DUE
ASSURDI DELITTI
UCCISE
UN GIOVANE PER IL FURTO DI UNA PATATA DA
UNA CALDAIA MESSA A BOLLIRE PER IL PASTO DEI MAIALI.
Il
SECONDO FATTO DI SANGUE
UCCISE IL CUGINO CON UN CALCIO PER I POLLI CHE AVEVANO
BECCATO LA SUA PIANTAGIONE DI
CAVOLI
Accadde a Maddaloni il 22 settembre e il 16 ottobre del 1949
Maddaloni
-
I carabinieri di Maddaloni, in un rapporto del 22 settembre del 1949,
informavano la locale Pretura che, alle ore 8,30 dello stesso giorno, Clemente Vinciguerra, di anni 72, aveva esploso due colpi di
pistola – a breve distanza – contro il giovane Giuseppe Merola, riducendolo
in fin di vita. Riferivano, inoltre, che il Merola era deceduto in seguito ad
unico colpo di arma da fuoco da cui era stato attinto alla regione del fianco
destro, tra l’ascellare medio e l’ascellare posteriore, con lesione del rene
sinistro e shock addominale, di lesioni al colon. Al Pretore, recatosi ad
interrogarlo in ospedale il Merola, prima di morire, narrava che il
Vinciguerra, guardiano della fattoria in cui lavorava, avendo egli preso una
patata da una caldaia ed avendogli fatto rilevare la irrilevanza del fatto gli
aveva esploso due colpi di pistola. Il Vinciguerra, tratto in arresto,
dichiarava che, avendo rimproverato il Merola –
per avere preso qualche patata -
e per una precedente sottrazione di uva – il Merola gli era andato
incontro con faro minaccioso e portando la mano alla tasca dei calzoni egli nel timore di essere sopraffatto aveva
fatto uso della pistola. Dalle indagini compiute risultò che sia il Vinciguerra che il
Merola erano operai agricoli alle dipendenze di Aniello Cerreto, il
primo quale persona di fiducia del proprietario. In una pausa di lavoro, il
Merola, passando vicino al Vinciguerra, aveva notato che costui faceva bollire
le patate per i maiali, ne aveva, allora, presa una per mangiarla. Al rimprovero
del vecchio egli fece presente subito che il padrone non avrebbe fatto alcuna
osservazione e che lo rispettava come vecchio. Tale frase irritò il Vinciguerra
che estratto una pistola - di cui andava
armato senza licenza – esplodeva contro
il Merola due colpi dandosi poi alla fuga.
Il
testimone oculare
Al fatto assistette Michele Izzo, nipote del Vinciguerra,
il quale riferì che giunti avanti la tettoia adiacente la masseria il Merola
aveva preso una patata dove si trovavano a bollire e lo stesso aveva fatto esso
Izzo di qui l’intervento del Vinciguerra che aveva ordinato loro di posare le
patate rubate. Il Merola e il Vinciguerra avevano parlato concitatamente senza,
però, che alcune minacce fosse stata posta in essere dal primo dei due. Il
Merola, anzi, voleva recarsi dal padrone per chiedergli il permesso ed avevano
fatto alcuni passi, quando il Vinciguerra fermatosi prese ad accusare il
giovane di essersi precedentemente appropriato di uva; al che il Merola rispose
che era stato autorizzato dal padrone e che lui lo rispettava come un vecchio. Improvvisamente udì uno sparo –
voltatosi – notò che il Merola era stato ferito, senza però vedere in che modo
fosse stato colpito. Escludeva, infine, l’Izzo, a conclusione della sua deposizione che il Merola avesse rivolto al Vinciguerra con la frase (
riferita dall’assassino ) “se non fosse stato vecchio gli avrebbe fatto uscire
il sangue dalla bocca”. Salvatore
Fortunato, Giuseppe Di Vico e Domenico
Razzano, altri operai che si
trovavano poco lontano percepirono lo sparo dei due colpi di pistola e poco
dopo videro venire loro incontro il Merola che si lamentava di essere stato
sparato dal Vinciguerra per una patata. Il proprietario del fondo Aniello Cerreto, riferì come il Vinciguerra
fosse di carattere collerico mentre il Merola era individuo calmo ed escludeva
che questi avesse potuto usare violenza contro il primo. Precisava inoltre
che, il Vinciguerra alcuni giorni prima
gli aveva manifestato alcuni sospetti contro il Merola in ordine ad una
sottrazione di uva, ma egli aveva fatto notare che trattandosi di uva scadente
non aveva dato alcun peso alla cosa.
Il
delitto per il furto della patata
Nel mese di ottobre del 1949 era giunto alla
stazione dei carabinieri di Maddaloni un referto – inviato dal locale ospedale
con il quale si comunicava il decesso di tale Antonio Crisci, di anni 41, avvenuta per peritonite in seguito ad
una grave aggressione. I carabinieri accertarono che il giorno precedente, in
località Perrone di Maddaloni, i coloni Antonio Crisci di anni 41, del posto, e
Libero Crisci, di anni 28, erano venuto alle mani per futili motivi.
Nella lite Antonio Crisci aveva ricevuto dall’altro un violento calcio. In seguito alle ferite
era morto in ospedale. Ma quale era il movente del delitto? Quali i motivi per
i quali i due contadini vennero alle mani? Alcuni polli di proprietà della
vittima avevano prodotto danni ad una piantagione di cavoli nel suo fondo
confinante. Il cosiddetto delitto del… cavolo! Per tale deprecabilissimo fatto
(esageratamente considerato dai contadini attaccati alle loro proprietà)
sarebbero bastate le scuse dei relativi proprietari di fondi ma la lite scoppiò
violenta e drammatica per la caparbietà
di Fabrizio Crisci. Questi, infatti, per constatare i danni che l’invasione di polli aveva
provocato alla sua coltivazione di cavoli, prima si rivolse al servizio delle
Guardie Campestre – le quali – peraltro constatarono che si trattava di danni
di bassissima entità – e poi, non
contento del responso delle Guardie Campestri, Fabrizio Crisci aveva addirittura fatto intervenire (il
giorno precedente al delitto) il Professore di agraria Francesco
Mammone, da Maddaloni per fargli stilare una perizia per la contestazione e
la conseguente stima dei danni. Libero
Crisci, prima di morire diede la sua versione dei fatti e ci tenne a ribadire – che egli si era sempre
prestato per risarcire il danno provocato dai suoi polli nella giusta misura e che era esagerata la pretesa del suo parente. Durante le
operazioni peritali, però, egli si era lagnato del fatto che stando sul suo fondo mentre si
procedeva ad una contestazione di danni che avrebbe dovuto lui risarcire senza
– però – che fosse stato minimamente avvisato per difendersi eventualmente con
un suo consulente di parte ed in contraddittorio e addirittura che Fabrizio
Crisci lo aveva apostrofato con una frase ingiuriosa testuale: “Sei un
fetente!”. Ma egli di rimando gli aveva risposto che “era un fetente e mezzo”. Vi erano stato altri battibecchi e alterchi
finché non era intervenuto il figlio di esso,
a nome Libero, ed altri suoi parenti che lo avevano circondato,
aggredito, percosso e quasi spogliato. Ma il pronto intervento del Prof.
Mammone era valso a liberarlo. Ma mentre
se ne stava ritornando alla sua masseria – a pochi passi dal luogo
dell’aggressione – era stato rincorso e nuovamente aggredito sia dal cugino
Fabrizio, che dal nipote Libero e mentre
il primo lo aveva preso e tenuto per le spalle,
l’altro gli aveva vibrato un fortissimo calcio al ventre, provocandogli dolori che lo avevano fatto
cadere a terra. Strisciando per terra era riuscito ad arrivare fino alla porta
della sua abitazione dove era svenuto. Nella sua deposizione indicò come testi la
moglie Lucrezia Di Marco. Intanto
Libero Crisci, subito dopo l’aggressione dello zio si rese latitante,
venne fermato dai carabinieri ma il magistrato non convalidò il suo fermo in
arresto. Il 17 ottobre, però, a seguito del decesso del Crisci, era stato spiccato un mandato di cattura nei
confronti del giovane, accusato di
omicidio preterintenzionale, che, però, si costituì dopo alcuni giorni. La sua
versione dei fatti fu diametralmente opposto a quello dello zio. Dichiarò che
egli, mentre era intento a zappare il
terreno di suo proprietà assieme alla sorella Anna, aveva sentito Antonio Crisci ingiuriare suo
padre Fabrizio con frasi pesanti: “Marijuolo…uomo da niente.. fetente… sei hai
coraggio vieni qui”… Lui era corso sul posto ed aveva diviso i due litiganti
che già erano avvinghiati. In ciò – precisa – era stato aiutato dal prof.
Mammone che, si era allontanato da
poco, e sentite le grida era ritornato
indietro. Mentre, però, egli se ne stava
ritornando alla sua masseria, era stato rincorso nuovamente dalla moglie di
Antonio Crisci e dallo stesso zio che lo avevano aggredito e quest’ultimo
addirittura gli aveva dato un morso che quasi gli aveva staccato un dito. Per
allentare la presa aveva sferrato il calcio. Negò la circostanza – già riferita
dallo zio in punto di morte – secondo la quale il padre aveva trattenuto lo zio
e lui aveva vibrato il calcio. Fu accertato che effettivamente – come dichiarò
il medico legale – che il giovane aveva una lesione al pollice della mano
destra. L’esame autoptico – disposto dalla
magistratura sul cadavere di Antonio
Crisci – accertò che “tranne la già riscontrata rottura dell’intestino tenue
per cui vi era stata resezione di un buon tratto di questo” niente altro di
patologico si era notato nei vari organi ed apparati e quindi detta lesione
fu determinata da trauma diretto ( calcio o pugno o
ginocchiata, sferrata con estrema violenza e pressione tanto da produrre lo
scoppio delle anse intestinali in quel punto schiacciandole contro le ossa del
bacino) cagionando un processo infiammatorio acuto di tutto il pacchetto
intestinale e del peritoneo per la
virulenza dei germi della flora intestinale ed il versamento enterico in cavità
con le sue abnormi fermentazioni erac stata la “sola causa della morte” di
Antonio Crisci. Il Dr. Salvatore Sagnelli, da Maddaloni, nel
pomeriggio dell’11 ottobre del 1949 – chiamato d’urgenza – visitò Antonio
Crisci e riscontrò una contusione addominale con sospetta rottura di qualche
tratto dell’intestino. Aggravandosi le condizioni del ferito il giorno seguente
fu fatto ricoverare all’Ospedale civile di Maddaloni, dove venne operato di laparotomia, e questa
dimostrò che a metà dell’intestino tenue si era aperto un foro della grandezza
di un vecchio soldo e che un buon tratto di questo intestino era stato
fortemente maltrattato e si procedeva quindi alla recessione di 10 centimetri
di esso, ma, per la peritonite in atto,
il Crisci moriva il giorno dopo.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
A chiusura della complessa
istruttoria formale, la Sezione della Corte di Appello di Napoli, rinviava
l’imputato al giudizio della Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua
Vetere, per rispondere di omicidio aggravato, per omessa denuncia dell’arma,
con la contestazione della recidiva specifica per quanto atteneva il porto
abusivo di armi. Evidentemente il Vinciguerra era stato già condannato – nei
cinque anni precedenti – per porto e detenzione di armi. L’imputato nel
processo si difese asserendo di aver esploso un colpo nel terreno ad esclusivo
scopo intimidatorio e di avere esploso il secondo colpo contro il Merola, solo quando questi, mentre con una mano lo teneva afferrato per
una spalla, con l’altra (la destra)
faceva la mossa per estrarre un coltello (prima aveva detto una pistola). Clemente Vinciguerra, giudicato dalla
Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, (composta dal
Presidente Pietro Giordano, giudice
a latere Victor Ugo De Donato,
pubblico ministero, Pasquale Allegretti,
cancelliere Domenico Aniello,
ufficiale giudiziario, Giuseppe Girardi)
la stessa affermava la sua colpevolezza, condannandolo per omicidio
preterintenzionale, con le aggravanti contestate, alla pena di anni 22 di
reclusione e mesi 8. Di questa sentenza
– come spesso accade, ma spessissimo ci sono motivi solamente strumentali e
dilatori per gli appelli – nessuno
rimase contento. Il Pubblico Ministero l’appellò, perché aveva chiesto una pena
maggiore e non era soddisfatto, cioè secondo il suo parere la condanna non era
adeguata (al turbamento sociale arrecato) al reato, non era equa nei confronti della società che
era stata disturbata. La pubblica accusa sosteneva infatti che non poteva
trattarsi di omicidio preterintenzionale, bensì di omicidio volontario e per
questo aveva chiesto una condanna a 30 anni di reclusione. “Vi era volontà omicida – disse il pubblico ministero nel corso
della sua requisitoria – e deve
rispondere di omicidio volontario che si desume sia dalla sua personalità che
dalle modalità dell’esecuzione”. L’imputato,
fece appello, attraverso i suoi
difensori, gli avvocati Vittorio
Verzillo e Giacomo Iacuzio, per
avere la concessioni delle attenuanti e quindi una riduzione della pena con la
pretesa difensiva di avere almeno le attenuanti della provocazione. La difesa
chiese anche alla Corte di esaminare la possibilità di concedere l’eccesso
colposo di legittima difesa. In subordine, fu invocata la scriminante dello stato d’ira. Giudicato in sede di Appello, dalla Corte di Assise di Appello di Napoli
(Presidente Nicandro Siravo, a
latere, Gennaro Guadagno, pubblico
ministero Filippo D’Errico), avverso
la sentenza della Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del
24 marzo del 1952, con la quale era
stato condannato alla pena di anni 22 e
mesi 8
di reclusione e mesi 4 di arresto, per omicidio preterintenzionale in
persona di Giuseppe Merola, per poco non corse il rischio di vedersi aggravata
la condanna. A motivazione della propria
sentenza la Corte di Assise di Appello di Napoli osservava che entrambe le
doglianze (cioè le richieste sia della pubblica accusa – che dell’accusa
privata cioè la parte civile che per
l’occasione era rappresentata dall’avv. Francesco Lugnano, e sia, infine, dell’imputato)
andavano disattese entrambe. Respinse la richiesta della pubblica accusa della
contestazione dell’omicidio volontario; respinse la richiesta della difesa (non
era vero che la vittima aveva pronunciato la frase: ”Se non fosse stato vecchio gli avrei fatto scorrere il sangue al naso)
tesi – dissero i giudici di appello -
che era stata confermata in udienza del teste Michele Izzo (testimone oculare del delitto); neppure l’imputato stesso
ne parlò nella prima deposizione. L’imputato ha ucciso per un motivo futile –
dissero i giudici di secondo grado –
spinto all’azione lui sparò “per
il semplice fatto che il Merola aveva
preso una sola patata dalla caldaia che egli era intento a sorvegliare”.
Però – a parere dei giudici - era una volontà che non mirava ad uccidere (per
cui andava respinta la richiesta della pubblica accusa di contestare
all’imputato l’omicidio volontario e non l’omicidio preterintenzionale); “una condotta sproporzionata, una condotta che deve condurre ad una volontà
generica di ledere, tuttavia, insufficiente ad integrare gli estremi del dolo specifico del reato di omicidio in
cui occorre l’intenzione particolare dello agente di raggiungere il fine di
uccidere”. In conclusione i giudici d’appello negarono perfino la
concessione delle attenuanti generiche e confermarono in tutto il verdetto del
primo grado.
Il processo a Crisci. La Corte, dopo le arringhe difensive, con la
concessione delle sole attenuanti generiche
condannò il Crisci a 7 anni di reclusione.
Libero
Crisci, 28 anni all’epoca dei fatti, da Maddaloni, venne arrestato il 17 ottobre del
1949 e accusato di omicidio preterintenzionale per avere mediante un calcio
vibrato all’addome di Antonio Crisci, prodotto al medesimo lesioni di organi
interni addominali (intestino) dalle
quali ne derivò la morte. Chiusa l’istruttoria formale il giovane venne rinviato al giudizio della Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (
Presidente Carlo Fellicò, giudice a latere Mario Mancuso, pubblico ministero Francesco Andreozzi) per omicidio preterintenzionale. Nel corso del
dibattimento furono ascoltati moltissimi testimoni. Ma il più attendibile di
tutti si rivelò il prof. Francesco Mammone che distinse l’avvenimento in due
episodi. Riguardo al primo escluso in modo assoluto e categorico che, mentre
Fabrizio Crisci manteneva alle spalle Antonio Crisci, il giovane Libero avesse
inferto il colpo mortale. Che i cugini si erano azzuffati in due momenti
diversi. Questa versione dei fatti venne anche confermata da altri testimoni: Maria Giuseppa Bernardo, Domenico Timorato,
Antonio Ferraro, Michelina Napolitano, Nicola Di Marzio e Pietro Crisci.
Libero Crisci, nella sua
condizione di detenuto si difese strenuamente e i i suoi difensori gli avvocati Ettore Botti e Alberto Martucci, si battettero per una totale assoluzione per
insufficienza di prove ed in subordine per legittima difesa ed ancora in via
subordinata la concessione delle attenuanti generiche e della provocazione. A
chiusura dell’istruttoria dibattimentale,
il pubblico ministero, chiese una
condanna a 12 anni di carcere. La Corte, dopo le arringhe difensive, con la
concessione delle sole attenuanti
generiche condannò il Crisci a 7 anni di reclusione.
Fonte:
Archivio Storico di Caserta
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