Ferì lo zio che
ostacolava le
nozze della figlia e uccise un operaio che era in sua
compagnia
Accadde tra Frignano Maggiore e Frignano Piccolo nel 1945
Luigi Della Corte
aveva contro suo zio un particolare motivo di rancore. Egli aveva richiesto in
moglie sua cugina Teresa Della Corte, figlia di Giovanni ma la sua richiesta
era stata respinta anche perché la
cugina era laureata in chimica e farmacia e di condizioni economiche e sociali
diverse dalla sua semplice operaio nullatenente.
Frignano
-
Il 5 ottobre del 1945 verso le ore 18, Giovanni Della Corte, da S. Marcellino, procedendo la via Provinciale
Frignano Maggiore – Frignano Piccolo
si dirigeva con un carrozzino
verso Frignano Piccolo dove abitava in compagnia del suo operaio Carlo Conte e tale Andrea Marfugi, che gli
aveva poco prima chiesto un passaggio da Ducenta fino a Frignano Piccolo.
Giunti in località “Cava de Rosa” a poca distanza da Frignano Piccolo, Giovanni Della
Corte fu fatto segno a ripetuti colpi di arma da fuoco esplosi da persona
appostata su un fondo fiancheggiante la via. Il Della Corte venne attinto alla
guancia e alla spalla destra. Carlo Conte fu colpito da un proiettile nella
regione sottoscapolare destra e Andrea Marfugi che aveva chiesto il passaggio
rimasto miracolosamente incolume si getto dal carretto mentre Giovanni Della
Corte spingeva il cavallo….”Tocca!….Tocca!”…e
rientrò a casa sua a Frignano Piccolo
trasportando il Conte che, esanime, si era abbattuto sul fondo del carrozzino. Il
Conte, per la grave ferite riportata che aveva leso gli organi interni
decedette appena trasportato nella sua abitazione. Il Comandante dei
carabinieri di Frignano Piccolo accorse in casa di Giovanni Della Corte verso le 19 e da lui apprese che ad
esplodergli contro i colpi di rivoltella
erano stati suo nipote, Luigi
Della Corte ed il padre Vincenzo,
suo fratello. La causale del fatto era stato il profondo odio che il fratello
Vincenzo e la su famiglia nutrivano contro Giovanni Della Corte. I germani
Giovanni e Vincenzo Della Corte – si
appurò nel corso della indagine –
avevano ereditato dagli antenati diversi beni ma, mentre Giovanni aveva
accresciuto il suo patrimonio con il suo lavoro, Vincenzo aveva dissipato tutto in pochi anni
e si era ridotto in miseria. Giovanni
Della Corte diverse volte aveva soccorso il fratello - come nella occasione di
quando, per ottenere il fitto di un
fondo di proprietà della Parrocchia del Santo Spirito di Aversa, dette la propria garanzia al Parroco Don Vincenzo Montesano facendo intestare al
proprio nome il contratto di fitto. Ma Vincenzo Della Corte si era reso moroso
ed il Parroco Montesano aveva ottenuto dal Pretore una sentenza di sfratto per
la conduzione del fondo.
Vincenzo Della Corte tentò in tutti i modi di riavere
il fondo ma il Parroco Montesano, che lo aveva già fittato ad altri, non volle accogliere la sua richiesta. Questo fatto aveva ancora acuito il dissidio
tra i due fratelli. Vincenzo riteneva (a torto) che il fratello Giovanni
l’avesse osteggiato nella vertenza col Montesano istigandolo contro di lui e per tale fatto e
per un sentimento di gelosia verso di lui sentiva rancore contro il fratello.
Il figlio Luigi aveva contro suo zio un particolare motivo di rancore. Egli aveva
richiesto in moglie sua cugina Teresa
Della Corte, figlia di Giovanni ma la sua richiesta era stata respinta
anche perché la cugina era laureata in
chimica e farmacia e di condizioni economiche e sociali diverse dalla sua
semplice operaio nullatenente. Alcuni mesi prima del fatto il giovane Luigi
Della Corte si era recato in casa dello zio Vincenzo ed aveva fatto delle
minacce per indurre la cugina ed i genitori a consentire al suo matrimonio con
la stessa. Aveva anche fatto delle minacce al Dottor Alfonso Santoro da Frignano Maggiore, da lui ritenuto aspirante al matrimonio con la
cugina. I carabinieri interrogarono numerosi testi: Nicola Laudante, Salvatore Conte, Guglielmo Pellegrino, Andrea Marfugi, che erano nei pressi della
zona al momento degli spari, ed essi dichiararono di aver visto solo Luigi
Della Corte sparare contro lo zio e subito dopo fuggire. Gli investigatori,
però, erano convinti che a sparare fossero stati padre e figlio. Nella
continuazione degli interrogatori di Achille Fabozzi e Raffaele Quarto, i
carabinieri appresero che dopo il ritorno di Giovanni Della Corte ferito a
Frignano Piccolo il fratello Vincenzo Della Corte era stato notato nella Piazza Cappella per
cui era da escludersi una sua partecipazione alla sparatoria commessa da figlio
Luigi. Nonostante ciò, i carabinieri ritennero che a consumere materialmente il delitto fosse stato Luigi
Della Corte ma, per istigazione del padre e della madre, Carmela
Pellegrino conosciuta in paese come una donna “astuta e perfida”.
Con loro rapporto intanto i
carabinieri denunciavano Vincenzo Della Corte, Luigi Della Corte e Carmela Pellegrino
per concorso nell’omicidio di Carlo Conte e per tentato omicidio nei confronti
di Giovanni Della Corte.
Prima della chiusura
dell’istruttoria si verificò un singolare fatto. Due agricoltori, Giovanni Giorgio Abbate e Antonio De Carlo, si presentarono spontaneamente al Giudice
Istruttore dichiarando di aver notato delle persone che sparavano contro il
carrozzino di Giovanni Della Corte. Un
terzo testimone “oculare” tale Michela
Parato dichiarò di aver visto – dopo
lo sparo – fuggire insieme padre e figlio. Anche altri testi opportunamente interpellati confermarono
l’esistenza del dissidio e le minacce
che il giovane aveva fatto al futuro marito della cugina. Tratti in arresto
– dopo un periodo di latitanza – (marito, moglie e figlio) tutti accusati dai
carabinieri di concorso in omicidio e tentato omicidio. La donna Carmela Pellegrino, in
particolare, che si protestò totalmente
innocente e negò recisamente sia la partecipazione
al delitto che l’istigazione allo stesso. Chiarì, tra l’altro, che poco prima del delitto il marito si era
recato a S. Marcellino dall’Avv. Ernesto
Conte, da lui incaricato di
assisterlo nella controversia con il parroco Montesano per lo sfratto del fondo
e l’avvocato gli aveva detto che “legalmente
non c’era niente da fare” e che tuttavia bisognava attendere l’intervento
sollecitato dal vescovo di Aversa a suo favore presso il parroco Montesano e lo
inviò dal sacerdote Don Crescenzo De
Marco, vicario della Curia Vescovile
di Aversa per avere notizie sull’operato del Vescovo. Venne fuori anche un
curioso particolare. Quando Vincenzo Della Corte scendeva le scale della casa dell’avv. Conte si incontrò con il
fratello Giovanni e non si salutarono.
Poi Vincenzo Della Corte si recò dal sacerdote De Marco e si trattenne vario
tempo con lui. Poi attraverso una via scorciatoia aveva raggiunto la propria
abitazione a Frignano Piccolo dove aveva appreso dell’uccisione del fratello
per mano del figlio Luigi. Interrogato il vecchio espose il suo alibi di
ferro e poiché non “era S. Tommaso e non aveva il dono della ubiquità” – non poteva
nello stesso momento trovarsi in Piazza e sul luogo del delitto distante alcuni
chilometri. Era stato, infatti, visto in
concomitanza nella piazza del paese. Luigi Della Corte, assassino reo confesso, affermò nel corso del suo interrogatorio di
aver esploso dei colpi di rivoltella contro lo zio Giovanni da solo e
giustificò il suo atto asserendo che avendo incontrato lo zio Giovanni che si
dirigeva col carrozzino verso Frignano
Piccolo, lo chiamò, per pregarlo di intervenire presso il
Sacerdote per fare revocare lo sfratto al fondo condotto in fitto dal padre ma
questi lo colpì con il manico del frustino che adoperava per aizzare il cavallo
al trotto. Il giovane – adirato per il
contegno dello zio – aveva esploso dei colpi di rivoltella contro il cavallo
per fermarlo ed altri colpi contro il carrozzino che si allontanava ma non pensava di aver
ferito qualcuno. La perizia ordinata dai magistrati inquirenti accertò che Giovanni Della Corte era guarito dopo
alcuni giorni mentre l’operaio Carlo Conte, per le ferite riportare era deceduto. Durante
la fare istruttoria la mamma dell’assassino venne scarcerata per “insufficienza di prove” dal reato di
concorso in omicidio. La Sezione istruttoria rinviò al giudizio della Corte di
Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere sia Luigi Della Corte che il
padre Vincenzo per rispondere entrambi
di concorso in omicidio e aberratio ictu parte offesa Giovanni Della Corte.
Durante le fasi preliminari e dall’epoca del delitto e quindi dell’arresto alla
fissazione della prima udienza, Luigi
Della Corte venne numerose volte ricoverato
in manicomio per evidenti segni di “squilibrio mentale”. Fu disposta una
perizia psichiatrica ed il perito concluse che “sì, al momento del fatto aveva
la capacità di intendere e volere, però, successivamente dopo la carcerazione (
vedi sindrome Ganser ) presentava una sindrome pseudo demenziale o del Ganser
che gli toglieva la coscienza e gli impediva
di poter assistere al pubblico dibattimento”. Il processo – con apposita
ordinanza – fu sospeso e fissatolo, dopo
un certo lasso di tempo, l’imputato non
potette intervenire perdurante il suo stato di infermità. Sentito dalla Corte
il perito confermò la diagnosi del morbo del Ganser ( toglie la coscienza dei propri atti ) e che
non era possibile, allo stato, riferire sulla durata della malattia.
La Corte di Assise di S. Maria C.V. condannò Luigi
Della Corte ad anni 22 di reclusione con la premeditazione e la concessione
delle attenuanti generiche aggravata dalla recidiva specifica (aveva tentato di
uccidere un suo amico). Assolse il padre Vincenzo per insufficienza di prove.
Nel 1954 in
sede di appello, gli fu riconosciuto il
vizio totale di mente.
Nella prima udienza era
comparso il padre Vincenzo Della Corte, poiché per il figlio Luigi vi era il ricovero in manicomio, il quale insisteva
per essere giudicato e chiedeva la separazione dei processi (ovvero lo
stralcio). La Corte di Assise di S.
Maria C. V. (Presidente, Giulio La Marca,
giudice a latere, Domenico Musicco,
pubblico ministero, Salvatore D’Auria), in quella data rimandarono in attesa della
ipotetica guarigione del giovane. Il 3 ottobre del 1949, con un dispaccio diretto al Presidente della Corte
di Assise il direttore delle Carceri di S. Maria C.V. comunicava che il
detenuto Luigi Della Corte, di anni
20 dava segni di squilibri mentali e che
si rifiutava di mangiare e quindi se ne proponeva il ricovero urgente in un
manicomio giudiziario essendo lo stesso
pericoloso per sé e per gli altri. La successiva nota del sanitario del manicomio giudiziario di Aversa presso il
quale era stato internato (essendo stato fissato il processo in Corte di Assise
ed avendo avuto la notifica per comparire in udienza) aggravava ancora di più
la posizione dell’imputato: “Non ha la
voglia di uscire dalla cella, non si lava, non effettua il passeggio, tenta di
isolarsi, ed è tutt’ora in preda ad uno
stato confusionale con alternativa di eccitamento e depressione e si alimenta
in modo irregolare. Ha bisogno di essere guardato a vista per gli atti
impulsivi ai quali sovente si abbandona. Persiste la necessità di protrarre la
degenza manicomiale. Lo stesso – in definitiva – diceva lo psichiatra “Non è idoneo scientemente al giudizio. Egli
è confuso, negativista a volta sitofobo e soggiace a crisi depressive di
notevole grado. Poi il direttore del manicomio informava il Presidente
della Corte di Assise che una eventuale insistenza per far comparire l’imputato
in udienza doveva essere disposta con “traduzione
dei folli” cosa che non era possibile in quanto le strutture di Aversa non
prevedevano un equipaggio attrezzato a
tali traduzioni. Nel manicomio
giudiziario di Aversa vi era stato già un drammatico fatto che aveva
interessato un parente dell’imputato. Un
suo zio materno omonimo era stato ricoverato nel manicomio il 14 agosto del
1944 perché aveva tentato il suicidio ed
era deceduto dopo pochi giorni in seguito a collasso. Il tutto fu evidenziato
dalla difesa del Della Corte con un atto
di notorietà sottoscritto da quattro
testimoni: Angelina Aprile,
Giuseppe Di Gennaro, Salvatore e Giuseppe Cantile. Dopo 4 anni il processo
riprese in quanto l’imputato fu ritenuto “guarito”.
Poi emisero la sentenza contro Luigi
Della Corte imputato di concorso in omicidio premeditato in persona di Carlo
Conti per “aberratio ectu e
rimanendo altresì offeso Giovanni Della Corte al quale l’offesa
era diretta.
Avv. Pompeo Rendina |
La fase dibattimentale
fu molto combattuta e testimoni falsi tentarono di coinvolgere a tutti i costi
il fratello contro il fratello. A sostenere l’accusa non era soltanto Vincenzo Della Corte (rimasto ferito
nella sparatoria ) ma anche i figli Teresa
(la mancata sposa) i testimoni Giorgio
Abetegiovanni, Antonio De Carlo, Michelina Parato ma i giudici non credettero alle
loro affermazioni. Anche perché gli stessi deposero innanzi al drappello della
P.S. dell’ospedale dei Pellegrino, al
Procuratore della Repubblica, al Giudice Istruttore ed infine in udienza, cambiando continuamente versione. Vi era una
contraddizione nelle loro affermazioni sia in ordine ai colpi di rivoltella che
alla frase dell’operaio morto che prima
di morire disse ai due (padre e figlio):” Non mi uccidete”. Il fratello rispose
: “Vuoi fare da testimone? E lo
uccise – tutte queste dichiarazioni in favore di Giovanni Della Corte furono
ritenute dai giudici falso!!! Infatti,
forse, preso dal rimorso Giovanni Della
Corte, la vittima ferita, in udienza
dichiarò che lui - in coscienza - aveva visto
solo Luigi sparare contro di lui. I giudice ritennero che le dichiarazioni
erano contraddittorie e l’una distruggeva il contenuto dell’altro e viceversa. Tutte dichiarazioni boomerang
insomma!
Avv. Francesco Lugnano |
La Corte di Assise di S. Maria
C.V. condannò Luigi Della Corte ad anni 22 di reclusione con la premeditazione
e la concessione delle attenuanti generiche aggravata dalla recidiva specifica
(aveva tentato di uccidere un suo amico. Assolse il padre Vincenzo per
insufficienza di prove. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati gli
avvocati: Vito Califano, Ettore Botti,
Vittorio Verzillo, Francesco Lugnano, Ciro Maffuccini, Pompeo Rendina e
Giuseppe Garofalo. Nel 1954, difensore Giuseppe Garofalo,
in sede di appello, gli fu riconosciuto il vizio totale di mente.
La perizia redatta dallo psichiatra Pasquale
Coppola, Primario Alienista del Manicomio Giudizio di Aversa aveva decretato la sua infermità non
considerata dai primi giudici.
Fonte: Archivio di Stato
di Caserta
Nessun commento:
Posta un commento