Scoppiò una rissa tra i gestori vecchi e quelli che
dovevano subentrare. Nel cortile del notaio Dell’Aversano si sparò. Rimase ucciso Raffaele Pezone per mano di
Gennaro Balivo. Furono feriti Gaetano
Orabona, Biagio, Michele e Antonio
Pezone.
Accadde
il 3 aprile del 1949 in Parete
Parete – Verso le ore 12 del 3
arile del 1949, il maresciallo dei
carabinieri comandate la stazione di Parete Eugenio Iannone, nel
percorrere una strada cittadine udì delle grida provenienti da via Magenta. Portatosi nei pressi notò che
tale Gaetano Orabona, si comprimeva con un fazzoletto alcune
ferite al viso; nello stesso tempo il maresciallo notava che i
fratelli Biagio e Michele Pezone, scappavano dall’altro
lato della strada. Non sfuggì al valoroso sottoufficiale che i due fuggiaschi
potevano essere i feritori dell’ Orabona e si lanciò al loro inseguimento, ma questi si dispersero nei dedali dei vicoli
che affluivano in via Magenta. Ritornato sui propri passi il comandante
constatò che alla via Magenta, altezza del civico n°7, - dove nel frattempo si
era adunata una gran folla di persone – era disteso a terra il cadavere di Raffaele Pezone che presentava una
ferita di arma da fuoco (presumibilmente i pistola) con foro di entrata alla
linea ascellare posteriore sinistra ed alcune escoriazioni all’indice e al
medio della mano destra. Dalle indagini immediatamente esperite risultò
che quella mattina erano convenuti nello
studio del notaio Silvestro
Dell’Aversano (alla via Magenta n° 7), Domenico
Pezone, gestore di fatto
dell’Esattoria Comunale di Parete e Assunta
Balivo, Vedova Orabona, titolare e
prestanome della Esattoria in virtù di una convenzione interceduta in passato
fra i rispettivi danti causa. Al Pezone si erano accompagnati i figliuoli Antonio, Biagio, Raffaele, Ottavio e
Michele; mentre con la Balivo vi erano i figli Gaetano, Alfonso e Domenico Orabona, nonché il fidanzato dell’altra
figliuola Ernesto Balivo. Vi era
anche presente il segretario comunale Giuseppe
Igeo e tale Francesco Falco,
intervenuti come amichevoli intermediari.
La clausola vessatoria che
provocò il delitto
Quella seduta era l’ultima di
una serie di incontri infruttuosi allo scopo di regolare mediante una speciale
convenzione i loro reciproci rapporti ed eliminare alcune divergenze che erano
derivate. Quando l’accordo sembrava ormai raggiunto e il notaio si era già
accinto alla chiusura dell’atto, Ottavio Pezone chiese di inserire
sul registro altra clausola in forza
della quale la Balivo avrebbe dovuto cedere
il diritto di esercizio che le competeva solo formalmente nel caso che
taluno dei figli del Domenico Pezone
avesse conseguito l’abilitazione alla gestione esattoriale. Interveniva a sua
volta Ernesto Balivo, il quale, nell’interesse della futura suocera – passava
come condizione per l’accettazione della clausola - che si inserisse nell’atto il corrispettivo
obbligo del Pezone di corrispondere alla
cedente una congrua indennità di buonuscita. Perdurando il contrasto e
risentito Domenico Pezone perché la proposta del Balivo – estraneo del tutto a
quell’affare – lo apostrofò con queste parole: “L’esattoria è mia e non tua, a te tuo padre ha lasciato il ‘bancariello’
da calzolaio”. Al che l’altro di
rimando: “Mio padre era calzolaio ma uomo
onesto”. Quasi a significargli che
tale non fosse il suo avversario. A questo punto i due gruppi si azzuffarono sotto
gli occhi esterrefatti del notaio. Domenico Pezone e Izzo si allontanarono
rapidamente mentre il Falco si adoperava a dividere i contendenti nel frangente
il notaio e la Assunta Balivo si traevano in disparte. Domenico Orabona,
investito dalla violenza del gruppo avversario finiva in altra camera
dell’appartamento del notaio evi si rinserrava e dal balcone prospiciente alla
strada lanciava grida di allarme richiamando l’attenzione dei passanti. All’interno,
intanto, la mischia nella quale riportavano lesioni quattro dei litiganti si
era rivolta con la forza sugli Orabona e di Biagio, Michele e Antonio Pezone.
Il delitto nel cortile del
notaio e il racconto dell’assassino
Fu in questo momento che
intervenne il maresciallo dei
carabinieri attratto dal clamore che si diffondeva da via Magenta e mentre si dava all’inseguimento dei
fratelli Biagio e Michele Pezone, nell’interno del cortile dell’edificio si
introduceva Gennaro Balivo, fratello
dell’Ernesto che esplodeva contro Raffaele Pezone due colpi di pistola
attingendolo al 5° spazio intercostale. Il ferito riuscì a varcare il portone e
portarsi in strada ma qui si abbatte esamine. L’omicida, affrontato da Francesco Falco, dopo breve colluttazione si liberò,
minacciandolo con l’arma impugnata (come
si dice in questi casi, con la pistola
fumante) e fuggì attraverso il giardino, dileguandosi nelle campagne
circostanti. Si costituiva la sera del 5 successivo nella caserma dei
carabinieri di Carditello. Fu prelevato, poco dopo, dai carabinieri di Parete
prontamente avvertiti. Egli rendeva il primo interrogatorio, il giorno 6, assumendo di essere occorso dal
cortile della sua abitazione sita nella stessa via Magenta, alle grida dalla
strada. Incontrò prima Gaetano Orabona,
già malconcio, poi vide suo fratello Ernesto uscire dal portone del
notaio col viso insanguinato. Allora entrò in quel cortile per rendersi conto dell’ acccaduto dei fratelli Ottavio e
Raffaele Pezone. Quest’ultimo, ad un certo momento, fece l’atto estrarre
un’arma dalla tasca posteriore dei
pantaloni – per cui ritenendosi in pericolo egli, più svelto, cavò dalla tasca
del panciotto la pistola e fece fuoco contro l’avversario. Mentre cercava di
guadagnare il largo attraverso il giardino del Notaio, fu affrontato dal Falco
che, dopo buona colluttazione, lo lasciò libero di fuggire. I carabinieri
interrogarono anche il notaio e tutti coloro i quali erano intervenuti nel suo
studio. Di costoro fornirono ragguagli dell’episodio finale soltanto Falco,
Ottavio Pezone, gli Orabona e Ernesto
Balivo, essendosi gli altri allontanati dal
cortile prima ancora che il Balivo vi accedesse.
Le contrastanti versione dei
fatti attraverso i testimoni oculari
Gli Orabona e Ernesto Balivo
dichiararono che esauritosi la rissa nello
studio del notaio, questa si riaccese nel cortile ad opera di Ottavio e
Raffaele Pezone, di danni del Balivo stesso, in soccorso del quale,
improvvisamente, intervenne il fratello Gennaro, che esplodeva contro gli
aggressori due colpi di pistola. Dal canto suo Ottavio Pezone dichiarò che –
scendendo per ultimo – assieme a Falco dallo studio del notaio udì delle grida
nella strada e poco dopo l’esplosione di un primo colpo proveniente dal
cortile. Raggiunse lo stesso e soprese Gennaro Balivo nell’atto di esplodere il
secondo colpo – all’indirizzo del fratello Raffaele che, presso lo sportello
del portone cercava scampo nella fuga. L’Ottavio temendo anche per sé –
facendosi scudo dei congiunti
dell’aggressore – raggiunse lo studio allontanandosi. Francesco Falco, invece,
sostenne di aver udito due esplosioni nel cortile mentre scendeva le scale, di
essere occorso e di aver visto Gennaro Balivo nell’atto di sparare contro
Raffaele Pezone che si trovava presso o sportello del portone. Egli, allora,
agguantò il Balivo gridando: “ Non
sparare…sei pazzo?…”, trattenendolo, senza successo, per pochi istanti. L’altro, divincolandosi,
riuscì a liberarsi della stretta e dopo averlo minacciato con la pistola in
pugno ottenne che lo di lasciasse andare. I carabinieri denunciarono all’A.G.,
Gennaro Balivo per omicidio volontario; Ernesto Balivo e gli Orabona e i Pezone
per partecipazione a rissa e lesioni reciproche. Iniziatosi l’azione penale
contro costoro (con l’istruttoria formale) Gennaro Balivo, però, continuava ad insistere nell’assunto prospettato ai
carabinieri, di aver dovuto respingere – ricorrendo alle armi
– l’aggressione dei fratelli Pezone in suo danno, riconfermando questa
versione anche su contestazione delle dichiarazioni rese dal fratello e dagli
Orabona che diminuivano l’azione da lui esplicitata in difesa del fratello
esposto al pericolo. Ottavio Pezone, ad integrazione delle dichiarazioni già
riferite aggiungeva che quando colse Gennaro Balivo nell’atto di sparare per la
seconda volta contro Raffaele – a ridosso del portone presso lo portello con la
mano sul lucchetto era Ernesto Balivo ( fratello dell’assassino) a sbarrare il
passo alla vittima. Siamo, sul caso in
esame a Parete, in un paese cioè, in cui l’affronto riveste carattere di
un’offesa a tutto il parentado; e se l’affronto valica i limiti di una ingiuriosa manifestazione verbale e si
concreta in atti di violenza che lasciano sul volto l’impronta della mano
avversaria o fanno sgorgare qualche goccia di sangue, esso assurge a gravità
eccezionale e reclama vendetta immediata ed esemplare ritenendosi soltanto
questo il rinvio valido a cancellare l’offesa. Comportarsi con moderatezza,
evitando inutili spargimento di sangue che rappresenta il senso di ulteriori
vendette, può incontrare la riprovazione e il discredito del pubblico. Questo
modo di sentire – se da un canto esprime la generale mutalità dell’ambiante –
dall’altro esercita a sua volta, lo stimolo alle nozioni, che assumono un grado
diverso a ricordo dei soggetti sui quali agisce. In un individuo timido e
pacifico, ovvero prudente ed
equilibrato, l’effetto sarò moderato, in un soggetto facilmente adirabile e propenso al litigio e alla
trasmodanza, l’effetto avrà un’intensità di gran lunga maggiore e diverse
saranno pure le conseguenze. A sorreggere le opposte versioni dei fatti furono
indubbiamente testimoni da entrambe le parti. La perizia necroscopica accertò
che l’unico colpo che raggiunse il Pezone era stato esploso dall’alto in basso,
il quale perforò il lato inferiore del polmone al pericardio. I periti
affermarono che il colpo era stato esploso
- oltre la prima curva balistica – presentando la vittima al suo
offensore il dorso leggermente voltato sul fianco sinistro.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
Condanna ad anni 17 e mesi 10 (anni 3 di libertà
vigilata a pena espiata). In appello ad anni 15.
Chiusa l’istruttoria, l’imputato venne rinviato al giudizio per
omicidio volontario. Nel dibattimento di primo grado, Gennaro Balivo ribadì la legittima difesa pur confutando le tesi
del fratello e degli Orabona; chiarì che intervenne in difesa del
fratello, curvo sotto le bastonate dei
fratelli Ottavio e Raffaele Pezone. La Corte di Assise di
Santa Maria Capua Vetere, (presidente Paolo
De Lise, giudice a latere, Victor
Ugo De Donato, pubblico ministero, Nicola
Damiano; giudici popolari: Giuseppe
De Rosa, Giuseppe Iavarone, Giuseppe De Chiara, Riccardo Ricciardi, Gennaro
Cervo, Pietro Squeglia, Lucio Argo), con sentenza dell’11 febbraio del
1952, condannò Gennaro Balivo, di anni
40 da Parete (arrestato il 5 aprile del
1949) ritenuto responsabile di omicidio volontario in danno di Raffaele Pezone,
nonché di minacce aggravate dall’uso dell’arma che impugnava, contro Raffaele Falco, ad anni 17 e mesi 10
(anni 3 di libertà vigilata a pena espiata). Assoluzione per lo stesso Balivo e
per Domenico Orabona, e per Alfonso e Biagio Pezone, per mancanza di querela. La sentenza venne appellata
dall’imputato che addusse che doveva ritenersi responsabile quantomeno di
omicidio colposo ed in subordine per legittima difesa, omicidio
preterintenzionale, l’attenuante della provocazione e assoluzione per le
minacce.
Con sentenza del 17 marzo 1956,
in parziale riforma della sentenza emessa dai primi giudici, la Corte di Assise di Appello di Napoli, Sez.
II°, (Presidente Guido Pisani,
giudice a latere Giuseppe Conti,
pubblico ministero Federico Putaturo),
condannava l’imputato ad anni 15 di reclusione. I giudici di secondo grado
rifiutavano di accogliere il motivo dell’eccesso colposo di legittima difesa, ( non vi erano i
presupposti); ritennero inoltre non veritiera la versione dei fatti secondo la
quale lui era intervenuto perché il fratello era stato colpito; non era vera la mossa che la vittima aveva fatto per
estrarre dalla tasca una pistola, e confessò la “verità” solo parzialmente. “Se
le azioni umane sono governate dalla logica
e dal buon senso – scrissero i giudici nella loro motivazione – questi
si rifiutano di prestar fede ad un gesto così inconsulto”. Il Raffaele,
che non aveva estratto l’arma per servirsene contro i numerosi avversari
diretti, nel furore della mischia, avrebbe spiritualmente ideato di servirsene
contro Gennaro Balivo col quale nulla aveva avuto da dire e che per giunta si presentava nell’atrio con l’aspetto tranquillo e mansueto
del pacificatore? Pezone non ha
aggredito Balivo e non ha potuto estrarre un’arma che non aveva. Occorre, poi,
rilevare che, nella particolare ipotesi, la causale non può essere ristretta
entro angusti confini di una formula fissa ed invariabile, ma bisogna
necessariamente porla in diretto rapporto con la personalità dell’agente, con
l’ambiante, con la mutualità dei soggetti, con la loro educazione e persino
nell’appagamento pubblico. “Appare,
pertanto, priva di valore reale – conclusero i giudici – la tesi sostenuta dalla difesa e diretta a
dimostrare la mancanza di proporzione della spinta causale di gravità del
delitto”.
Gravità e volontà omicida è l’esplosione del secondo colpo! Non ci
fu fatto ingiusto. Il gesto criminale fu lo sforzo della sua ira che ebbe
origine non già da una ingiustizia
patita, dal risentimento di aver visto
il fratello ferito. La Cassazione, il 23 ottobre del 1959, rigettò il ricorso
proposto dal Balivo. Nei tre gradi di giudizio, nel processo Gennaro Balivo più
otto, si impegnarono gli avvocati: Vincenzo
e Giuseppe Fusco, Giovanni Leone, Giacomo Giuseppone, Ettore e Massimo Botti, Alfredo De Marsico e Luciano
Numeroso.
Fonte:
Archivio di Stato di Caserta
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