente la volontà e la
premeditazione – disse il pubblico ministero – in quanto la pistola fu
acquistata quando la vittima era a Cerignola; la confessione della imputata che
fece l’acquisto per consumare la sua vendetta; l’esternazione dei suoi propositi
di vendetta esternati anche ai familiari ed in definitiva – disse il p.m. – il
radicarsi del proposito criminoso nella psiche dell’agente in modo persistente
e definitivo, determinazione ferma
incrollabile tetragona a qualsiasi controspinta dei poteri inibitori”.
La
difesa della Di Chiara chiedeva, invece, escludersi l’aggravante della
premeditazione, la concessione delle attenuanti generiche, e le diminuenti
dello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui e dei motivi di
particolare valore morale. La Corte accolse parzialmente e motivò la sua
decisione esaminando il fatto che la Di Chiara aveva divisato di sopprimere il
giovane nel caso che costui non avesse soddisfatto i doveri nascenti dalla sua condotta nei confronti di
lei. Inoltre la Corte sulle attenuanti chieste dalla difesa accolse soltanto la
non premeditazione chiarendo che “la riflessione, che non è solo il
contrapposto del dolo d‘impeto, né si concreta nel semplice proposito di
commettere il delitto richiedendo “un quid pluris” della riflessione semplice
una maggiore intensità di propositi; ed è costituito dalla persistenza, della riflessione per un congruo spazio di
tempo si che nell’intervallo tra determinazione ed attuazione, procedono di
pari grado l’attuazione progressiva dei poteri inibitori – contro il delitto –
fino all’annullamento e l’affinamento nell’organizzazione del delitto, nello
apprestamento dei mezzi, onde emerga giusto l’obiettivo specifico
dell’aggravante una maggiore intensità di dolo nell’imputato ad una conseguente
minorata difesa della vittima. Come la condotta della Di Chiara – motivò la
Corte – solarmente denuncia, nell’animo
dei costei, fino a qualche istante prima della consumazione del delitto – si
alternarono fino al delirio gli opposti sentimenti della speranza invocante e
persistente e della cupa disperazione che la sospingeva fatalmente al tragico
gesto finale. In questo giuoco
allucinante – scrivono ancora i giudici nella loro motivazione - di contrapposti impulsi psichici, non può
affermarsi che quel conflitto di opposti atteggiamenti dello spirito sia
cessato in un certo momento e che sia in
essa succeduta la statuazione di
commettere il reato che sia rimasta ferma, definitiva, inflessibile per il
congruo periodo di tempo prima
dell’attuazione. La “ratio” era ancora da venire, la cosiddetta premeditazione condizionata. La
Corte concesse anche l’attenuante dello stato d’ira. Dopo le rivelazioni dello
Iannucci la donna appariva agli occhi dello Zerbino come “una volgare
commediante piena di libidine e di turpitudini disposta forsanche a continuare la farsa associando alla sua vicenda
matrimoniale l’amante di ieri”. Lo
Zerbino aveva diritto di troncare ogni rapporto “ex post” per sopravvenuto inganno. Non si sa quale
esperienza avesse in fatto di donne lo Zerbino tuttavia è chiaro che egli
dovette indulgere a simile constatazione per la diversa valutazione che i settentrionali – in genere
– danno dell’integrità della “nubenda”. Può infatti perdonarsi un attimo di
smarrimento ma non può pretendersi che si obliteri una condotta pervicace e
lussuriosa. La donna non profferì parola
- concludono i giudici – ma sparò solamente l’azione fulminea. Non può
essere concessa l’attenuante dei particolari motivi di valore morale e sociale. Questa la sentenza emessa il 15 giugno del 19512 contro Giuseppina Di Chiara. In grado di
Appello giudicava la Corte di Assise di Napoli, che confermava la sentenza
della Corte di Assise di S. Maria C.V. emessa il 15 giugno del 1951,
(Presidente Paolo De Lisi, giudice a
latere Victor Ugo De Donato,
pubblico ministero, Gabriele Migliacci.
Giudici popolari: Riccardo Ricciardi,
Gennaro Cervo, Gaetano Papa, Giuseppe Di
Chiara e Domenico Barbato).
Difensori di parte civile Avv. Franz
Zaccaria e Avv. Antonio Giordano, con la quale la Di Chiara veniva condannata ad anni 14 di reclusione. A
difesa della donna uno dei più quotati avvocati dell’epoca, Ciro
Maffuccini, ed in appello il prof. Giuseppe
Fusco.
Fonte: Archivio di Stato di
Caserta
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